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Il lato politico di Charlotte Perriand

Da qualche anno si sta assistendo alla riconsiderazione dell'opera della designer: ai Rencontres d’Arles (fino al 26 settembre) sono in mostra i suoi fotomontaggi, ora raccolti in un libro.

di Enrico Ratto

“L’arte di vivere”, manifesto intorno al quale Charlotte Perriand ha sviluppato tutta la sua produzione è il tentativo di dare una risposta ad una semplice domanda: come vogliamo vivere? È questo che si chiedeva la designer francese quando, negli anni ’30 del secolo scorso, assisteva alla città di Parigi che si espandeva fino ad esplodere, dove le persone – quelle stesse persone che lei voleva conoscere nel profondo prima di dedicarsi a qualsiasi progetto – si spostavano dalle campagne alla città, e poi di nuovo dalla città alle periferie, e lo facevano senza un criterio, senza che nessuno si domandasse, appunto, come volessero davvero vivere. Prima dell’architettura, e della pianificazione urbanistica, c’è l’impegno politico, questo Charlotte Perriand lo ha sempre dichiarato. C’è il riconoscimento, l’entusiasmo per una certa modernità, e d’altra parte la dura critica verso un progresso che trasforma e deteriora non solo la Francia, ma la vita di intere comunità di persone. Per dichiarare al mondo tutto questo, c’è stato un periodo in cui Charlotte Perriand non ha usato gli oggetti o le planimetrie per abitazioni moderne: lo ha fatto attraverso le immagini.

Tra il 1936 ed il 1938 produce una serie di fotomontaggi ad alto contenuto politico, un lavoro recuperato di recente – da qualche anno, in Francia si sta assistendo ad un minuzioso lavoro di riconsiderazione, e di restituzione all’autore, dell’opera di Charlotte Perriand – esposto ai Rencontres d’Arles (fino al 26 settembre) e raccolti nel volume Charlotte Perriand. Politique du Photomontage (Actes Sud). È la storia di tre installazioni che realizza per raccontare la Francia che cambia volto: La Grand Misére de Paris (1936), l’allestimento della sala d’attesa del Ministero dell’Agricoltura francese (1936) ed il padiglione del Ministero dell’Agricoltura per l’Esposizione Internazionale delle Arti e delle Tecniche della Vita Moderna (1938).

Tre progetti complessi, articolati, difficili da collocare, che si spiegano molto bene con le tre parole che danno il titolo al libro e alla mostra: politica, fotografia e montaggio. Ben presto dopo la scuola d’arte, Charlotte Perriand ha sostituito il blocco da disegno con la macchina fotografica, uno strumento che le ha consentito di parlare per immagini, senza mai appartenere alla categoria dei fotografi. Ha messo la fotografia al servizio delle sue necessità: fare informazione, fare propaganda, fare politica, documentare la società, documentare i propri lavori e la propria vita. Le Corbusier resta affascinato dalle sue fotografie, le troverà un mezzo molto più efficace dei disegni per fare conoscere al mondo le sue (le loro) opere. Ma questi tre progetti non parlano di fotografia, piuttosto di immagini: la fotografia viene scomposta, assemblata, tagliata e rimontata. E questi non sono per niente gesti scontati, perché è vero che gli anni ’30 sono un’epoca nella quale con le immagini si sperimenta, si decontestualizza e la fotografia è una buona tecnica per superare la realtà e crearne di nuove. Ma è anche un periodo di guerre e di fotografi che si iniziano a spostarsi per il mondo con la maneggevole Leica per mostrare quel mondo di cui pubblico non riesce a fare esperienza diretta: ci sono Robert Capa e Cartier-Bresson che viaggiano dalla Spagna al Sudamerica, affascinati dalla guerra e dall’azione, e per loro la documentazione dei fatti ha il dovere della purezza ed il racconto fotografico, tra mille contraddizioni, si porta dentro il requisito della verità. Se era possibile fare arte con il fotomontaggio, altra cosa era raccontare il mondo.

Charlotte Perriand, in questo periodo d’oro per la pellicola, sceglie di raccontare la società che cambia attraverso enormi pannelli nei quali inserisce tutto ciò che le è utile: immagini delle campagne contrapposte alla documentazione della vita urbana, ciminiere che dialogano con fotografie di nuvole nel cielo limpido, testi, dati, grafici e numeri. «Così come architettura ed urbanistica sono interdipendenti», scrive Perriand, «il sistema del fotomontaggio permette di creare relazioni tra gli elementi. È un mezzo di espressione realista, accessibile, comprensibile ed efficace». C’è chi ha considerato questi progetti una pura propaganda sostenuta dal Ministero e dal Fronte Popolare, mentre altri ne hanno riconosciuto l’aspetto didattico e pedagogico: mostrare e spiegare. Per il progetto al Ministero dell’Agricoltura busserà alle porte degli uffici di mezza Parigi per raccogliere dati ed informazioni sulla trasformazione sociale in atto nelle campagne francesi. Il tasso di analfabetismo è elevatissimo, i diritti sociali sono riservati alla popolazione urbana, ma non arrivano nelle campagne. È da queste osservazioni che nascono i fotomontaggi con fotografie di camion biblioteca che evocano la necessità di una lotta contro l’analfabetismo sormontati da grandi testi che dichiarano come «nelle campagne, così come nelle città, i lavoratori devono beneficiare degli stessi diritti sociali, dei contratti collettivi, delle pensioni e delle ferie retribuite».

Nel 1937, per il padiglione dell’Esposizione Internazionale, si rende conto che i suoi fotomontaggi monocromatici non hanno la plasticità che desidera, manca un elemento. Coinvolge così Fernand Léger. Insieme all’artista, introduce il colore per creare una serie di diorama, diciotto fotomontaggi che creano un racconto dove si mettono in relazione la Francia agricola e la Francia industriale. Nella scoperta di queste installazioni, il pensiero è andato al 2020, quasi un secolo dopo, quando Rem Koolhaas, per il Museo Guggenheim di New York, ha scelto di raccontare il mondo rurale del nuovo millennio: lo ha fatto servendosi di immagini, testi, pannelli, schermi led e molti, moltissimi grafici e dati. Chi studia la modernità, tutte le modernità, si accorge che questo è un lavoro talmente complesso che non è possibile realizzarlo tramite mezzi che ingabbiano l’espressione. Ogni centimetro quadrato delle enormi installazioni di Charlotte Perriand oggi riportate alla luce contiene un’informazione utile a comprendere, non importa se scritta, fotografata o illustrata.

Nel 1940, Charlotte Perriand lascia Parigi, parte per il Giappone e lì si apre un’esperienza tutta nuova. L’arte di vivere che scopre in Oriente diventerà il suo principale riferimento per gli oggetti iconici che progetterà, così come per il modo di concepire una cucina moderna, ma la domanda che guida la sua ricerca è sempre quella degli anni dei suoi fotomontaggi politici: come vogliamo vivere?