Attualità
L’uomo che scambiò sua moglie per una donna
Abbiamo conosciuto a Torino Bernard Boursicot, la spia francese protagonista di una delle storie più incredibili del nostro tempo, raccontata anche da Cronenberg.
Incontro Bernard Boursicot la mattina del giorno in cui andrà in scena lo spettacolo teatrale tratto dalla sua vita, creato dalla Piccola Compagnia della Magnolia nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi. Ho assistito alle prove generali il pomeriggio precedente alle Fonderie Limone a Moncalieri; anni fa vidi il film di David Cronenberg M. Butterfly basato sull’omonima pièce di David Henry Hwang a sua volta ispirata alla stessa vicenda; e la sera prima ho recuperato il documentario Un espion à Pékin dedicato sempre alla sua storia. Mi attende nella hall dell’albergo vicino alla stazione che lo ospita per i tre giorni che trascorrerà a Torino. Seduto comodamente su un divano crema, il volto rubizzo che si staglia sui pantaloni beige e la felpa senape, al polso destro porta un bracciale di perle di legno scuro, a quello sinistro un orologio di valore che nel corso dell’incontro non guarderà mai. Questa mattina Bernard Bouricot ha infilato entrambi i calzini al contrario.
Ha settantadue anni, abita in una casa di riposo a Rennes, percepisce la pensione da ex diplomatico e ha fatto testamento a favore di Amnesty International. Gli ci sono volute una serie di circostanze favorevoli perché dalla scogliera bretone, i metalli e il sapone all’ingrosso del padre, le brine del Morbillon e il suo impiego piccino da contabile a Vannes, sia volato fino a Pechino per prestare servizio presso l’Ambasciata francese. Prima tra tutte l’appoggio di Claude Chayet, rappresentante della Francia in Cina, folgorato da quel robusto ventenne che le compagne di scuola chiamavano bourricot, asino, ma che trasudava tutta la sua voglia di avventura. «Non sono mai stato prudente», mi dice, «non ho mai esitato». Il suo idolo di gioventù è un esploratore che si fa chiamare Don Fernando, tra le sue imprese che ancora adesso scaldano Bernard, egli «ha conosciuto l’uomo più forte del mondo e ha tagliato legna in Gabon» e data la sua fama di allora non c’è da stupirsi se condividesse la copertina della rivista Le Monde de la Vie con Marylin Monroe. Bernard da ragazzo scrisse anche una lettera a lui rivolta e indirizzata al giornale in cui esprimeva tutta la sua ammirazione. Che cosa Don Fernando gli abbia risposto, perché Bernard ci tiene a dirmi che sei mesi dopo ricevette una sua lettera, non me lo ha raccontato.
Quando arriva in Cina è il 1964. Ad attenderlo all’aeroporto, oltre a un alto funzionario che aveva ricoperto in precedenza l’incarico di ministro dell’Educazione, c’è un ragazzo «molto impressionante»: si chiama Marcuse, ha un monocolo, tre amanti cinesi di cui si vanta a spron battuto e una moglie tedesca. Assieme a lui, fumatore viziosissimo ma spesso in difficoltà per accendere le sigarette, Bernard ha la prima intuizione sulla Cina: «Sanno fare la bomba atomica, ma non sanno i fare i fiammiferi». I cinesi vestono con cappotti blu e portano tutti una maschera a coprirli dal freddo. La prima pietanza locale consumata con Marcuse è un canarino arrostito.
È in occasione di una serata di ricevimento all’ambasciata francese che viene presentato a Shi Pei Pu. Una riga nera di matita intorno agli occhi e uno sbuffo di polvere di riso sulle guance: chi l’ha descritta come una sirena orientale deve essersi messo negli occhi di Bernard quella sera. Il francese ne è immediatamente affascinato e la «serena avidità» con cui intende vivere la sua gioventù a Pechino scintilla a fianco di quell’uomo così elegante, insperato e che parla mirabilmente la sua lingua. Nel suo diario in data 30 otobre 1964 Bernard Boursicot annota questo. Pechino mi piace. Cose da fare: più sport, trovare una donna, lavorare giorno e notte, leggere e scrivere intensamente, incontrare gente, lasciare tutta la mediocrità fuori da questo diario. Di mediocrità in questo diario non c’è neppure l’alone più smorto, e non perché lui sia stato reticente in materia.
Il primo appuntamento avviene a poche ore dal Natale del 1964. Bernard incontra Shi Pei Pu nel pomeriggio, vanno al Tempio del Paradiso e poi cenano al ristorante. La giornata si chiude con il cinema, vedono Spring in February. Primavera in febbraio. A leggere i titoli dei film come certe maghe fanno con i fondi di caffè, ci sarebbe da dire che le avvisaglie perché qualcosa non quadri ci sono già tutte. Ma il presentimento è una sensazione che mal si combina con Bernard, uomo dallo spirito avventuriero che ambisce a esser distinto.
Un giorno Shi Pei Pu gli racconta che se sua madre, dopo aver partorito due bambine, avesse dato alla luce un’altra femmina, suo padre se ne sarebbe andato di casa e avrebbe sposato una seconda moglie. Così aveva decretato la madre dell’uomo. Quando nacque lei il padre, la madre e l’ostetrica mentirono sul sesso e la crebbero in tutto e per tutto come un figlio maschio. Dopo questa confessione tanto intima, Shi Pei Pu promette a Bernard che cercherà di renderlo felice per quel che le è possibile. «Siete il mio migliore amico, non ditelo mai, a nessuno», gli sussurra.
Shi Pei Pu è un artista colto e raffinato, è un maestro di canto che ha studiato con il reverendissimo Mei Lanfang, è un librettista dell’Opera di Pechino, è nipote del ministro della cultura cinese, ha una sorella campionessa di ping pong e un’altra sposata a un pittore famoso. Per Bernard, però, me lo dice candido lui stesso e altrove ho trovato questa definizione, Shi Pei Pu era «la vera Sherazade». Tutti i giorni una storia nuova da raccontare, la inventava apposta per lui. E in cambio lui le compra tutto ciò che lei desidera. Mobili lussuosi, gioielli prestigiosi, orologi di pregio, oggetti per se stessa e per la sua famiglia, tra cui Bernard ci tiene a ricordare otto televisori delle dimensioni maggiori che si trovassero allora in commercio. Dice adesso di sé con ironia per niente autocommiserativa che è stato «l’unica spia che pagava per spiare».
In occasione di uno dei numerosi viaggi di lavoro di Bernard, che lo trattiene in Belize per diversi mesi, Shi Pei Pu gli comunica di essere incinta e che quando tornerà a trovarla a Pechino non saranno più solo in due, ma in tre. Shi Du Du è un bambino meticcio che, se possibile, rallegra ancora di più la vita del francese, persino più di quanto già lui non la valuti gratificante, soddisfacente e felice. C’è una registrazione audio, appena un estratto di una delle interviste rilasciate alla stampa in questi trent’anni, in cui da Bernard Boursicot, ricordando la sua stagione cinese, dice di essere stato molto felice. J’ai été tres content, J’ai été tres content, nello spettacolo 1983 Butterfly della Piccola Compagnia della Magnolia è reiterato in crescendo, J’ai été tres content, J’ai été tres content, J’ai été tres content. In effetti è la voce di un uomo che è stato contento.
In quanto responsabile della valigia diplomatica, Bernard ha facile accesso ai documenti segreti degli uffici politici. È per amore di Shi Pei Pu che passa decine di questi al regime cinese: tre volte la settimana, nascosti nel portadocumenti, per poi percorrere in bicicletta il paio di chilometri che la casa della donna distava dall’ambasciata. Ogni volta tre poliziotti lo scortavano in sidecar e altrettanti lo seguivano in bicicletta nel viaggio di ritorno. «La prima volta provai dei rimorsi, comunque ero imbarazzato dal fatto di tradire, ma dalla seconda, terza, quarta volta in poi divenne un’abitudine», così Bernard al processo. Vagheggiava l’avventura sin da adolescente; quando gli ho chiesto cosa riempisse le sue lunghe giornate da bambino in Bretagna mi ha detto che sognava l’Amazzonia, e adesso, come afferma nel documentario Un espion à Pékin, si sente addosso la stoffa di «Marlon Brando negli Ammutinati del Bounty, un diplomatico francese e una spia filocinese».
«L’amore è uno sguardo che non vede niente», dice un proverbio cinese
Il 9 ottobre 1982 porta finalmente con sé Shi Pei Pu e il figlio a Parigi. Qui, a quasi vent’anni dall’inizio della loro relazione, Bernard si riferisce a lei chiamandola ancora Madame Pei Pu. Ha per lei riguardi regali, è officioso come lo sono i timidi quando si ritrovano innamorati. Vivono tutti nello stesso appartamento: Bernard, Shi Du Du, Shi Pei Pu e Thierry, il compagno con cui il francese passa il resto del tempo che non trascorre con lei in Cina. Ricorda che lei passava molto tempo seduta davanti lo specchio a truccarsi il viso e che tenesse moltissimo ai capelli, sempre più radi, tanto che gli chiedeva di procurarle sciampo particolari e di non così semplice reperimento.
Il 30 giugno del 1983 sta passeggiando da solo in un parco quando viene accalappiato da un manipolo di agenti della polizia segreta. Gli saltano addosso gridando «Polizia» e quando Bernard urla di essere un diplomatico, che lo lascino in pace, non possono arrestarlo, questi lo attaccano a un albero e subito lo ammanettano. Condotto in rue d’Argenson, all’epoca sede della Direction de la Surveillance du Territoire, il servizio francese di intelligence e di controspionaggio, viene interrogato. Ricorda che gli agenti ridacchiavano e che poi, facendosi seri, gli dissero che 150 documenti dell’ambasciata di Francia risultavano scomparsi. Lui confessa ogni cosa. La settimana successiva la stessa sorte tocca a Shi Pei Pu, che per via del cuore malandato è portata d’urgenza all’ospedale della prigione di Fresnes. Bernard finisce in cella in attesa di essere processato.
Gli psicologi che l’hanno incontrato, in preparazione del processo del più singolare caso di spionaggio della storia di tutti i tempi, lo definiscono «immaturo, ambivalente, suggestionabile». Quando gli domando se si ritenga un ingenuo, se si consideri un sentimentale, Bernard risponde lesto che sì, è un ingenuo, è un sentimentale, e che non fa fatica a ricordare la madre che gli disse, «Bernard, nella tua vita non hai incontrato molta gente onesta» e l’avvocato che lo difendeva avvertire così la giuria della pasta dell’imputato, «Non confondete tutti gli altri da Bernard, lui è un uomo di cuore». Si è tagliato la gola, dissangua sul pavimento della sua cella dopo che la sera del 13 luglio ha sentito la notizia alla radio: la Mata Hari cinese accusata di spionaggio è un uomo. Cosa volete che gliene fregasse dei documenti allora? «Niente», mi dice sghignazzando. Mi confessa di aver perso lì per sempre la spontaneità.
Bernard rimase in carcere 1496 giorni, l’Animal solamente sei mesi, graziato da Mitterand nell’ottica di alleggerire i rapporti tra i due Stati. “Perché non mi hai detto nulla”, gli chiede otto mesi dopo il giorno dell’arresto, in occasione del loro primo confronto, e l’altro risponde saccente, «Non abbiamo avuto il tempo». Gli domanda anche, «posso vedere?», fino ad allora lui è stato sempre rispettoso del pudore di lei che ora invece come da richiesta si sta abbassando i pantaloni alle caviglie.
C’è chi, tra i pochi che li hanno visti insieme, ricorda che quando Shi Pei Pu si voltava a beneficio di Bernard aveva un certo viso e quando invece si girava verso tutti gli altri ne assumeva un altro. «L’amore è uno sguardo che non vede niente», dice un proverbio cinese. Chissà ora da dove ha attinto la decisione di nominarlo l’Animal. Dal disprezzo perché è stato frodato come uomo, da quell’odio sottile che segue un imbroglio di carte, perché gli ha revocato il suo statuto di individuo o è un latrato di rabbia davanti a una creatura che ha assunto fattezze non più umane? Sento ritegno a fargli la domanda, quindi sono istigato a fare ipotesi e a me, proprio da questo, diventa sempre più plausibile che tra loro si sia trattato d’amore e che noi non sapremo mai quanto. E che chiamarlo adesso l’Animal sia il nuovo stadio di quell’inganno sentimentale che fu allora.
L’Animal è morto da sette anni e da quando Bernard è uscito dal carcere capitava che si sentissero raramente al telefono; l’ultima volta gli disse che sarebbe morto e in effetti il giorno dopo così fu. Qui la storia per me si chiude. A conclusione del nostro incontro, mentre gli dico che lo spettacolo a cui assisterà è di un’eleganza mista e capovolta che sarà di suo gradimento lui mi invita – lo fa due, tre volte – ad andarlo a trovare dove risiede adesso, si fa dare una penna e mi scrive il suo indirizzo.
In prigione ha continuato a ricordare loro due sereni, a passeggio ai Giardini del Lussemburgo, e Shi Pei Pu che gli dice che con il matrimonio sarebbe felice. Bernard se lo ripete per tutti i 1496 giorni trascorsi tra le sbarre: l’ambiguità tra marriage e maquillage, trucco, «Su un gioco di parole la mia vita si è giocata», mi dice senza che una consolazione sia più cercata. Ha confuso un trucco per quel che non era e ha desiderato per tutta la vita di vivergli insieme.