Cultura | Scienza

David Quammen: leggere la pandemia come se fosse un romanzo

Intervista all'autore di Spillover, ritornato in libreria con Senza respiro, una storia corale del Covid, dal pipistrello al vaccino.

di Cesare Alemanni

Nella prima pagina di Senza respiro David Quammen, uno dei migliori divulgatori scientifici del nostro tempo, paragona l’arrivo del Covid nel 2020 a un «puntino scuro all’orizzonte». Una metafora – ripresa anche sulla copertina della bella edizione Adelphi – che ci ricorda come tutte le cose, anche le più colossali, comincino da qualche parte. Appaiono sui nostri radar dapprima come minuscoli segnali in mezzo al rumore. Tutto sta nel saperle riconoscere in tempo e, se proprio non si possono fermare, nel farsi trovati preparati all’impatto. Poche persone hanno fatto più di Quammen per accrescere la preparazione dell’opinione pubblica in merito alle patologie infettive. Uno dei suoi libri più celebri, Spillover, è dedicato a spiegare la zoonosi: il processo per cui un virus passa (spill-) da una specie animale a un’altra (-over). Spillover era già un caso editoriale mondiale prima del Covid e lo è diventato a maggiore ragione dopo. Nel picco della pandemia migliaia di persone lo hanno letto per cercare di capire cosa stesse accadendo. Come fosse possibile che un patogeno invisibile avesse deragliato le vite di miliardi di persone.

Per ragioni legate a un personale, e un po’ morboso, interesse per la storia della peste e del virus ebola, avevo letto Spillover a metà anni Dieci. Anche grazie a quella lettura, quando si è iniziato a parlare di una “strana polmonite in Cina”, ho preso la cosa molto sul serio e ho detto alle persone a me più care di fare altrettanto. Non ho dubbi che molti altri lettori di Quammen abbiano fatto lo stesso, evitando a persone vulnerabili di ammalarsi. Non sono tanti i libri che possono dire di aver davvero salvato delle vite ma di sicuro Spillover è tra questi. Ora ovviamente le cose sono molto cambiate. Ignorare, o sottovalutare, i virus non è più un privilegio che possiamo permetterci. Senza respiro esce perciò in un mondo molto diverso da quello di qualche anno fa. Tuttavia la sua straordinaria ricostruzione della vicenda del virus SARS-Cov2 e degli scienziati che lo hanno scoperto, studiato e combattuto non è per questo meno urgente. Servirà a ricordare alle generazioni che c’erano, e a quelle che ancora non ci sono, quanto dura è stata la battaglia e quanto straordinarie sono state le persone che, seppure tra mille difficoltà, l’hanno combattuta. Serve e servirà a essere un po’ più preparati, la prossima volta che un “puntino scuro” apparirà all’orizzonte.

La mia intervista a David Quammen inizia proprio da qui. Dalla difficoltà di scrivere un libro sulla più grande calamità degli ultimi decenni mentre questa è ancora a tutti gli effetti in corso. «È stato molto diverso da scrivere Spillover. È stato difficile e tricky. Ogni mattina mi svegliavo ed era successo qualcosa che cambiava completamente un aspetto della storia. Per cui mi trovavo a chiedermi “cosa c’è di davvero importante in questa notizia?”. “Cosa sarà ancora rilevante tra due anni o tra dieci?”. Mi sono dovuto spesso porre domande sull’integrità della narrazione. Non stavo solo scrivendo del Covid-19 ma volevo anche ci fosse una qualità narrativa in grado di catturare il lettore. Una storia fatta di personaggi e delle loro azioni e delle conseguenze di quelle azioni. Creare una narrativa coerente in tempo reale è stato un po’ come ricomporre un puzzle, o un mosaico, di una scimmia che corre velocissimo. Se lo guardi da lontano ti dà questa impressione di velocità, drammaticità, urgenza ma se ti avvicini vedi che ci sono tanti piccoli dettagli, tanti fatti diversi, che si intrecciano a formare la scena e l’impressione di dinamismo e violenza che ti dà».

ⓢ Quanto è difficile spiegare in modo interessante concetti complessi come l’Rna o la natura più profonda dei virus? Come si lavora su un libro simile, in fase di ricerca quanto di scrittura, per far sì che risulti comprensibile a tutti senza banalizzare?
Credo mi aiuti non essere uno scienziato. La mia formazione è in realtà letteraria. Prima di fare questo lavoro scrivevo fiction e romanzi. Il mio primo romanzo è uscito 52 anni fa… incredibile già 52 anni… A ogni modo, solo più tardi ho deciso di scrivere non-fiction e giornalismo e per la precisione di occuparmi di scienza. Il fatto di non avere avuto una educazione scientifica mi ha paradossalmente aiutato e mi aiuta tuttora a ragionare su come questi concetti tanto difficili appaiano a un pubblico di non specialisti. Quanto possano intimidire o respingere. Lo capisco perché l’ho vissuto anch’io all’inizio. E dunque cerco di scrivere immaginandomi di star spiegando queste cose a una singola persona per volta. Non intendo una persona specifica o realmente esistente – anche se alcuni fanno così – ma cerco comunque di pormi sempre domande come “dove si trova il lettore in questo momento?” e di mantenere con lui una specie di conversazione. Quasi come fosse un amico con cui sto bevendo una birra e a cui ho voglia di raccontare qualcosa di interessante.

ⓢ Una parte del libro è occupata dal racconto dell’incredibile sforzo della comunità scientifica per ricostruire l’origine del virus. Si vede bene come, a dispetto di tutto, esista una grande collaborazione tra scienziati. Siano essi cinesi, americani, africani, europei. Negli ultimi anni tuttavia, la situazione geopolitica si sta compromettendo, in particolare per quanto riguarda le relazioni tra i due great powers: la Cina e gli Stati Uniti. Non teme che questo avrà un effetto negativo anche sulla cooperazione scientifica internazionale e quindi sulla nostra capacità di prevenire e contrastare le future pandemie?
Assolutamente sì, purtroppo. Parte dei problemi nasce da Trump e dal suo modo aggressivo e razzista di chiamare il virus con termini come “febbre cinese”. Ma non solo. Un’altra parte del problema dipende dall’atteggiamento delle autorità cinesi che hanno addirittura cercato di negare il fatto che il virus sia nato in Cina, seppure non ci siano prove convincenti a sostegno di tale tesi. La mancanza di trasparenza e l’aumento di segretezza delle informazioni inoltre è sicuramente peggiorato in questi ultimi anni, specie a partire dai primi mesi di pandemia, ed è molto pericoloso per il futuro perché la cooperazione scientifica internazionale è un elemento essenziale nella prevenzione di future pandemie.

ⓢ Scrivo di logistica e supply chains e ho trovato molto interessante che uno dei virus col genoma più simile a SARS-1 sia stato rintracciato, nel 2012, in una miniera di rame del Tongguan, dove l’incontro tra alcuni minatori e alcuni pipistrelli (serbatoi biologici dei coronavirus) causò un circoscritto outbreak di polmonite non identificata. Il fatto è che il mondo dipenderà sempre più dall’estrazione di minerali. Proprio il rame sarà sempre più richiesto per fare batterie, a loro volta indispensabili per affrontare la transizione energetica. Ecco dunque uno scenario in cui la crisi climatica richiede l’intensificazione di un sistema, quello estrattivo-minerale, che incrementa rischi biologici che a loro volta attivano crisi logistiche che causano crack economici e geopolitici che, a loro volta, si intensificano per ragioni climatiche. E così via in un loop che lascia poco spazio all’ottimismo. Come possiamo pensare che sistemi tanto interconnessi possano reggere ancora a lungo, specie in un mondo in cui un virus può muoversi da una parte all’altra del pianeta in poche ore, anziché in mesi o in anni come accadeva nell’epoca pre-industriale?
Hai senza dubbio centrato un punto: le supply chain sono molto importanti nella storia delle pandemie. Insieme ad altre cose, le supply chain muovono i virus e li aiutano a propagarsi dai loro luoghi di origine. E il tutto, hai ragione anche su questo, comincia con l’estrazione di risorse dalla natura. È l’estrazione di guano per fare fertilizzanti. È l’estrazione dei minerali strategici. È l’estrazione del coltan in Congo per fare i nostri amati smartphone. Ma perché questi processi di estrazione si moltiplicano nel modo in cui si moltiplicano? Perché la popolazione continua ad aumentare e continua a consumare a ritmi sempre più sostenuti soprattutto nei paesi avanzati. Detto ciò: ci sono modi per tenere i virus fuori, per quanto possibile, dai nostri sistemi. Monitorandoli, sorvegliandoli, contenendoli prima che si diffondano. Addestrando persone in grado di agire a più livelli – volontari, medici veterinari, medici ordinari, medici specialisti, virologi, epidemiologi – per fermare gli spillover prima che diventino outbreak, gli outbreak prima che diventino epidemie e le epidemie prima che diventino pandemie. Tutto questo rischia però di non bastare se non riusciamo anche a controllare la radice primaria dell’aumento dei rischi: ovvero la crescita delle popolazioni e, soprattutto, dei loro consumi.

ⓢ Al contempo mi sembra ci sia un paradosso per cui più la scienza e la tecnologia riescono a fornire risposte e soluzioni alle emergenze sanitarie e più sembra che le società avanzate siano diventate del tutto incapaci accettare l’inevitabilità di questi eventi. Assistiamo quindi a reazioni irrazionali e violente. È come se fossimo diventati al contempo oggettivamente più resistenti a questi shock, appunto grazie alla scienza, ma soggettivamente, o culturalmente, più fragili. I nostri nonni o bisnonni hanno vissuto l’influenza spagnola – cinquanta milioni di morti, non dimentichiamolo – e molti non ne avevano neppure sentito parlare fino a tre anni fa. Il Covid viceversa è stato vissuto come una specie di Armageddon biblico senza precedenti. Che idea si è fatto di queste dinamiche psicologiche?
Una delle cose più importanti che devono fare quelli come me e te, che per lavoro comunicano con il pubblico, è di ricordare alle persone che l’essere umano non è separato dalla natura. È un mammifero che si è evoluto da altri mammiferi. È parente stretto dello scimpanzé. È un parente di grande successo visto che la nostra popolazione cresce mentre quella degli scimpanzé purtroppo diminuisce ma questo non significa che dobbiamo ergerci su un piedistallo. È solo che siamo stati un po’ più fortunati nella lotteria dell’evoluzione ma i nostri DNA sono molto simili. Con questo voglio dire che siamo connessi alle altre creature. Non siamo una cosa a parte. Tutto ciò che è accaduto nella storia del genere umano ha strettamente a che fare con l’ecologia e la biologia evolutiva. Non sono l’ecologia e la biologia a essere delle sottocategorie della storia umana ma il contrario. Questo significa molte cose difficili da capire e da accettare: per esempio il fatto che moriamo se entriamo in contatti con determinati virus. E viviamo su un pianeta popolati da miliardi di virus. Moriamo perché siamo animali. Siamo esseri biologici e dobbiamo accettarlo.

ⓢ Esatto. Come le dicevo mi interesso di storia delle grandi pestilenze ed è come se, per quanto molto più arretrate materialmente, le società antiche e medievali fossero, in un certo senso, più elastiche allo shock che questi tragici macro-eventi rappresentavano. Forse proprio perché maggiormente abituate ad accettare la naturalità della morte.
È così. E per questo una delle cose che dobbiamo fare, di più e meglio, è insegnare ai bambini soprattutto due materie: la storia e la biologia. Sì, è senz’altro importante che i bambini imparino la matematica, l’informatica, le lingue e così via… ma è solo attraverso lo studio della storia e della biologia che un bambino, un essere umano, può essere davvero aiutato a capire “cosa ci fa su questo pianeta”. “Come mai le cose sono come sono”. Sono domande cruciali specie oggi che siamo una cultura sempre più globale e interconnessa e in cui tutto ruota sempre più intorno all’informazione.

ⓢ Parlando di informazione. Perché secondo Lei sempre meno persone si fidano degli esperti anche quando si tratta letteralmente di questioni di vita o di morte come un virus? Perché principi logici come il “rasoio di Occam” hanno sempre meno presa e le persone hanno sempre più bisogno di crearsi teorie iper-complesse per mettere in dubbio nessi causali spesso semplici?
In un certo senso è sempre stato così, credo. Alle persone piace immaginare cose grandiosamente complicate dietro eventi che faticano a comprendere o accettare, anche quando sono semplici. Dopotutto ci sono persone a cui piace il vino dolce. Non fa bene, non è quasi mai di grande qualità.

ⓢ Un po’ tipo junk food.
Esatto, le teorie cospirative sono un po’ il vino dolce o lo junk food della Storia. Ti fanno sentire sazio ma in realtà non ti danno nutrimento. Ricordo ancora quando uccisero Kennedy. Avevo 14 anni. Quasi sessant’anni dopo ci sono ancora persone che non credono al fatto che sia stato il solo Lee Harvey Oswald con un fucile scadente. Preferiscono una teoria cospirativa piuttosto che una storia così banale, nonostante dopo sei decenni non ci sia una sola prova  convincente del contrario. Quando gli eventi sono così grossi e importanti, sembra che le persone abbiano bisogno di sapere che hanno delle cause altrettanto grosse e importanti. È un problema terribile che abbiamo anche rispetto al covid. Piuttosto che credere che dipenda tutto da una serie di accadenti naturali, si preferisce immaginare una storia più colorita. La differenza col passato è che oggi queste storie hanno mezzi molto più capillari attraverso cui diffondersi.

ⓢ Cambiando completamente argomento. So che Lei è un amante di Faulkner e ha fatto una tesi a Oxford su di lui. È uno dei miei scrittori preferiti e il racconto Go Down, Moses è probabilmente uno dei miei tre racconti preferiti di sempre. Trovo tuttavia un po’ paradossale l’accostamento con Lei, visto che non parliamo di un autore famoso per la chiarezza, cosa che invece contraddistingue il suo lavoro come scrittore. Qual è, se c’è, il suo debito con Faulkner? O anche con altri autori più vicini al suo lavoro. Mi viene in mente, non so, Matthiessen.
Matthiessen? Peter Matthiessen?

ⓢ Sì lui.
Peter è stato uno dei miei migliori amici, mio e di mia moglie. È stato come un fratello maggiore per me, un maestro. A casa nostra aveva una stanza tutta per lui quando veniva a trovarci. Venendo a Faulkner, sì, hai ragione: non era famoso per essere chiaro ma il suo punto di forza era la capacità di aggiungere un livello della narrazione dopo l’altro, un dettaglio sopra un altro dettaglio. La sua maestria e il suo senso per la struttura erano straordinari. La sua capacità di gestire le informazioni e manipolare, in senso buono, la curiosità e l’attenzione del lettore erano incredibili. Faulkner sapeva che la realtà è fatta di innumerevoli pezzi e che la verità di ogni singolo evento è sempre custodita da diverse persone e da diversi punti di vista. Studiava la realtà come un orologiaio svizzero studia il meccanismo di un orologio per capire come funziona. È una cosa che cerco di fare anche io. Anche se quando leggevo Faulkner non sapevo che sarei finito a scrivere di scienza o di biologia evolutiva, o ancor meno di virus, mi è rimasto l’interesse per le strutture narrative costruite con cura. Non mi interessano le strutture troppo lineari. Cerco sempre di mescolare le carte, di scrivere libri con strutture più intricate e intrecciate. Ecco tutto questo viene dal mio studio di Faulkner. Non il modo in cui uso la struttura e nemmeno lo scopo per cui la uso ma l’attenzione per la struttura.

ⓢ Tornando ai virus. Al di fuori degli specialisti del campo, lei probabilmente è una delle persone che sa più cose sui virus al mondo. Qual è, per il futuro, la cosa che la preoccupa di più? C’è un virus o una famiglia di virus con il potenziale di causare una nuova pandemia?
Se dovessi dire un solo patogeno direi l’influenza aviaria. Ma quello che davvero mi preoccupa sono i tre grandi problemi nell’insieme: la crisi climatica, i rischi pandemici e la perdita di biodiversità. Quello che mi preoccupa non è solo la perdita di vite umane ma anche il fatto che l’orso polare rischia l’estinzione a causa del climate change. Sono preoccupato perché gli insetti, di cui spesso ci si dimentica ma sono fondamentali, stanno diventano molto meno numerosi e diversi. L’idea di vivere in un futuro in cui non vedremo più farfalle è un incubo, per me. Non ho figli né nipoti ma se li avessi sarei devastato e depresso all’idea che cresceranno senza vedere farfalle. Che vivranno in un modo in cui l’orso bianco, il gorilla e innumerevoli altre specie potrebbero non esistere più su questo pianeta.