Cultura | Letteratura
Fare pace con la non-fiction grazie a Deborah Levy
Autobiografia in movimento, racconto della sua vita tra la violenza dell’apartheid e i dolori dell’amore, è la prova che la non-fiction ha ancora libri eccellenti da regalare, nonostante la proliferazione di questi anni.
Ormai da un paio di anni c’è una costante nei discorsi tra gli addetti ai lavori (scrittori, editori, critici): la stanchezza e la nausea per la non-fiction. Eppure fine a poco tempo fa sembrava che non si potesse leggere altro. L’inchiesta o il reportage narrativo, il pamphlet impegnato in cui l’autore era anche un personaggio, i saggi romanzati, venivano lodati sulle riviste e sui siti per il loro ibridismo, per sfidare le definizioni di genere e per la loro postura antagonistica. I memoir si moltiplicano tutt’ora come uova di mosca in una ferita (malattie, madri morte, amici suicidi, la deindustrializzazione, il borgo – quasi sempre del Sud – di origine). La realtà improvvisamente non aveva più le virgolette: era quello di cui volevamo parlare e fare esperienza. Senza le intromissioni di quadri intermedi che percepivamo fastidiosi e anacronistici come burocrati del blocco sovietico (la trama e i personaggi). Volevamo interrompere la nostra sospensione di incredulità. Forse non ci interessava davvero sapere se le cose che ci raccontavano gli scrittori erano effettivamente successe (si trattava pur sempre di letteratura) ma ci bastava che accadessero al corpo o alla coscienza dell’autore, di una persona in carne ossa. In altre parole: non ci interessava più l’interiorità di un personaggio, ma la nostra. Avevamo bisogno di illusioni più sofisticate, di strategie di coinvolgimento più subdole, masochistiche. Con il passare del tempo la realtà ha finito per asfissiarci, per rendere inerte la nostra immaginazione: la fantascienza e il new weird sono sembrati a questo punto un antidoto. Abbiamo ripreso a leggere e scrivere romanzi che si ispiravano al naturalismo, a recuperare l’opera omnia di Balzac, a ritradurre Flaubert, a trovare piacere nell’immergerci in mondi di finzione diversi dal nostro, per quanto somiglianti.
Le ragioni culturali e sociali di questo fenomeno (di questa fame di realtà) sono state esaminate da molti studiosi (e le risposte sono sembrate il più delle volte insoddisfacenti), meno sono state analizzate le dinamiche tecniche: secondi alcuni sarebbe più facile scrivere di ciò che si conosce (seguendo un vecchio adagio) e quindi sarebbe più facile (più pigro) scrivere di sé (o di ciò che si è guardato direttamente con i propri occhi). Un’argomentazione interessante, ma che non considera la sua applicabilità alla maggioranza di scrittori di fiction di ogni epoca: lo studio, la documentazione, l’inchiesta sul campo, l’autoanalisi, servivano esattamente a questo, a conoscere quello di cui si scriveva come se lo si fosse vissuto. Ancora: non è una massima vecchissima che ogni scrittore parla solo di sé? Secondo molti, soprattutto secondo chi ha una certa familiarità con la psicanalisi o con la teoria letteraria, questo sarebbe paradossalmente più vero per un romanzo tradizionale, con personaggi inventati, che in una confessione. La differenza è che tutto questo materiale preparatorio veniva raffinato in una cornice e in una serie di convenzioni che a un certo punto non sono state più in grado di riflettere la nostra esperienza (non sono così sicuro di questa affermazione). Parallelamente a scrittori che provavano a rinnovare questi strumenti (non si è mai smesso di scrivere romanzi, fortunatamente), c’è chi ha optato per un taglio radicale, esponendo quello che prima era la materia grezza di un romanzo (l’inchiesta su un fatto di cronaca, le impressioni, le riflessioni metaletterarie, i dubbi etici) come centro stesso dell’opera. E in questa improvvisa trasparenza forse risiedeva la risposta a molti desideri dei lettori.
L’ondata di non-fiction celava in realtà due magagne che sono apparse evidenti solo dopo: anche i numerosi sottogeneri della narrativa “reale” funzionano – esattamente come l’odiato romanzo realista – tramite delle convenzioni. Anche leggendo questi libri (inchieste, reportage, memoir, testi ibridi) sentiamo «il rumore degli ingranaggi», come diceva Sebald a proposito della narrativa tradizionale. Quello che negli autori e autrici forti inizialmente ci ha emozionato è diventato piano piano maniera (negli stessi autori/autrici e nei loro epigoni), finendo per aderire in pieno all’orizzonte d’attesa anche del lettore meno smaliziato.
In più: non so se sia più difficile scrivere di sé (riuscendo a genere un interesse che vada al di là di un’ingenua empatia o del pettegolezzo) rispetto che a scrivere di altri, sicuramente non è più facile (c’è chi dà il meglio in un campo chi nell’altro, raramente in entrambi). La conseguenza di quanto sto dicendo è sorprendentemente banale: in mezzo a tanta non-fiction paraletteraria, che ha ulteriormente allargato il campo di chi scrive libri, ci sono dei capolavori che vale la pena leggere e rileggere (alcuni del passato e altri che continuano a essere pubblicati). E – altra sorprendente banalità – ciò non dipende da quanto estremo o sofferente o piacevole o esotico o straniante è ciò che questi libri ci raccontano, ma dal livello della loro elaborazione formale, della loro complessità stilistica, dalle sfide morali o cognitive che ci richiedono. Dalla maestria con cui sono stati scritti. Secondo molti, tra cui il sottoscritto, il danno principale della non-fiction è stato il suo contenutismo, il propugnare una letteratura fatta di tematiche, di emozioni, di cose, ma non di scrittura. La sua fallacia antiformalistica ha fatto credere che tutto potesse essere letteratura, che se una cosa era davvero vissuta poteva essere trasmessa con pigrizia, come se la stessimo raccontando a un amico. La sua scabrosità e il suo interesse risiedevano unicamente nell’essere davvero successa.
Credo sia necessario riconoscere la non-fiction come un (macro)genere o come una tecnica letteraria (un insieme di tecniche), una possibilità come un’altra e che, nei suoi casi migliori, non rinuncia ad alcun vantaggio portato dalla forma romanzesca. Non è giusto screditarla o esaltarla a priori. In alcuni casi, sembra una scelta che “libera” gli autori di alcuni vincoli e permette loro di raggiungere picchi espressivi e di introspezione altrimenti inarrivabili nella loro produzione di fiction. Un caso evidente è quello di Deborah Levy, autrice di romanzi (alcuni pubblicati anche in Italia) che ha raggiunto un successo globale quando ha iniziato a parlare di sé, con la sua Autobiografia in movimento, tradotta quest’anno da NN Editore (i primi due volumi, Cose che non voglio sapere, del 2013, e Il costo della vita, del 2018, sono già stati pubblicati, il terzo, Bene immobile, uscirà in autunno). Ci sono frasi come queste che mi ricordano perché la non-fiction mi procura, in certi casi, una strana eccitazione:
«Quando una scrittrice porta un personaggio femminile al centro della sua indagine letteraria (o di una foresta) e quel personaggio inizia a proiettare luci e ombre dappertutto, deve trovare un linguaggio che in parte ha a che fare con l’imparare a diventare un soggetto piuttosto che un’illusione, e in parte con lo sciogliere i nodi con cui è stata messa insieme dalla società. Dovrà essere molto cauta perché avrà già molte illusioni sue. In effetti, sarebbe meglio essere incauti. È faticoso imparare a diventare un soggetto, figuriamoci una scrittrice».
Levy racconta la storia di un’infanzia sradicata tra il Sud Africa dell’apartheid – ma dalla parte giusta, di bianchi eruditi, ribelli, progressisti e perseguitati dal governo – e la Londra degli anni ’70, in cui i Levy si rifugiano dopo la scarcerazione del padre dissidente (Cose che non voglio sapere); e la storia al presente della dolorosa fine di un matrimonio e delle idee patriarcali subite di riflesso che porta con sé. Sullo sfondo, come un basso continuo, troviamo delle analisi sul ruolo della donna nella società neoliberista, nella quale il femminismo dell’empowerment ha non solo rafforzato il patriarcato ma gravato le donne di ulteriori aspettative e vincoli di genere oltre ai gioghi storicamente pendenti da millenni («Ci era chiesto di essere passive ma ambiziose, materne ma eroticamente appetibili, pronte al sacrificio ma appagate: dovevamo essere Donne Moderne e Forti, pur subendo ogni tipo di umiliazione, sia economica sia domestica»). Insomma, l’autobiografia serve come un grimaldello per forzare una storia dell’emancipazione dell’agency femminile dalla narrativa sociale, verso un “personaggio femminile inedito”. Lo stesso concetto di maternità (vista come un’ennesima produzione della “coscienza maschile”), al centro di entrambi i testi, è affrontato con un’intelligenza e una ferocia spiazzanti.
Quello che ho trovato sorprendente dello stile semplice (che non vuol dire poco curato, tutt’altro) di Levy è come questo rendesse al meglio nelle parti che di solito tendo a trovare più noiose nei memoir: il racconto dell’infanzia e quello della morte del padre/madre. È un mio limite: quando un autore vuole raccontarmi di sé da piccolo (a meno che non sia Proust o Bernhard) la mia attenzione crolla e inizio a scalciare insofferente sotto il lenzuolo. Invece mi sono ricordato quanto sia piacevole immergersi in una storia, guidato da una scrittura calibrata e reticente che abbassa sempre la temperatura della materia che tratta. Meno felice e più convenzionale, soprattutto nel secondo volume (meno intenso del primo), è uno dei leitmotiv del “genere non-fiction”: l’incontro elusivo e criptico e con l’altro-da-sé. Il venditore cinese (che però funziona come perfetto espediente narrativo), la padrona dell’albergo maiorchino, Clara o la studentessa talentuosa (momento stucchevole). Verrebbe da dire: i soliti personaggi opachi e smangiucchiati della non-fiction, che nella loro impenetrabilità dovrebbero rimandare a un senso ulteriore, o a un alone di possibilità lasciato lì, a metà sulla pagina, e che hanno solo la stanchezza di un artificio vuoto, o peggio, di qualcosa di realmente accaduto che però resta estraneo alla forma.
Anche le digressioni saggistiche sono particolarmente riuscite, soprattutto quando trovano una controparte narrativa nel testo: tutta la riflessione sull’autonomia e la libertà femminili (e sulla loro fatica, in una visione mai edulcorata) è tradotta benissimo in quelle quattro pagine in cui Levy, descrivendo la quantità di chiavi che possiede e la difficoltà nel trovarle, fa intuire il sovraccarico fisico e cognitivo a cui ogni giorno – da quando è divorziata e cresce le figlie da sola, con scadenze e consegne lavorative a cui è legato il benessere della famiglia, e che dipendono da qualcosa di immateriale come la scrittura artistica – è sottoposta.
Certo Levy – e ciò forse smorza un po’ il mio entusiasmo nei confronti di quest’autobiografia – non parla quasi mai, o troppo genericamente di soldi: quanto paga di affitto per un trilocale, quadrilocale, non lo sappiamo (la cucina sembra essere molto spaziosa), a Londra? Quanto guadagna con i diritti dei suoi libri, con gli adattamenti cinematografici, quanto le danno di anticipo gli editori? Quanto sono costate le cure della madre? E, soprattutto, che lavoro fa il suo ex marito e quanto passa di assegno alle figlie? Sono domande che mi sono fatto lungo tutto Il costo della vita, temendo a ragione che questo costo fosse solo metaforico, e ricevendo dal testo segnali discordanti: Levy è una scrittrice tradotta in più Paesi, proveniente da una famiglia agiata, il che lascia intravedere un certo privilegio, ma nel suo racconto si fa riferimento allo squallore urbano, ad amiche «senza problemi economici», si fa la spesa in discount molto diversi da Whole Foods e in generale c’è un’aria da piccola-borghesia (certo con gli affitti e le bollette del Nord di Londra). Resta intatta la fatica di una donna che cercando di rispondere a richieste (personali, sociali, estetiche) discordanti che minacciano di mandarla in frantumi, tiene assieme tutti i pezzi con la forza della scrittura, regalandoci la sua opera più bella e influente.