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Perché il Coronavirus devasta alcuni luoghi e ne ignora altri?

È una delle domande che ci facciamo dall’inizio dell’emergenza sanitaria provocata dal Coronavirus: perché colpisce in maniera drammatica alcune zone e ne ignora del tutto altre? La risposta più veritiera è probabilmente che ne sappiamo ancora troppo poco perché, come spiegano gli esperti al New York Times, non disponiamo ancora di dati sufficienti per avere un quadro epidemiologico completo e che le lacune nella conta dei morti e dei contagiati nei Paesi che stanno combattendo il virus rendono molto pericoloso trarre delle conclusioni: la distribuzione dei test è ancora troppo irregolare, per cui è lecito supporre che la diffusione del virus sia ampiamente sottostimata, così come i decessi.
In questa situazione di incertezza che accompagna la fase 2, tuttavia, un quadro generale inizia a delinearsi. Dopo aver intervistato più di 20 esperti in malattie infettive, funzionari sanitari, epidemiologi e accademici di tutto il mondo, il New York Times ha individuato quattro fattori principali che potrebbero aiutare a spiegare dove prospera il virus e dove non invece non lo fa: età media della popolazione, abitudini culturali, condizioni ambientali e velocità delle risposte del governo. È importante sottolineare, però, che ognuna di questi “spiegazioni” è accompagnata da numerose controindicazioni, come ad esempio quella della popolazione anziana: spiegherebbe in parte il caso dell’Italia, ad esempio, ma non quello del Giappone (che ha la popolazione più anziana al mondo) dove il numero di decessi si è mantenuto relativamente basso ma che nelle ultime settimane ha visto un aggravarsi della situazione. È plausibile che una popolazione giovane contragga sintomi più lievi o sia asintomatica, riducendo così il rischio di infezione, come sembra suggerire il caso dell’Africa che è il continente più giovane al mondo e dove i decessi per ora sono stati all’incirca 45.000 a fronte di una popolazione di più di un miliardo di persone. Eppure succede anche che nella regione del Guayas, in Ecuador, il virus abbia reclamato la vita di più di 7000 persone, di cui solo l’11% aveva più di 60 anni.
Per quanto riguarda l’abitudine al distanziamento sociale, certamente ha aiutato quei Paesi dove il saluto senza abbracci, baci o strette di mano non è diffuso, dall’India a Taiwan, dalla Corea del Sud al Giappone. Allo stesso tempo, però, in molte parti del Medio Oriente, come in Iraq o nei Paesi del Golfo Persico, la maggior parte delle persone si abbracciano o si stringono la mano per salutarsi eppure non si sono ammalati in maniera massiccia. Parallelamente, i Paesi che non registrano abitualmente importanti flussi turistici sono rimasti per ora abbastanza protetti dal virus, ma il dubbio che sia solo una questione di tempo è anche qui legittimo. Anche sul fattore clima bisogna essere prudenti: se il nuovo Coronavirus si comporterà come gli altri virus influenzali, di cui pure fa parte, è plausibile che il caldo e l’umido della stagione estiva ne diminuiranno di molto la potenza, ma non dobbiamo dimenticare che ci sono stati focolai importanti anche in Brasile e in Amazzonia. «La migliore delle ipotesi è che le condizioni estive aiuteranno [a combattere il virus, ndr], ma è improbabile che determineranno, da sole, un significativo rallentamento della crescita o un calo dei casi», ha affermato Marc Lipsitch, direttore del Center for Communicable Disease Dynamics presso l’Università di Harvard. Il quarto fattore, infine, è l’azione dei governi, dal tracciamento dei contagi alle misure di isolamento dei positivi in strutture apposite fino alla capillarità dei test, tutte misure che sono determinanti nell’abbassare la curva solo se prese con tempestività. E che saranno fondamentali per affrontare la seconda ondata, con la consapevolezza che siamo solo all’inizio di una lunga battaglia.

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