Attualità

Crazy Krizia

È stata il simbolo di un certo glamour italiano, esotico, decadente e molto copiato. Omaggio a Mariuccia Mandelli e al suo marchio indelebile.

di Silvia Vacirca

In Alice di Woody Allen, all’inizio, Mia Farrow fa shopping da Krizia, a New York, sulla Quinta Strada. Il logo della boutique, i pacchi in mano, sono il simbolo della lussuria che Alice brama e reprime fino a essere invisibile, a se stessa e agli altri. Ancora nel 1990, anno di uscita del film nelle sale, Krizia è l’epitome di un certo genere di glamour italiano, esotico e decadente. Oggi il brand attraversa una fase di transizione dagli esiti incerti, evidente tra l’altro dal fatto che K di Krizia, il profumo che nel 1980 ha lanciato il celebre naso Maurice Roucel e causato parecchi giramenti di testa, è in vendita nelle profumerie Douglas a tredici euro e cinquanta. E negli ipermercati di periferia.

89fccff705390d289a22aa07d165865fNegli ultimi due decenni il brand e la stilista, che di nome faceva Mariuccia Mandelli e che è scomparsa domenica 6 dicembre all’età di 90 anni, hanno vissuto ai margini e insieme al centro della ribalta fashion. Il plissè, di ritorno in passerella, le superfici popolose di animali portafortuna, il luccichio folle, dimostrano il saccheggio corrente degli archivi Krizia. Negli anni d’oro del prèt-a-porter italiano, gli americani la chiamavano Crazy Krizia. Quando, su invito di Jean Rosenberg, vice presidente di Bendel’s, la stilista presenta la collezione al ristorante Orsini di New York, la stampa la chiama così per la semplicità e i dettagli surreali delle creazioni. Le forme architetturali, scultoree, d’acciaio, aprivano, già nei settanta, all’arroganza e al decadentismo new-romantics del decennio successivo. Krizia ha immaginato una donna moderna, spregiudicata, sensuale, dai confini esplosivi, in un’Italia post-sessantotto afflitta dall’anti-moda. Inventa, assieme a Mary Quant, la minigonna, nel 1971 disegna gli hot-pants, i pantaloncini raso-anca di neorealistica memoria, e i mitici maglioni con figure di tigre, scimmie, panda, orsi, volpi, gatti, tutta una foresta di maglia. E infatti, nel 1967, crea Kriziamaglia, linea interamente dedicata alla maglieria. La prima collezione risale al 1957, con la presentazione al SAMIA (Salone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento) di Torino degli “abiti-frutta” e la segnalazione da parte della giornalista di moda Elsa Robiola, fondatrice con Gio’ Ponti della rivista Bellezza. L’esordio retail avviene nel negozio milanese “Quando Berta Filava”, dove una redattrice di Grazia vuole fotografare i suoi vestiti. Al Pitti di Firenze, nel 1964, è la prima donna a vincere il primo premio della critica. Nel 1976 è da Bergdorf Goodman.

Krizia ha rigettato il futuro preconfezionato da maestrina che l’Italia riservava alle donne d’allora per diventare una brava imprenditrice, tra le prime a esplorare la pratica del licensing e l’idea del brand come stile di vita, dal profumo al vino al K-club nell’isola caraibica di Barbuda. L’immaginario è tutto nel logo, nel bianco e nero delle iconiche campagne pubblicitarie, con le modelle accomodate in bozzoli argentei e seghettati, le cosiddette “pieghe-armonica”, mentre le creazioni da sera abbondano di “contrasti improbabili”, come per esempio le gonne in satin abbinate a maglioni sportivi in Angora. Nel 2014, dopo sessant’anni di attività, il marchio Krizia, nel mezzo dei soliti appelli allarmati al salvataggio del Made in Italy e dell’identità italiana tout court, è stato venduto al gruppo Marisfrolg Fashion della miliardaria cinese Zhu Chongyun, per 25 milioni di euro. Krizia pensava di aver «ceduto a una creatrice raffinata». E che la Cina avrebbe reso più forte il suo marchio. È quello che ci auguriamo. More pleats, please.