Cultura | Fumetti

Cristiano Rea, l’ultimo punk

In anteprima dal nuovo numero, in edicola dal 17 marzo, un'intervista all'illustratore morto il 12 marzo a 61 anni, di cui era da pochissimo uscito Pank!, il volume antologico curato da Goodfellas.

di Federico Sardo

Abbiamo intervistato Cristiano Rea in occasione dell’uscita dell’importante raccolta di tutta la sua opera, Pank! 1977-2022 Poster e disegni di Cristiano Rea, pubblicata da edizioni Goodfellas il 13 gennaio. Dopo la notizia della morte dell’illustratore, il 12 marzo, a 61 anni, abbiamo pensato di celebrarlo pubblicando in anteprima la versione integrale dell’intervista. Un dialogo che ritroverete, in una versione ridotta, sul nuovo numero di Rivista Studio, in edicola dal 17 marzo.

È uscito per le edizioni Goodfellas Pank!, una raccolta di poster e disegni realizzati da Cristiano Rea tra il 1977 e il 2022, un nome poco noto al grande pubblico ma fondamentale come nessun altro nell’iconografia della controcultura romana e non solo. Il suo stile fortemente riconoscibile, dall’impatto immediato, ha accompagnato la vita di locali, gruppi punk, centri sociali ed etichette discografiche indipendenti (come la Gridalo Forte Records) per quasi cinquant’anni, e se finora lo si è potuto apprezzare soprattutto per le strade e nei luoghi di aggregazione dei movimenti, questa antologia rende finalmente giustizia a un artista che con tanta determinazione, infinita passione e molta capacità di arrangiarsi ha segnato profondamente l’immaginario di più di una generazione, rendendosi sempre disponibile al servizio delle cause in cui ha creduto.

Curato dal noto giornalista musicale Federico Guglielmi, che ha anche realizzato una lunga intervista biografica all’artista che funge da introduzione, il volume vanta una prefazione di Zerocalcare, che ha sempre visto Rea come una grande fonte di ispirazione, nella quale il fumettista romano scrive: «io mi ero convinto, assolutamente sicuro, che stavamo parlando di una specie di rockstar. Uno come Winston Smith, che faceva le copertine dei Dead Kennedys e che era considerato uno dei più grossi e influenti artisti underground al mondo.[…] Gente inarrivabile, mostri sacri dell’illustrazione che io cercavo di copiare senza nemmeno provare a mascherarlo eccessivamente. E Cristiano Rea per me era esattamente così, uno che stava tra quei giganti, un nome astratto che chissà mo’ dove stava». E invece Rea stava lì, nelle stesse strade, negli stessi posti, agli stessi concerti, tra un lavoro in tipografia e quello come assistente domiciliare. Ora, perlomeno, c’è un libro che quel lavoro pionieristico e importante lo testimonia, e ne abbiamo parlato con il suo protagonista.

Quali sono le origini di un percorso così multisfaccettato? La passione per la musica, il disegno e la grafica sono germogliate insieme, in casa, negli anni giovanili?
In particolare la spinta a uscire dal guscio è avvenuta nel ’77, ’78, con lo stimolo anche musicale della scoperta del punk. Fino a quel momento covavo l’idea di una carriera da disegnatore, affascinato dai fumetti della Marvel, che all’epoca in Italia erano ancora della casa editrice Corno, i supereroi dell’epoca: Daredevil, l’Uomo Ragno… E poi sono uscito dal guscio imbattendomi nel punk, prima come musica e poi con tutto il corollario che si portava dietro. Anzi, che non si portava dietro!

Nel senso che cancellava il passato?
Cancellava il passato, e poi c’erano veramente pochi appigli iconografici: dovevamo affidarci alle riviste musicali, poche, e all’immagine che si portavano dietro i dischi, i 45 giri, non c’era modo di reperire altre informazioni visive. Con il libro in mano ho capito meglio anche di aver dovuto un po’ costruirmi un immaginario: Roma in realtà non era quella Roma lì, non era punk, però nei miei disegni, nelle prime cose acerbe, Roma sembrava un po’ New York, oscura… Ma ancora non lo era.

Poi lo è diventata?
Sì, nei primi Ottanta con la nascita del Uonna Club, un locale che faceva da calamita per le piccole bande di controcultura musicale che si aggiravano per la città. Io comincio a disegnare per loro nell’81 fino almeno all’85, ed era un punto importante di ritrovo per tutta questa roba che era appunto sparsa o senza un luogo di aggregazione fino a quel momento: perché non c’erano ancora i centri sociali, non c’era nulla. Roma era un deserto rispetto al discorso musicale che ci poteva piacere e interessare in quel momento. Era attraversata da iper violenza politica e piogge torrenziali di eroina, che troviamo nelle tavole di Ranxerox sempre abbondante. Noi eravamo molto piccoli, sedicenni o diciassettenni… Con l’evolversi che poi ha avuto la città possiamo dire che ci è andata anche bene rispetto alla generazione precedente.

Guardando ai lavori per il Uonna si intuisce un’estetica già post-punk, new wave. Frigidaire e Tamburini erano dei riferimenti?
Assolutamente. Non sono stato il primo a immaginarmi una Roma più simile a New York perché ci sono stati quelli di Cannibale e Ranxerox, anche se erano un po’ più grandi di età di noi – parlo di noi perché all’epoca mi vivevo da solo l’esperienza del punk, mentre nel disegno eravamo un gruppettino di nerd che ci provavano, ammiratori sfegatati di Cannibale e di Moebius, e abbiamo provato a metterci insieme e fare qualche cosa. Con quelli di Cannibale e Frigidaire però sentivamo la distanza generazionale: le loro tavole erano piene di quello che era il movimento del ’77, la Bologna di Pazienza, le discese negli inferi di Tamburini… La soddisfazione era nel vedere i disegni, i contenuti però erano un po’ lontani da noi che eravamo ragazzini, in attesa di chissà che cosa.

Come è avvenuto il contatto con il punk?
Del tutto casualmente su una televisione privata, una di quelle che si affacciavano in quegli anni: un improbabile dj mise su un 45 giri dei Ramones facendo vedere la copertina, e fu una fulminazione. Ho visto quei quattro soggetti che sembravano quattro teppisti – ci ho messo un po’ a capire che invece erano quattro bravi ragazzi – abbigliati in quel modo che richiamava l’iconografia ribelle del rock and roll, che a me ha sempre affascinato sin da piccolissimo. Fu un bell’impatto anche perché fino a quel momento la musica l’avevo condivisa con i compagni di scuola e c’era il progressive, i doppi album, una palla mostruosa. Trovavo giusto un po’ di refrigerio nei Rolling Stones con il classico rythm and blues e il rock and roll, però per il resto era un disastro. E i Ramones con quei pochi minuti spianarono tutto: niente più assoli, niente tastiere, niente batterie roboanti… Bellissimo, fu un impatto molto forte, che trovava terreno fertile nei miei gusti. Dopo venne anche il servizio clamoroso dell’Altra Domenica, su Rai Due, con Michael Pergolani che da Londra quasi in diretta ci fece vedere quello che stava succedendo in quel momento in Inghilterra, e anche quello è servito.

Ripercorrendo decenni di lavori c’è sempre stato poco colore e una forte prevalenza del nero, il bianco e nero e il suo contrasto. Il motivo è soprattutto dovuto a ristrettezze economiche e pratiche o anche a una scelta artistica? Penso al fatto che anche in opere più recenti e realizzate in assoluta libertà come Nero900, che non doveva sottostare a certi limiti, c’è quella forte caratterizzazione.
Il bianco e nero me lo porto dietro dalla passione per i fumetti e poi giustamente per necessità, perché appena ci fu la possibilità di fare cose per il Uonna Club queste dovevano essere facilmente riproducibili, perché erano i programmi mensili o settimanali delle serate e le fotocopiatrici dell’epoca erano un mezzo disastro. Il bianco e nero è stato una scelta forzata, talmente forzata da eliminare qualsiasi altra sfumatura di grigio o altro, e ridurre il segno a una cosa che si potesse fotocopiare in qualsiasi modo, e vedere bene, e distinguere. Doveva avere un forte impatto immediato. Quel tratto lì me lo sono portato dietro per un bel po’, è tornato anche utile poi per un’esperienza di qualche anno nelle edizioni Cioè, dove approdai per disegnare delle cose più leggere per le teenager degli anni Ottanta.

È una bella curiosità, che uno magari non si aspetterebbe, che chi curava l’immagine della Gridalo Forte Records abbia lavorato anche per Cioè: come è andata?
È andata bene. Lo facevo con molto piacere: mi hanno sempre affascinato le culture giovanili quindi andava benissimo anche interessarsi dei new romantic, dei gusti delle ragazzine dell’epoca. Avevo anche l’ispirazione in casa, avendo delle sorelle che abbracciavano un po’ i vari stili del momento, quindi mi sono sostituito ai vecchi disegnatori paludati che non sapevano come disegnare questi giovani, oppure che li disegnavano sempre con certi stilemi che non rispecchiavano la realtà. E allora mi sono misurato anche con quello, e debbo dire sembrerebbe con successo, o quantomeno senza offendere nessuno.

Dovendo sintetizzare il lavoro di tanti anni con una sola parola ho il dubbio se usare artista, grafico, disegnatore, illustratore… Sono definizioni sempre difficili.
È un imbarazzo che mi porto dietro, perché sono stati tanti i mezzi che ho utilizzato, da autodidatta, come anche nell’esperienza musicale. Ho suonato la batteria (nei pionieristici Roma KO, nda) ma non posso definirmi un batterista, e allo stesso tempo non mi posso definire un artista a tutto tondo, oppure un grafico o un disegnatore di fumetti, è tutto un insieme… Non scindibile. Musica e disegno. E poi l’impegno politico che è venuto dopo, mettendo a disposizione il disegno, la grafica, nell’evoluzione qua a Roma dei movimenti sociali. Mi sono reso disponibile a fare grafica, però senza mai definirmi un vero e proprio grafico… La cosa mi imbarazza tra l’altro per le aspettative che uno potrebbe avere altrimenti. Nero900 è stato un modo anche per levarmi di dosso finalmente un po’ di cose che a fatica ho dovuto accettare: l’idea di accreditarmi come grafico o come disegnatore di fumetti che in pratica non sono mai stato. Sono brevi periodi della vita in cui ho intrecciato cose… Ho fatto anche manifesti per il cinema però con il taglierino, con la colla… Un po’ di tutto, però non scindibile. Quindi ora che mi ci fai pensare forse la parola arte, nel tenere insieme la musica, la grafica, il disegno, l’attenzione a quello che succede per le strade, se proprio vogliamo potrebbe essere la più vicina… Però ancora oggi non sono arrivato a una definizione esatta, forse non c’è.

Zerocalcare nell’introduzione al libro dice che se una figura così cruciale per le controculture fosse stata americana o inglese sarebbe diventata ricca: è un rimpianto o non è mai importato più di tanto?
Non ci avevo mai pensato prima in effetti. Ho riflettuto semmai insieme ad alcuni compagni di strada dell’epoca, anche sul fronte musicale, che Roma non ha mai offerto grandi opportunità in quegli anni per trovare una strada o per farsi notare, perché al di là di Cannibale e Frigidaire non sapevi dove andare a sbattere la testa, a chi portare delle tavole disegnate, o dei demo tape musicali. Veramente una città un po’ avara sotto questo punto di vista, quindi sì, posso appoggiare l’ipotesi che un contesto più fertile sarebbe stato meglio… Però diventare ricco no, ci sarebbe bastato un po’ più di spazio per esprimerci, ecco.

L’etichetta indipendente poi è arrivata, con la Gridalo Forte ho potuto fare quello che volevo, però poco prima, sul finire degli anni Ottanta non c’era nulla: prima della nascita dei centri sociali non c’era neanche un locale dove potevi programmare con il tuo gruppo di andare a suonare, a parte il Uonna, e nemmeno un’etichetta come l’Italian Records a Bologna, per dire “gli porto il nastro del mio gruppo, e vediamo se ci fanno stampare qualcosa”. Assolutamente no. Era una realtà molto diversa da Milano o Bologna. Si è cominciata ad aprire poi con gli anni Novanta, con l’avvento anche del rap, della Gridalo Forte, di Luigi Bonanni dei Garçon Fatal o lo stesso Federico Guglielmi che ha dovuto sbattersi in prima persona per produrre gruppi che altrimenti l’onda del tempo avrebbe cancellato e buonanotte, non sarebbe rimasto nulla della scena romana.

E oggi cosa rimane di quel mondo, di quel movimento? Si vede una scena attiva?
Ormai non mi sento di dare giudizi. Mi giungono voci da amici più giovani che una scena c’è, e anche se quella dei centri sociali può sembrare al momento un attimo quietata, a livello musicale mi sembra che ci sia del fermento: dei gruppi, dei locali, specialmente molti locali – quindi la possibilità di suonare, e questo è buono. Lo stesso anche rispetto alla scena dei disegnatori, degli illustratori, delle illustratrici: c’è un grande rinascimento, vediamo tante graphic novel, tanti ragazzi con bei tratti che saltano fuori, di quello sono contento. Non sono magari totalmente informato, ne seguo pochi, però mi sembra di poter dire che c’è qualcosa che si muove, e vediamo che succede.

Tenere in mano un’antologia del genere del proprio lavoro dev’essere una bella emozione.
Intanto sono grato a Federico che mi ha coinvolto in questa avventura, e a Goodfellas cui vanno tutti i miei complimenti perché l’oggetto mi piace molto. Non è soltanto il libro mio ma attraversa vari anni e varie situazioni, ed è il libro un po’ di tutto questo. C’è stata una super presentazione al Forte Prenestino dove sono stato sommerso da un’ondata di affetto: la gente era contenta di avere raccolte in un libro delle immagini a cui era affezionata dai primi anni Ottanta, fino alle lotte sociali dei Novanta. Soprattutto sono molto contento di aver lasciato una cosa che non è meramente il catalogo di un illustratore, ma c’è un po’ di storia di tutti quanti noi: c’è la storia di un certo tipo di percorso, di movimento, attraversato dalla musica. Ed è un bell’oggetto, ne sono molto soddisfatto. E poi vedere tutto insieme, anche la tigna portata avanti per decenni, fa impressione a me per primo.