Attualità

David Foster Wallace

Cosa leggere per orientarsi nell'universo dello scrittore del "Re Pallido"

di Francesco Pacifico

“Viaggiare informati” sulla superstrada DFW

Prima parte: i romanzi.

Noto che le librerie sono piene del romanzo postumo di David Foster Wallace Il re pallido e sento oggi di dover fornire delle informazioni di servizio per aiutare gli indecisi, gli swing voters che non sanno ancora se stare dalla parte di chi lo ama e difende a spada tratta, o da quella di chi trova più elegante ignorarlo.

Sono la persona giusta per farlo visto che mi sono trovato nella posizione di swing voter di fronte all’unico fenomeno letterario contemporaneo paragonabile a Wallace, Roberto Bolaño, e posso quindi empatizzare con gli indecisi e sapere per certo di cosa hanno bisogno.

Su un New Yorker recente, Martin Amis, introducendo una recensione della raccolta di racconti di Don DeLillo, fa un’affermazione generale stupenda: quando diciamo che amiamo uno scrittore, intendiamo che amiamo al massimo metà della sua opera. Gli adoratori di Wallace dovrebbero tenerlo presente quando guardano storto chi non lo ama.

Ci sono poi alcuni elementi ancora tutti da stabilire. Wallace è l’unico autore della storia che fa soffrire quando lo si legge: aiuto!, non sono come lui! Non capita né con Tolstoj né con Proust né con DeLillo. La sensazione che Wallace sia troppo intelligente e perspicace crea una distanza tra lui e la grande letteratura, che è di solito una faccenda di creatività, sensibilità, intelligenza sempre in qualche modo nascoste. È anche vero che i nemici di Wallace – o per meglio dire i nemici degli wallaciani – con quella gioia con cui si risparmiano migliaia di sue pagine dichiarandole non necessarie al Canone, sono compagnie pericolose che ti possono privare di uno dei modi più intensi e ipnotici di fare esperienza mediata dell’America Oggi. (E però, se vogliamo dirimere la questione Wallace-Bolaño, diciamo che un grande amante di entrambi, Lorin Stein di Paris Review, ha detto a Repubblica, in un’intervista, Wallace ti fa passare la voglia di scrivere, Bolaño te la fa venire.)

Insomma ciò di cui avete più bisogno oggi per capire il da farsi e superare la fase in cui siete – mi si nota di più se leggo il Re Pallido o se non lo leggo?, magari se leggo La ragazza dai capelli strani seduto sul davanzale, in controluce? –, è una guida ai punti di accesso privilegiati ai vari libri di Wallace, per capire se sono adatti a voi. L’incipit di un libro non è il modo migliore per decidere se affrontarlo. Studiare il traffico sulla via di casa non è il modo migliore per sapere se piove sulla A1.

La scopa del sistema. 1987. NON SERVE.

Nessuno ne parla mai. Prodotto vero del Wallace studente, contiene riferimenti a Wittgenstein. Non è necessario leggerlo, ma piace alle ragazze perché dentro c’è sia gente in gamba che gente che fa sesso, o almeno questa è l’aria che tira nel libro.

Per verificare un eventuale interesse nel romanzo, leggere questo passaggio che contiene una delle frasi più famose di Wallace: “Mi manca chiunque”. Se questo accorato monologo è nelle vostre corde, potete leggerlo (ah, mannaggia, cito l’edizione Fandango, fuori catalogo perché il libro alla scadenza del primo contratto è stato riposizionato su Einaudi Stile Libero; comunque, è nel capitolo “5 1990”, alla fine del paragrafo “/c/”):

(…) Adesso Vance è alla Fordham, dove studia arte. Non parlo con Vance da quasi un anno. Non capisco perché.

Vance mi manca con un’intensità simile a quella che dedichiamo agli assenti destinati a mai più tornare. Vance non esiste più. È stato demidollato nel 1983, in uno studio medico di Park Avenue, da un uomo che per l’impresa ha preteso cento dollari. Vance è, lo so per certo, un omosessuale, e probabilmente un tossicodipendente, lambito dalle e mollemente crogiolatosi nelle brezze inodori del gelido alito scarsdaliano della madre, dedito a realizzare sempre più puntigliosamente i suoi perfetti ed esanimi e piatti disegni a gessetto. Tempo fa ne ho ricevuto uno: uno sgomento me stesso immobile nel prato, con il rastrello in mano e Veronica che mi compare incongruamente sopra una spalla recando su un vassoio nero qualcosa da bere. La busta marrone con dentro il disegno mi era stata spedita anonima all’indirizzo della Frequent Review, e quindi aveva atteso per settimane di essere aperta.

Mi manca Lenore, qualche volta. Mi manca chiunque. Ricordo quando ero giovane e avvertivo una sensazione e la identificavo come nostalgia di casa, e poi pensavo che era proprio strano, visto che a casa ci vivevo. Che diavolo di conclusione trarre da tutto questo?

Mi manca e amo con tutto il mio pulsante bolo purpureo una strana ragazza nata in una famiglia rutilante e terribile, una ragazza per molti versi rutilante e terribile, appollaiata sulla scoffa del veliero Frequent & Vigorous a scrutare le vaghe distese elettriche in cerca dell’esile pennacchio d’una telefonata pertinente. (…)

Infinite Jest. 1996. FONDAMENTALE.

È il cosiddetto capolavoro di Wallace, è un libro di fantascienza di oltre mille pagine e parla di adolescenti tennisti e di un gruppo di narcotici anonimi. I vari intrecci che lo compongono sono fatti a pezzi dall’autore per rimontare un po’ a caso (ma nooooon a caso, certo) il libro, in modo che la lettura sia un’esperienza immersiva e non involgarita dal bisogno di sapere come va a finire. Ma è in effetti un romanzo avvincente, e nella scuola di tennis regna un clima da South Park sia vero che comico, ci sono molti personaggi interessanti e ci si appassiona. Ciò non toglie che sia un libro per cui servono motivazioni. Sono convinto che si debba cominciare a pagina 429 (dell’edizione Fandango. Ora è in giro l’edizione Einaudi Stile Libero; per orientarsi, diciamo che la data è “8 novembre Anno del Pannolone per Adulti Depend, Giorno dell’Interdipendenza): lì comincia la lunga descrizione di una partita dei tennisti a Eschaton, il gioco di ruolo per nerd che si gioca con racchette e palle sgonfie: un risiko complicato che richiede calcoli matematici e passione ossessiva. Se non ti piace l’idea di seguire un gioco di ruolo all’interno di un romanzo, inutile perdere tempo a leggere le trecento pagine precedenti. Il gioco dura molto, circa trenta pagine, si gioca sui campi da tennis della Enfield Tennis Academy e funziona così:

Ci vogliono dalle otto alle dodici persone per giocare a Eschaton, 400 palline da tennis così sgonfie e spelacchiate da non poter essere più usate nemmeno per gli allenamenti al servizio, uno spazio aperto grande quanto quattro campi da tennis, una mente adatta all’elaborazione dei dati secondo una fredda logica, e poi almeno 40 megabyte di RAM disponibile e un ampio schieramento di attrezzi da tennis. Il regolamento, quasi un vademecum, che Pemulis fece scrivere a Hal Incandenza nell’A.P.P.W. – con appendici e diagrammi decisionali c:\Pink2\Mathpak\Endstat e una stampata del saggio più accessibile che Pemulis poté trovare sulla teoria applicata dei giochi – è lungo e interessante quasi quanto lo stupefacente Viaggio del Pellegrino da Questo Mondo a quello che Deve Venire di J. Bunyan, e un osso bello duro da comprimere in qualsiasi mente (sebbene ogni anno una dozzina e più di ragazzini dell’Enfield Tennis Academy lo impari a memoria in così fanatica profondità che, talvolta, ne recitano sottovoce dei passaggi sotto anestesia dentale o cosmetica, anni dopo). Ma se Hal avesse una Luger puntata contro e dovesse provarci, probabilmente inizierebbe spiegando che ciascuna delle 400 palle da tennis sgonfie dell’arsenale globale del gioco rappresenta una testata termonucleare da 5 megatoni. Del numero totale di giocatori di un dato giorno, tre compongono una teoretica Anschluss denominata AMNAT, altri tre CARSOV, uno o due REPCINA, un altro oppure altri due lo strano ma fascinoso LIBSIR o l’ancora più formidabile IRLIBSIR, e il resto dei giocatori di quel giorno, basandosi su involute considerazioni casuali, posso formare qualsiasi cosa, da SUDAF e INDPAK a una cellula terroristica di Boscaioli insurrezionisti con grandi idee e un Howitzer da 50.

Se piove e siete in libreria a leggere di Eschaton su una copia nuova di Infinite Jest, andate a controllare se vi piacciono i tossici di Boston che, nel capitolo successivo a quello su Eschaton, vengono raccontati per filo e per segno senza risparmiare sul numero di pagine. Piccolo estratto:

Ogni sera a Boston ci sono macchine piene di adesivi e di persone totalmente sobrie con gli occhi sbarrati dalla caffeina che cercano di leggere indicazioni scritte in modo illeggibile alla luce del cruscotto, e queste macchine si incrociano per la città dirette verso gli scantinati delle chiese o le sale per la tombola o le mense delle case di cura dove si riuniscono altri gruppi Alcolisti Anonimi di Boston, per far fronte ai propri Impegni. Essere un membro attivo di un Gruppo degli AA di Boston è un po’ come essere un musicista professionista o un atleta, per quanto riguarda il continuo spostarsi.

Il re pallido. 2011. NON LO LEGGERAI.

Romanzo incompiuto, postumo, parla in modo fantascientifico, distopico, borgesiano, di un ufficio del fisco dell’Illinois negli anni Ottanta. L’argomento del libro è la noia come fonte di elevazione spirituale.

Leggere il Re pallido (Einaudi Stile Libero) si rivelerà molto più complicato che comprarlo per la bella mole che dà un’aria busy e pensosa al vostro comodino. È un romanzo postumo assemblato dall’editor: un enorme lavoro in fieri che si preannunciava più complicato da realizzare di una partita a Eschaton. Non è più coerente di quanto non sia il concept album di racconti Brevi interviste con uomini schifosi. Wallace aveva in mente un disegno a perdita d’occhio. Consiglio di leggerlo come fosse un libro di racconti lunghi e brevissimi. E il migliore dei racconti lunghi è la storia di Chris Fogle, che comincia a pagina 198 ed è il capitolo 22.

La storia di Chris Fogle, tenerissimo fattone che deve poi diventare un agente del fisco per onorare la memoria del padre morto stupidamente di morte violenta in una fermata di metropolitana troppo affollata, può essere presa come novella a sé.

A pagina 204 Chris Fogle racconta:

Mi sembrava di ricordare che nel 1976 mio padre avesse predetto espressamente la presidenza di Ronald Reagan inviando addirittura una donazione per la sua campagna anche se, a ripensarci, mi pare che Reaga non fosse nemmeno in lizza nel 1976. Questa era la mia vita prima delll’improvviso cambiamento di direzione che si è risolto con il mio ingresso all’Agenzia. Le ragazze portavano cappelli e cappellini di jeans, mentre i maschi col cappello erano sostanzialmente ridicoli. Il cappello ti dava una scusa per prenderli in giro. I berretti con la visiera facevano zoticone del sud. Gli uomini seri di una certa età, però, a volte portavano ancora il cappello classico. Ricordo il cappello di mio padre meglio della faccia che c’era sotto. Passavo il tempo a immaginare che faccia avesse mio padre quanto era solo – mi riferisco all’espressione facciale e agli occhi –, quand’era per conto suo nell’ufficio del municipio dove lavorava senza la presenza di qualcuno che lo costringesse ad assumerne una particolare. Ricordo mio padre con i calconzini di Madras nei fine settimana, e i calzini neri, che tagliava il prato, e a volte guardandolo dalla finestra conciato così sentivo una fitta di dolore a essere imparentato con lui. Ricordo che fingevano tutti di essere samurai o dicevano “Scusami!” a ogni occasione buona: faceva fico. In segno di approvazione o di entusiasmo dicevamo: “Eccellente!” All’università capitava di sentire la parola “eccellente” cinquemila volte al giorno.

Nella seconda puntata: Racconti, Non fiction e Extra.

Seconda parte

Terza parte