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È morto Vince Zampella, l’uomo che con Call of Duty ha contribuito a fare dei videogiochi un’industria multimiliardaria Figura chiave del videogioco moderno, ha reso gli sparatutto mainstream, fondando un franchise da 400 milioni di copie vendute e 15 miliardi di incassi.
A Londra è comparsa una nuova opera di Banksy che parla di crisi abitativa e giovani senzatetto In realtà le opere sono due, quasi identiche, ma solo una è stata già rivendicata dall'artista con un post su Instagram.
Gli scatti d’ira di Nick Reiner erano stati raccontati già 20 anni fa in un manuale di yoga scritto dall’istruttrice personale d Rob e Michele Reiner Si intitola A Chair in the Air e racconta episodi di violenza realmente accaduti nella casa dei Reiner quando Nick era un bambino.
Il neo inviato speciale per la Groenlandia scelto da Trump ha detto apertamente che gli Usa vogliono annetterla al loro territorio Jeff Landry non ha perso tempo, ma nemmeno Danimarca e Groenlandia ci hanno messo molto a ribadire che di annessioni non si parla nemmeno.
Erika Kirk ha detto che alle elezioni del 2028 sosterrà J.D. Vance, anche se Vance non ha ancora nemmeno annunciato la sua candidatura «Faremo in modo che J.D. Vance, il caro amico di mio marito, ottenga la più clamorosa delle vittorie», ha detto.
A causa della crescita dell’industria del benessere, l’incenso sta diventando un bene sempre più raro e costoso La domanda è troppa e gli alberi che producono la resina da incenso non bastano. Di questo passo, tra 20 anni la produzione mondiale si dimezzerà.
È appena uscito il primo trailer di The Odyssey di Nolan ed è già iniziato il litigio sulla fedeltà all’Odissea di Omero Il film uscirà il 16 luglio 2026, fino a quel giorno, siamo sicuri, il litigio sulle libertà creative che Nolan si è preso continueranno.

Cosa raccontano i corpi nell’arte?

A Palazzo Reale inaugura oggi una mostra che prova a spiegarlo, dalla Body Art ai giorni nostri.

di Studio
27 Ottobre 2021

Il momento in cui ci siamo resi conto di tutte le cose che potevamo fare senza uscire di casa è stato anche il momento in cui abbiamo capito che per sentirci davvero vivi abbiamo bisogno di esserci, fisicamente. La mostra Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima che inaugura il 27 ottobre a Palazzo Reale (fino al 30 gennaio) sembra rispondere alle riflessioni sul corpo – sano, malato, isolato, fragile, desiderante, limitato, rinato – con cui ci siamo trovati ad aver a che fare a partire dal 2020. Più di cento opere, alcune presentate per la prima volta in Italia, che raccontano com’è cambiato il ruolo del corpo a livello individuale, sociale e politico dagli anni Settanta a oggi, il modo in cui si è trasformato e in cui lo ricordiamo, quello che resta quando non c’è più.

La mostra è anche un modo per ricordare la critica d’arte Lea Vergine e il suo lavoro sulla Body Art. Coinvolta nel progetto fin dall’inizio, Vergine è rimasta in dialogo con la curatrice Francesca Alfano Miglietti fino al momento della sua scomparsa, il 20 ottobre del 2020. Nella ricchissima eredità culturale lasciata dalla critica napoletana ci sono le più belle pagine mai scritte sul movimento artistico (alcune si trovano nel libro Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio pubblicato per la prima volta nel 1974) e un modo nuovo di fare critica d’arte, più libero e creativo. Nella sala a lei dedicata sono esposte fotografie, libri, documenti, interviste e le opere delle sue preferite: Gina Pane, con la potente eleganza delle sue azioni autolesioniste, come quando si infila le spine di una rosa nell’avambraccio una dopo l’altra (“Azione Sentimentale” del 1973), e Carol Rama, che nei suoi disegni “osceni” realizzati con i pastelli e gli acquerelli ha rappresentato il corpo come il luogo del desiderio e dell’anormalità.

Carol Rama, “Appassionata”, 1939, Collezione privata

Nelle opere della Body Art il corpo è vivo e coincide con quello dell’artista, ferito, sfruttato, modificato, messo in mostra o messo in scena, come nel caso dello svizzero Urs Lüthi e dei suoi vari alter ego, dagli autoritratti androgini del 1974 all’installazione a grandezza naturale “Low Action Game II” del 2001. L’autoritratto tridimensionale si basa su due fotografie con lo stesso titolo, “Low Action Games”, del 1998. Nella prima fotografia l’artista tiene nella mano alzata una pallina di gomma verde, nel secondo, la palla di gomma è caduta a terra. Nella scultura l’artista è vestito con abiti sportivi neri e ripete questo gesto, di per sé insignificante, un’azione fatta soprapensiero, per ammazzare il tempo. Ed è proprio del tempo che parla quest’opera, che mette in scena l’invecchiamento del corpo dell’artista, rappresentato nella posa tradizionale di Venere, dando forma a uno scenario al tempo stesso comico e triste. Lüthi è il ponte tra la Body Art e l’Iperrealismo, l’altro movimento al centro della mostra. Corpi finti, artificiali, anonimi, eppure identici ai nostri, così simili a noi da risultare ripugnanti, come le famose sculture di Duane Hanson (in mostra ci sono i due turisti del 1988), così vere che fanno paura.

Duane Hanson, “Tourists II”, 1988, Hall Collection, Courtesy Hall Art Foundation, foto di Edoardo Valle

Una serie di opere né Body Art né Iperrealismo, molto diverse tra loro eppure tutte collegate in qualche modo al corpo arricchiscono l’esplorazione, come nel caso della semplicissima e geniale “Risata Continua-D’Io” di Gino De Dominicis (1971), in cui l’audio di una risata viene ripetuto in loop per circa due minuti, o “Crystal Landscape of Inner Body (Serpent)” di Chen Zen (2000), riproduzioni in vetro degli organi umani realizzati in vetro disposti su un tavolo trasparente (come non pensare a Squid Game?). Man mano che si va avanti, in effetti, il corpo appare frammentato, dematerializzato, indebolito. Di lui restano le tracce, gli scarti, gli oggetti, le ombre. Sono del 2004-2005 sia i Bottari dell’artista coreana Kimsooja, fagotti realizzati con stoffe colorate (nel suo caso copriletti usati) tradizionalmente utilizzati fino al ventesimo secolo inoltrato per raccogliere i beni più importanti di una persona, spesso nel momento in cui doveva lasciarsi alle spalle il luogo natio, che i ritratti dell’artista colombiano Oscar Muñoz, che in “Proyecto para un memorial” disegna con un pennello intinto nell’acqua alcuni ritratti su una lastra di marmo esposta al sole che quindi fa evaporare l’immagine man mano che il soggetto prende corpo.C’è anche un’opera di Christian Boltanski, scomparso a giugno del 2021: “Le Terril Grand-Hornu” (2015), un minaccioso cumulo di vestiti scuri.

Marc Quinn, “Thomas Beatie”, 2008, Courtesy Marc Quinn Studio

Dell’artista britannico Marc Quinn – conosciuto soprattutto per la Kate Moss contorsionista d’oro e per “Self” (1991), l’autoritratto realizzato col suo stesso sangue – in mostra ci sono due sculture di cui una è un uomo incinto (come non pensare a Lil Nas X?). Ma ci sono anche i corpi insensati dei sogni, o degli incubi, quelli delle sculture di Robert Gober, mozzati e mutilati: gambe, busti, alimenti e vestiti ricoperti da peli umani. L’opera in mostra, “Bird’s Nest”, (2018-2019) è un assemblage di elementi tra cui il calco di una gamba fuso in cera d’api con sopra un nido di uova azzurre. Fa paura, non ha senso, eppure ha qualcosa di enigmatico che ti costringe a continuare a guardare. E tantissimi altri lavori, da quelli di artisti “santificati” come Joseph Beuys a quelli di artisti più kitsch come Marc Sijan (sue le sculture perfettamente realistiche di due poliziotti, 2015). Sarà per via della grandissima quantità di opere (111 in tutto), sarà perché alcune sculture sono delimitate da strisce bianche in stile Dogville, ma percorrendo i mille metri quadrati della mostra sembra di attraversare uno strano set popolato da personaggi inquietanti che fanno cose strane o hanno lasciato dietro di loro cumuli di oggetti inutili, che in effetti è un’ottima rappresentazione di quello che siamo.

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