Attualità

David Foster Wallace, un ripensamento

Mentre esce nelle sale The End of The Tour, un fan di vecchia data si chiede perché ci siamo concentrati sul lato umano dello scrittore.

di Arnaldo Greco

David Foster Wallace at New Yorker Magazine Festival«Il suicidio di David lo ha trasformato in quel tipo di celebrità letteraria che lo avrebbe fatto rabbrividire», disse Karen Green, moglie di DFW, in un’intervista da cui cominciammo subito a estrapolare solo questa sentenza. Manifestava fastidio, forse si augurava una tregua, rendeva evidente un sentimento condiviso da tanti ammiratori scioccati dalla notizia, cioè che ci fossero troppi fan improvvisati. Come a ogni funerale eccellente, si potrebbe aggiungere, solo che stavolta non era un cantante o un attore, ma uno scrittore.
Avrebbe dovuto già insospettirci questo fastidio che nutrivamo per chi si appropriava del lutto. Chi può arrabbiarsi per una cosa del genere? I fan incalliti di un gruppo musicale quando vogliono rivendicare di conoscere quell’artista da sempre, io lo ascoltavo dal primo album!, dicono; oppure possono rivendicarlo gli abbonati di una squadra di calcio: noi andavamo allo stadio anche quando la squadra soffriva, perché venite allo stadio solo quando si vince? Gli “occasionali” li chiamano certi ultrà. Per quanto sia assurdo, ce l’avevamo con gli occasionali di David Foster Wallace.

Ci sbagliavamo ovviamente, eravamo colpevoli come e più di loro. Eravamo stati noi, per primi, ad aver sostituito il poster di Kurt Cobain o Ian Curtis col poster – certo, solo ipotetico – di David Foster Wallace. Noi ad averlo trasformato da scrittore in rockstar e ora la cosa ci si ritorceva contro. Ad averlo camuffato da santino, alter ego ideale, primo autore da citare tra i propri autori (quando poi spesso si limitavano, tristemente, al solo DFW), figurina da difendere su Twitter dagli attacchi dei rosiconi, al pari dei beliebers c’erano i fosterwallaciners. Come se ciò che rende ridicolo un fanatico sia l’improvvisazione e non molto più semplicemente il fanatismo stesso. DFW era diventato un idolo generazionale di fine secolo. C’erano Icq ed Msn, faceva sentire fichi usare il nome dei suoi personaggi sulle chat.

Insomma non è stato il suicidio ad aver trasformato DFW in una «celebrità letteraria che lo avrebbe fatto rabbrividire», il suicidio ha solo amplificato e sublimato un percorso che era in atto da tempo. DFW incolpevolmente e temo malvolentieri era già diventato quel tipo di celebrità letteraria lì. Era già diventata la star di chi pretende che le star non esistano. Era già l’antidivo di chi crede che la definizione “antidivo” significhi davvero qualcosa. Era già il campione da rivendicare o esibire contro chi aveva campioni più “miseri” e The End of the Tour non fa che ricordarcelo ancora una volta.

Avevo fatto un’intervista con domande a risposta multipla a DFW tanti anni fa ma poi di fronte al pezzo di carta autografato m’era sembrato meglio tenerla per me

Il film vale ciò che Control è stato per i fan dei Joy Division o Last Days per quelli dei Nirvana. Per quel che mi riguarda è riuscito, più come il primo dei due citati rispetto al secondo, ma il succo non cambia. Per quanto bello, si concentra sull’aspetto umano di DFW confermando il sospetto che sia più il lato umano, più dei suoi libri l’illusione di aver avuto davvero un rapporto diretto con lui, più averlo capito come lui aveva capito noi ad averlo reso una rockstar. (Che credo sia anche la ragione per cui oggi ci sembra che tra la fiction e la nonfiction sia la seconda ad essere invecchiata meglio). Era un fratello maggiore immaginario prima che uno scrittore, ti parlava di etica spicciola, di sport e di tv. Dava legittimazione alle cose che già ci piacevano, e ti restituiva legittimazione. Ci si poteva identificare come i ragazzi oggi possono identificarsi in Emma Watson. (Dopotutto per quanto lo si possa adorare non ci si può identificare in Peter Handke).

EBERTFEST 2015 - 'THE END OF THE TOUR' Screening - ArrivalsQuando va in onda il nuovo episodio di una certa saga, chi si occupa del marketing ha, in linea di massima, due strategie: puntare sul nocciolo del cerchio dei fan sperando che il loro fanatismo convinca nuovi adepti, oppure puntare sugli estremi del cerchio augurandosi che questo si allarghi. The End of the Tour tra le due scelte assomiglia più ai cartoni animati di Clone Wars che all’episodio VII. Vale a dire che mira dritto al cuore degli appassionati. E lo fa attraverso la storia di David Lipsky che realizza esattamente il sogno di ogni appassionato. Uno che credeva di conoscere DFW e perciò voleva conoscerlo davvero. Sogna di intervistarlo, convince il suo direttore a organizzargli l’incontro ma poi non pubblica nulla (con un po’ di senso pratico e ironia ci si può leggere anche il dramma della sbobinatura). Quelle cassette di conversazioni diventano un libro e poi un film solo dopo il suicidio. E l’unica lingua, oltre l’inglese, che ha un lemma dedicato a Although of course you end up becoming yourself: a road trip with David Foster Wallace, nella traduzione Come diventare se stessi, è proprio l’italiano. Perché in Italia, per via del nostro stradibattuto problema col pop, quella generazione ha avuto bisogno della legittimazione di cui parlavamo prima.

Anche a me in sedicesimo (giusto perché si dice così, poi l’ordine di grandezza è di molto inferiore) è capitato qualcosa di analogo: avevo fatto un’intervista con domande a risposta multipla a DFW tanti anni fa ma poi di fronte al pezzo di carta autografato m’era sembrato meglio tenerla per me. Come se venderla o condividerla significasse perderla. Da un po’ di tempo a questa parte non sopporto più gli articoli coi mea culpa. Invece della confessione che ha funzionato per duemila anni, ora abbiamo l’articolo col mea culpa. La funzione è la stessa. (Appena dopo il mea culpa si ricomincia uguali a prima, con gli insulti in rete per esempio). Insomma, non intendevo minimamente scalfire l’affetto o l’ammirazione per DFW visto che la mia non ne è stata scalfita, ma solo ragionare su quanto sia stato un idolo di gioventù. Con cui si può anche invecchiare, certamente, a cui si può volere bene, con cui si sarebbe voluti crescere assieme, come Dylan o Springsteen, sperando che non ti tradisca mai. Ed è stato naturale soffrirne come per qualcuno che si conosce, anzi più che per qualcuno che si conosce. Ma forse credere di averlo conosciuto davvero, beh, quello lasciamolo ai beliebers.

In copertina, testata e prima immagine interna: un reading di David Foster Wallace al New Yorker Magazine Festival, New York settembre 2002 (Keith Bedford/Getty Images). Seconda immagine interna: un ritratto di Jason Siegel, che interpreta DFW nel bipic The End of the Tour (Timothy Hiatt/Getty Images For EBERTFEST 2015).