Attualità | Coronavirus

Il Coronavirus non esiste

Sembra fantascienza ma c'è chi ancora nega l'esistenza del virus: cinque Paesi continuano a considerarlo una semplice influenza.

di Germano D'Acquisto

Brasilia, 19 aprile 2020 - Jair Bolsonaro tossisce mentre parla ai suoi sostenitori durante un corteo per protestare contro la quarantena e le misure di social distancing per combattere il Coronavirus (Foto di Sergio Lima /Afp/Getty Images)

Nelle ultime settimane di chiusura quasi monastica, dovuta alla quarantena, l’argomento di tutti i tg, i programmi di approfondimento, i documentari è stato sempre e solo uno: il virus. Talmente citato che ormai è entrato a far parte della normalità quotidiana. Come fosse una sedia oppure una macchina da caffè. È così per quasi 6 miliardi di persone in tutto il pianeta, che si è trasformato nel giro di otto-nove settimane nella scenografia di 28 giorni dopo, il film di Danny Boyle del 2002 in cui uno stralunato Cillian Murphy si aggirava per le strade di una Londra deserta a causa di una pandemia letale. Decine di nazioni hanno scelto la strada della fermezza: chiudere tutto, bloccare ogni attività, trincerare i propri cittadini fra le quattro mura domestiche. Obbligo di mascherine e di autocertificazioni. La normalità per il mondo che conosciamo è questa. Ma esiste anche un mondo diverso. Esistono cinque governi, quello bielorusso, turkmeno, tagico, nicaraguense e brasiliano, per cui il termine pandemia globale è un’esagerazione quasi sbracata e il coronavirus è semplicemente un raffreddore da curare con latte bollente e miele o vodka.

Lo scrittore teutonico Georg Christoph Lichtenberg nel ‘700 diceva che la «bizzarria va adoperata con cautela, come tutte le sostanze corrosive». E evidentemente non aveva tutti i torti. La strategia dei leader di questi Stati, se non avesse conseguenze tragiche, avrebbe notevolissimi spunti comici. Come quello suscitato domenica scorsa a Brasilia dal presidente della repubblica, Jair Bolsonaro. Da sempre avvezzo a bagni di folla e strette di mano col popolo, ha improvvisato un comizio a pochi passi dal comando generale dell’esercito davanti ad alcuni manifestanti che protestavano contro le misure di contenimento. Polo rossa, visibilmente appesantito, in equilibrio precario su un fuoristrada, ha ribadito che il Brasile non può fermarsi sostenendo, davanti a centinaia di persone, che il coronavirus non è altro che una “lieve influenza”. Si è però ben guardato dall’avvicinarsi ai fan, tenuti a debita distanza. Perché, ok, il coronavirus è soltanto un raffreddore, ma meglio non rischiare. Appare ovvio che l’irreprensibile Jair non avrebbe toccato nessuno, nemmeno con una canna da pesca. Probabilmente ha dato un’occhiata agli ultimi dati verdeoro della pandemia che parlano di oltre 40mila contagi e 2500 vittime ufficiali (ma le cifre andrebbero quantomeno decuplicate). I brasiliani sono allo stremo: sia per la crisi economica, sociale e politica, sia per le continue gaffe del loro leader, votato quasi con un plebiscito.

Bolsonaro ha avuto evoluzioni degne di un trapezista. All’inizio, quando l’epidemia sembrava solo un affare cinese, ha violentemente criticato il governo di Pechino per voce del figlio. Poi ha liquidato il problema con un raggelante: «Ci saranno 30mila morti e finisce lì». Ai primi di aprile, si è fatto una passeggiata in mezzo ai venditori ambulanti della periferia di San Paolo e una settimana fa ha posato per decine di selfie in una panetteria affollatissima. Poi ha partecipato alla preghiera comunitaria della Chiese evangeliche dove caterve di fedeli, ammassati l’uno sull’altro, hanno recitato il rosario e chiesto al Signore di scacciare il batterio dalle nostre strade. Domenica scorsa ha arringato la folla ma se ne è stato ben alla larga. In questo quadro generale Bolsonaro ha poi pensato bene di mandare a casa l’ex ministro della Sanità, troppo favorevole al lockdown, per sostituirlo con un altro, decisamente più propenso a una riapertura totale. Ma la crisi sanitaria si è già trasformata in crisi politica, perché i governatori degli Stati federali del Paese sudamericano hanno scelto di disobbedire al potere centrale per cercare di limitare i contagi.

Esistono cinque governi, quello bielorusso, turkmeno, tagico, nicaraguense e brasiliano, per cui il termine pandemia globale è un’esagerazione quasi sbracata e il coronavirus è semplicemente un raffreddore da curare con latte bollente e miele o vodka

Il Brasile è l’unico dei Paesi negazionisti ad essere una democrazia. Gli altri non lo sono. Non lo è ad esempio il Nicaragua, governato dall’ex leggenda sandinista Manuel Ortega, apparso in pubblico pochi giorni fa dopo settimane di silenzio. Da queste parti il virus non è negato ma addirittura ignorato. Si continua a giocare il campionato di calcio (dove solo una squadra non è controllata dallo Stato e i giocatori scendono in campo con mascherine e guanti), la gente va al cinema e partecipa alle tradizionali manifestazioni religiose come è accaduto per Pasqua.

«Qui se si smette di lavorare il Paese muore. E se il Paese muore il popolo si estingue», ha affermato Ortega dalla televisione ufficiale “Canal 6”. I casi confermati, secondo il regime, sarebbero soltanto una decina, su una popolazione di oltre sei milioni, e tutti giunti oltre confine. Ma da dove? Visto che le nazioni vicine sono in pieno lockdown? Mistero… Risulta difficile, anzi impossibile, credere alle cifre snocciolate dal governo di Managua. Soprattutto se si pensa che l’unica posizione istituzionale è quella della vicepresidente Rosario Murillo, che fra l’altro è anche moglie di Ortega, secondo cui l’unico modo per scacciare la pandemia è la fede in Cristo. Una fede, a quanto pare altalenante, dato che lo scorso 6 aprile il ministero della Salute ha impedito alla diocesi di Matagalpa di creare alcuni centri medici di prevenzione proprio per far fronte al Covid-19.

«Vodka, sauna, cibi grassi, lavorare la terra alla guida di un trattore»,  è invece l’infallibile ricetta del dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko per abbattere una volta per tutte il virus, definito una psicosi. «Il nostro vero nemico è solo la paura», ha affermato impugnando una falce. Il colorito leader, amico di Gerard Depardieu e Steven Seagal, aveva pronosticato la fine dell’emergenza entro il 19 aprile, giorno in cui si celebra la Pasqua ortodossa. Così ovviamente non è stato. Anzi, secondo l’Oms il peggio deve ancora venire dato che il numero dei contagi cresce a dismisura e che il picco potrebbe arrivare solo a maggio inoltrato. La Bielorussia è l’unica nazione europea che non ha attuato alcun tipo di chiusura. Né misure di distanziamento sociale, né divieti di assembramenti di massa. E il campionato di calcio, vera cartina tornasole in tema di misure di contenimento, si continua a giocare, anche se gli spalti sono pressoché deserti. C’è però una luce in fondo al tunnel. Le posizioni balzane dell’ultimo dittatore europeo hanno spinto la società civile ad autodisciplinarsi. Molti sono infatti i volontari che hanno attivato raccolte fondi per la sanità e gli ospedali mentre la popolazione ha scelto autonomamente di restare a casa, applicando una sorta di “quarantena dal basso”.

Anche in Tagikistan, che fra l’altro confina con la Cina, fanno come se nulla fosse. O quasi. È partita sia la stagione calcistica che il campionato di basket. Gli incontri si disputano a porte chiuse, è vero. Ma la scelta suona alquanto bizzarra visto che solo due settimane fa la nazione ha festeggiato il Capodanno persiano organizzando festival gastronomici, danze, marce e giochi pirotecnici a cui hanno partecipato migliaia e migliaia di persone. Gli aeroporti sono stati chiusi, ma i negozi lavorano a pieno ritmo, gli autobus sono sempre stracolmi di pendolari e le moschee aperte. «Una delle qualità migliori del nostro popolo –ha affermato il presidente tagico Emomali Rahmon – è tenere le case pulite e osservare gli standard sanitari. Ecco perché noi non corriamo alcun rischio…».

In Turkmenistan infine hanno deciso di eliminare il problema alla radice: hanno vietato di usare la parola Coronavirus. “Se il batterio non lo si chiama per nome, non esiste”, avrà pensato il presidente Gurbanguly Berdimuhamedow, al potere dal 2006. Dai depliant informativi distribuiti in ospedali e scuole per prevenire il contagio il termine incriminato è stato cambiato con un più generico “infezione respiratoria”. Ma c’è di più. Nella capitale Aşgabat i pochissimi giornalisti presenti affermano che la polizia ha iniziato perfino ad arrestare chi osa indossare una mascherina in pubblico. A rafforzare l’assoluta mancanza di trasparenza del governo, anche i numeri ufficiali dei soggetti risultati positivi al coronavirus. Indovinate quanti contagi risultano in Turkmenistan dall’inizio dell’emergenza a oggi? Indovinato: zero.