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Il vero romanzo di Bret Easton Ellis

Le schegge, il nuovo romanzo dello scrittore losangelino, non è solo il ritorno al suo antico splendore, ma anche l'opera di un autore nuovo, cambiato.

di Cristiano de Majo

La prima sensazione a fine libro è un vuoto. Non la soddisfazione o il sollievo di aver finito un tomo di settecento e passa pagine ma il senso di smarrimento di essere fuori dalla cosa che ha occupato il tuo tempo e i tuoi pensieri nelle ultime due o tre settimane, e di volerci invece restare dentro. Anche perché di libri così non ne capitano spesso tra le mani e lo sai bene che il prossimo e i prossimi che leggerai non ti faranno provare le stesse cose, quel trasporto adolescenziale pre-internet in cui niente ti distraeva dal grande romanzo da cui eri stato inghiottito.

La similitudine è parecchio abusata, ma finire Le schegge è davvero come essere tornato da un viaggio. Felice di averlo fatto, triste per averlo finito, e con in testa troppi ricordi che vorresti rivivere come se non li avessi ancora vissuti. E il viaggio c’entra anche perché si prova poi un vero senso di mancanza per Los Angeles. Se ci sei stato o solo quella che hai conosciuto dai tempi di Meno di zero. Ma anche la iper-Los Angeles dei film e dei romanzi. La città inevitabilmente noir di cui parlava Mike Davis in Città di quarzo (terra di emigrazioni e di peccatori, di promesse vendute e di illusioni necessariamente disattese). E quindi la Los Angeles di Chandler e di Polanski (Chinatown), e quella di Ellroy e di Michael Connelly, e poi quella più notturna di tutte, imboccata da David Lynch sulla Mullholland Drive, che è anche la strada dove vive la voce narrante di questo libro.

Provando a rimettere in ordine i pensieri in una forma meno impressionistica, Le schegge è il nono libro di Bret Easton Ellis (il settimo romanzo), e probabilmente anche il suo lavoro meno atteso. Ellis è stato idolatrato come pochi altri scrittori, oggetto sin dal suo esordio di un culto subito diventato largo, internazionale, arrivato al suo apice con American Psycho, e che però poi si è sempre più disperso, trasformato anche in delusione o avversione con gli ultimi due libri, Imperial Bedrooms, seguito di Meno di Zero e appunto variazione sul tema del noir losangelino, libro secondo me di grande raffinatezza lirica, ma che per qualche motivo non è piaciuto e soprattutto l’osteggiatissimo White, Bianco, che è anche un album di memorie culturali (tanto cinema visto e analizzato), ma che si è fatto notare, per usare un eufemismo, per la sua carica polemica contro il politicamente corretto e gli atteggiamenti moraleggianti della generazione Millennial. Ci si metta pure diversi fallimenti cinematografici, progetti lanciati e mai decollati, svariate dichiarazioni sul fatto che non avrebbe scritto più romanzi e un uso non proprio prudente di Twitter (la famosa shitstorm per le sue parole su David Foster Wallace, tra le altre cose), si ha come somma che negli ultimi anni Ellis abbia assunto sempre più l’aria di un grande caduto in disgrazia, uno scrittore relegato alla sua epoca d’oro nel migliore dei casi, o peggio un vecchio gay inacidito al punto da diventare reazionario, incapace di venire a patti con il declino del suo talento.

E non sarebbe neanche così strano, questo declino. Pochissimi scrittori riescono a surfare sui decenni. Pochissimi davvero riescono a scrivere più di due o tre grandi libri. Spesso quelli che hanno incarnato un’epoca, come Ellis ha incarnato gli anni ’80, sono i più svantaggiati, mentre i più costanti sono quelli che, come vuole l’adagio, scrivono sempre lo stesso libro. Ellis ha scritto sempre lo stesso libro? Per certi versi si è portati a pensarlo, alcuni lo pensano, ma non è proprio così. Meno di zero e Le regole dell’attrazione sono due romanzi di formazione gemelli in cui la novità (e il conseguente scandalo) fu lo stile (quello che si potrebbe definire un nichilismo lirico) e il montaggio frenetico – frenetico per quei tempi; nessuno sapeva che sarebbe arrivato TikTok – specchio di quella che venne chiamata la “Generazione Mtv”. American Psycho è una satira horror sul fulgore del capitalismo nel momento del suo massimo splendore. Glamorama è un thriller erotico e complottista ambientato nel mondo della moda. Lunar Park è una ghost story trattata sorprendentemente con l’uso dell’autofiction. Imperial Bedroom è un noir meta-letterario costruito con i personaggi invecchiati di Meno di zero. Sono tutti libri diversi. Certo, tutti sono attraversati dallo sguardo sul mondo di Bret Ellis, dal suo tono ironico, sprezzante ma anche romantico. E tutti o quasi hanno in comune quella forza ipnotica, il potere di far sprofondare il lettore nelle sue pagine.

Quello che succede nelle Schegge è una cosa ancora diversa. Il romanzo è come una costruzione i cui pezzi sembrano presi qua e là dai libri che l’hanno preceduto. La storia è quella di Bret Easton Ellis (l’autofiction come in Lunar Park), il liceale che sarebbe poi diventato il famoso scrittore, che ci racconta come e quali fatti determinarono la fine della sua innocenza all’età di sedici anni: «Fu come se un nuovo mondo si annunciasse, tingendo di un colore più scuro quello che avevamo dato per scontato». I personaggi ci vengono presentati quindi come le vere persone dietro i nomi inventati di Meno di Zero (e ovviamente le si cerca su Google senza trovarle; sono a loro volte inventate, ma ci si può imbattere in un thread su Reddit che trova corrispondenze con foto e nomi veri su un annuario del liceo di Ellis). Sono ricchi sedicenni losangelini che frequentano un liceo privato e che, come i vecchi personaggi di Ellis, vivono in case bellissime con piscine, domestici e animali, dove gli adulti sono perlopiù assenti, guidano macchine di lusso, fanno ampio uso di droghe e psicofarmaci e “sperimentano” col sesso.

La storia parte quando nel settembre del 1981 un nuovo compagno di scuola irrompe nelle dinamiche di questo gruppo di ragazzi che sembrano conoscersi da sempre e, parallelamente, viene attraversata da una serie di sparizioni e di omicidi di ragazzi a opera di un serial killer, con modalità e setting particolarmente splatter, che ricordano molto le efferatezze di American Psycho, mentre il protagonista vive con l’ansia costante di essere seguito, osservato, quella tipica paranoia ellisiana già vista in Lunar Park, Glamorama e Imperial Bedroom. Persino White torna in mente nelle parti più saggistiche e nerd dedicate al cinema e alla musica (tantissima musica nelle Schegge, più ancora che negli altri libri, tanto che qualcuno ha fatto una playlist).

Quest’architettura vertiginosamente letteraria (e auto-letteraria) mette insieme la parte più incline di Ellis al romanzo sociale e quella cinematografica, più horror o thriller. Non è una corrispondenza esatta, ma è grossomodo la fusione impossibile dei due santini letterari di questo libro e in generale dello scrittore: Joan Didion («Nel 1981 ero nel pieno della mia fase Joan Didion») e Stephen King («Verso la fine del mese di maggio del 1980 – il 23 maggio per l’esattezza – uscí Shining, e io volevo vederlo il prima possibile. Avevo letto il romanzo nel 1977 appena era stato pubblicato, quando ero già un grande fan di Stephen King, avendo imparato praticamente a memoria Carrie e Le notti di Salem, i suoi primi due libri, e a tredici anni Shining mi aveva decisamente terrorizzato»).

Se tutto vi sembra già visto, il libro ha in realtà qualcosa che prima non c’era. È il tono di voce, che ha una modulazione nuova rispetto ai precedenti libri di Ellis. Non si trovano in queste pagine la sprezzatura e l’ironia nichilista che sono stati per quarant’anni il suo marchio di fabbrica e neanche gli slogan enigmatici alla “disappear here”, ma una voce che suona dolorosamente autentica. La voce di uno scrittore sessantenne che scavando cerca di riprodurre quella del se stesso sedicenne e che miracolosamente ci riesce. Le scene di sesso, per esempio, sempre molto esplicite, possiedono anche un sottofondo sentimentale e ingenuo: «Io desideravo accedere al mondo più popolare di cui a Matt non importava nulla, e nel corso dell’ultimo anno frequentare Matt, e solo Matt, non mi avrebbe aiutato a realizzare quell’ambizione, così mi allontanai da lui. A livello sessuale lo trovavo sexy quanto una pornostar ma non me ne ero mai innamorato nel modo in cui da ultimo mi era successo, per un breve momento, con Ryan…». Ma si potrebbero fare molti altri esempi in cui si prova uno spaesamento nel leggere frasi o pagine che non ti aspetteresti da un libro di Ellis. Lo spaesamento però dura pochissimo perché da lettori ci si trova quasi subito a vivere nella storia. Ad avere più che altro voglia di andare avanti, sapere, fronteggiando il desiderio e l’ansia.

So di essere fortemente condizionato nella lettura di Ellis dal fatto che è stato, più che uno scrittore preferito, lo scrittore, soprattutto nei suoi primi libri, del mondo che ho sentito più vicino, anzi del mondo in cui avrei voluto vivere (aspirazionale, si direbbe oggi), oltre che un’icona per la mia generazione. Ma, non penso di essere così parziale se dico che viene anche difficile trovarne uno che negli ultimi trenta o quarant’anni abbia saputo trovare una corrispondenza così riuscita tra forma e trama, coolness e intelligenza, consapevolezza letteraria e intrattenimento. Corrispondenze che nelle Schegge trovano forse il loro picco massimo ed è tanto più strano se si pensa che, appunto, da Ellis nessuno si aspettava più nulla.

E invece questa coesistenza dei livelli di lettura è perfetta fino all’ultimo, quando alla fine di questa cavalcata di settecento e passa pagine, sei arrivato febbricitante a “scoprire” quello che stavi cercando, restando sveglio fino a tardi o svegliandoti presto per leggere, e dentro la soluzione hai trovato un altro messaggio, più nascosto, personale e letterario insieme, che suona così: dovevo uccidere i miei personaggi, quelli che mi hanno fatto arrivare fino a qui.