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La malinconia di Damon Albarn

Dal suo ritiro sulle spiagge nere d'Islanda, l'ex anti-icona del britpop torna dopo sette anni di silenzio con un nuovo mullet e un nuovo album.

di Lorenzo Camerini

Foto di Dan Kitwood/Getty Images

Se qualche produttore all’ascolto stesse pensando di girare un film sulla vita di Damon Albarn, mi offro volontario come sceneggiatore. Ho già pronta la prima scena: interno giorno, è mattina tardi, Damon Albarn (interpretato da Jude Law?) in postumi di sbronza sta mangiando uova, fagioli e salsicce al tavolo della cucina di casa sua, in sottofondo la radio suona una canzone tipicamente british. La musica finisce in dissolvenza, entra la voce fuori campo dello speaker radiofonico: «Good morning England, il mondo della musica si inchina agli Oasis, che sgomitano fino al primo posto in classifica senza chiedere il permesso e vendono trecentoquarantacinquemila copie in una settimana con “What’s the story morning gl…». Click. Damon Albarn spegne la radio e guarda in camera con espressione accigliatissima, titoli di testa.

Le interviste e i ritratti di Damon Albarn, fondatore dei Blur, sono un po’ monotoni e finiscono spesso per citare en passant la vecchia rivalità fra la sua prima band, che lo rese una rockstar planetaria venticinque anni fa, e gli Oasis. La “Battle of Britpop”. Ricordate? Erano gli anni ’90, e mentre qua le notti non finivano all’alba nella via i ventenni inglesi ereditavano dalle generazioni precedenti la capacità di comporre musica irresistile. Quegli incorreggibili ragazzacci dei fratelli Gallagher da Manchester si contendevano con i più borghesi Blur la cintura di pesi massimi del rock lasciata vacante dalla morte di Kurt Cobain. Collezione di copertine, video struggenti su MTV con un cartone del latte nel ruolo di protagonista, canzoni che sarebbero entrate per sempre nella hall of fame alcolica dei pub del Regno Unito e dei karaoke di tutto il pianeta.

E tuttavia ci sarebbero così tante altre cose da dire, su Damon Albarn, che ha speso gli ultimi vent’anni a fare di tutto tranne essere un’icona del britpop. Figlio di una scenografa e di un insegnante d’arte, cresciuto a Londra Est, da grande è diventato amico di David Bowie, oggi Paul McCartney è spesso ospite a cena a casa sua,  ha venduto più o meno quindici milioni di dischi con i Blur poi si è stancato e si è preso una piccola pausa per fondare i Gorillaz, ancora diciotto milioni circa di dischi venduti, ha suonato in due o tre supergruppi diversissimi fra loro e dalle alterne fortune commerciali con (fra gli altri) il bassista dei Red Hot Chili Peppers, il chitarrista dei Verve, il batterista di Fela Kuti, ha registrato dischi per beneficenza in Congo e per passione in Mali, è stato dipendente per qualche tempo dall’eroina, è diventato padre, ha suonato alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra, colleziona pupazzetti di personaggi famosi, confessa su giornali patinati di aver letto Kant.

Come molti, si lamenta della popolarità ma non fa moltissimo per scansarla. Damon Albarn è un’icona planetaria per tutte le stagioni: compare in sonnacchiosi programmi sulla tv di stato inglese alle otto meno dieci del mattino, e le prime tre domande sono tutte sul suo nuovo mullet (è successo pochi giorni fa), ma all’occorenza è anche impegnato politicamente: nel 2001, per esempio, ha vinto un MTV Europe Music Award e si è presentato a ritirare il premio con una maglietta con il logo della campagna per il disarmo nucleare, in puro stile “Tax the Rich” sull’abito indossato da AOC all’ultimo Met Gala.

Ma veniamo all’attualità. Il 12 novembre Damon Albarn ha pubblicato il suo nuovo album, il terzo da solista: The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows. È un bel disco, perfetto per i viaggi solitari in macchina con le sue melodie malinconiche, undici canzoni scritte nell’ultimo anno in Islanda e influenzate dalla solitudine che Albarn ha provato nella primavera del 2020, confinato come tutti durante la pandemia. Ma come ci è finito, Damon Albarn, in Islanda?

In diverse interviste ha raccontato che da piccolo faceva spesso un sogno ricorrente, dove planava sopra distese di sabbia nera. Al risveglio, si sentiva sempre particolarmente gasato. Ora, a me sembra improbabilissimo ritrovare un giorno nel mondo un posto strano che ti è apparso in sogni d’infanzia, ma io non ho i milioni di Damon Albarn, che nel 1997, durante un viaggio in Islanda, ha ritrovato nella vita vera le stesse bizzarre spiagge su cui volava nei suoi pisolini da bambino. Si è comprensibilmente innamorato del luogo, con gli anni è tornato tre o quattro volte all’anno in vacanza in Islanda, da cosa nasce cosa, si è anche comprato una casa lì e l’anno scorso ha ottenuto la cittadinanza islandese. Il frontman dei Blur (che non vanno in tour dal 2015, ma non si sono mai ufficialmente sciolti) ha detto di voler restituire a questa terra tutto quello che ha avuto in dono.

Forse il film sulla vita di Damon Albarn potrebbe finire così, con lui che convoca in un futuro prossimo un all star di musicisti (con la partecipazione, perché no, di Kirsten Dunst nel ruolo di Victoria dei Måneskin) a casa sua nei sobborghi di Rejkyavik. Fuori il mondo è condannato senza appello dai cambiamenti climatici e brucia, Los Angeles e Venezia annegano, le foreste sono state abbattute e a Bormio resistono solo i cactus, però Damon Albarn continua a suonare nel suo studio casalingo (magari Samuel L. Jackson potrebbe fare un saxofonista jazz?) e registra l’ultimo disco della storia, lo stesso disco che avrebbe registrato se non fosse arrivata l’apocalisse, indifferente alle logiche commerciali come lo è sempre stato nella sua carriera, in maglietta con 30 gradi a novembre.