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19:20 lunedì 16 giugno 2025
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Una bella casa dove stare

Non tutti gli spazi che abitiamo sono fatti per starci: rassegna di case (e di stanze) fondamentali a cui ispirarsi.

31 Marzo 2020

È la raccomandazione del momento, l’hashtag, le tre parole disegnate dalle luci del Pirellone di Gio Ponti: state a casa.  All’improvviso ci siamo però accorti che, quando molti di noi hanno scelto una casa, non avevano previsto di doverci stare chiusi dentro per davvero. Che cosa c’è che non va in tutte queste case occupate per decreto? Ci rappresentano solo quando dobbiamo scegliere cucina, divano e colore delle pareti, salvo poi scoprire che la casa solo in teoria è fatta per essere abitata, nella pratica sembra essere stata pensata per starne fuori.

Proprio lo scorso febbraio, pochi giorni prima che stare in casa diventasse l’unico antivirale possibile, il Vitra Design Museum (adesso chiuso) inaugurava una mostra dedicata a cento anni di interior design: Home Stories: 100 Years, 20 Visionary Interiors, una esposizione pensata per rileggere attraverso gli elementi d’arredo, gli spazi ed il colore, il cambiamento della società una decade dopo l’altra. Ogni casa è naturalmente una storia, ma la decodifica di ogni casa ci racconta la Storia.

Finn Juhl House, Ordrup, Denmark, 1941 Photo: Henrik Sorensen Photography, 2013

Una relazione che si muove in due direzioni: da una parte ci sono i cambiamenti sociali, politici ed il fondamentale progresso tecnologico. Dall’altra, l’interior design viene plasmato da tutto questo mondo che si muove al di fuori delle quattro pareti. La casa, ma più che altro la stanza «forma elementare ma completa dell’architettura» secondo la definizione di Gianni Ottolini, non solo rappresenta “noi”, ma noi immersi nel contesto. Insomma, viviamo bene una casa quando questa è calata nella contemporaneità, e forse addirittura un poco più avanti. Altrimenti, ci adattiamo al compromesso, finché dura.

Al Vitra Museum sono stati scelti 20 progetti, iconici non solo per quanto riguarda l’impatto estetico e stilistico, ma anche per il modo in cui sono in grado di definire le epoche a colpo d’occhio. Gli anni ’80 degli interni Memphis dove il gioco ed il kitsch diventano una forma di lusso. Gli anni ’50 negli ambienti sudamericani di Lina Bo Bardi, quando quel continente era un ricco centro della sperimentazione. Gli anni ’70 con le soluzioni Ikea, che non solo risolvono un problema economico per casa e piccoli uffici ma, in una società che si sposta verso servizi e consulenze, permettono di mostrare agli amici – con una certa soddisfazione – di essere ancora capaci di impugnare una brugola.

Progresso tecnologico non significa solo ascensori, cento piani e strutture in acciaio e vetro sigillato. Per tutti, arrivano gli elettrodomestici. Con la Frankfurt Kitchen la cucina è diventata un ambiente isolato dal resto della casa, l’officina dove la donna può lavorare ed utilizzare in libertà i suoi attrezzi del mestiere. Una trasformazione possibile anche grazie agli impianti di riscaldamento diffusi, che sostituiscono la grande stufa al centro della casa. Tutte conquiste, certo, almeno finché non diventano trappole. È questo “state in cucina” che non è piaciuto al movimento femminista. Quando si è iniziato a parlare di emancipazione, quello spazio non era più sinonimo di libertà, e la cucina è tornata ad essere aperta, inserita in un ambiente dove tutti, uomini, donne, ospiti ed invitati, partecipano e collaborano.

Lina Bo Bardi, Casa de Vidro, São Paulo, Brazil, 1952 Photo: © Nelson Kon, 2002

Ma non sono gli architetti a cambiare idea, è la storia che attribuisce diversi significati alle idee. Anche Le Corbusier è inciampato sul cambiamento, lui che il cambiamento lo ha sempre voluto scatenare, a volte imporre. Le sue unità abitative sono nate con l’intenzione di organizzare le grandi trasformazioni urbane del dopoguerra, con migliaia di famiglie che si spostano dalle campagne alla città ed i governi, soprattutto francese, che capiscono che si tratta di una emergenza e che bisogna gestirla. Le Corbusier pensa ad appartamenti standard, cellule abitative di due piani collegati da una scala interna, pensati per accogliere e proteggere gli individui una volta chiusa la porta e tagliati i collegamenti con il resto della città-condominio. Oggi, queste “macchine per abitare” sembrano evocare uno “state a casa” imposto dall’alto, l’alienazione, la periferia pianificata che, nonostante tutti gli sforzi, continua ad annullare l’individuo. Certo, non l’Unité d’Habitation di Marsiglia, diventato condominio di lusso e di culto.

Nulla è interessante come quando gli architetti sperimentano nelle loro, di case. Pochi vincoli, foglio bianco il cui unico problema è “e adesso, che direzione prendiamo?”, una immaginazione che rasenta l’utopia. Per lo stesso Le Corbusier, l’ideale di casa è stata il Cabanon di Roquebrune Cap-Martin, la sua reggia affacciata sul Mediterraneo. Una costruzione in legno di 3,66 per 3,66 metri, quattordici metri quadrati in tutto. Tra tutti gli aggettivi che descrivono questo progetto, “insemplificabile” è il migliore: non solo non c’era nulla da aggiungere, ma nemmeno nulla da togliere. Proporzioni definite dalla figura umana, elementi d’arredo ridotti al minimo, suddivisione funzionale dell’ambiente interno. E certo, poi la natura lì fuori, che forse rende anche irreplicabile questo esperimento. È qui che ha trascorso i suoi ultimi giorni l’architetto svizzero, morto una mattina di agosto nel mare di fronte al Cabanon. Certo, se pensiamo alla casa in senso ampio, Le Corbusier aveva progettato anche la sua tomba, nel cimitero di Roquebrune, con le forme essenziali dell’architettura moderna: un cilindro, un triangolo ed un parallelepipedo, in cemento bianco.

Pochi metri sotto, quarant’anni prima, la designer Eileen Gray aveva costruito la sua Villa E1027. Aristocratica, irlandese, pioniera dell’arte del vivere, in quella villa aveva sintetizzato tutte le sue idee intorno al funzionalismo: un ambiente per ogni attività. La cucina, dove operavano i camerieri, era all’esterno della struttura: niente odori, niente estranei in casa. Gli stessi camerieri dovevano muoversi attraverso le stanze seguendo un senso di marcia ed un itinerario diverso rispetto a quello del padrone. Tutto questo era stato minuziosamente indicato con chiare segnalazioni verniciate sulle pareti bianche. Quegli stessi muri che Le Corbusier “imbratterà”, per usare il termine di Eileen Gray, con una serie di dipinti allusivi alla bisessualità della designer irlandese. Lei non tornerà mai più tra quelle pareti, delle quali era stata violata la purezza. Insomma, capì che non era più possibile stare – bene – in quella casa.

Karl Lagerfeld’s Monte Carlo Apartment (with designs by Memphis), Monaco, ca. 1983 © Jacques Schumacher

Così come non lo è mai stato per la dottoressa Farnsworth, per la quale Mies Van der Rohe aveva progettato la casa per i weekend fuori Chicago: la Farnsworth House, oggi, edificio simbolo dell’architettura moderna. In quella casa la vita era talmente impossibile, che tutto finì nelle mani degli avvocati. Un open space completamente trasparente affacciato sul bosco, privo di privacy e, tra l’altro, eccessivamente costoso. Questa storia finì in tribunale più che per le troppe vetrate a nastro, per il fatto che Mies presentò una incredibile parcella alla dottoressa Farnsworth, in un momento in cui lei aveva forse pensato che il legame tra i due andasse oltre il rapporto architetto-committente.

Due anni fa, la Fondation Luma di Arles ha dedicato una grande mostra ai prefabbricati di Jean Prouvé, una ricerca a cui l’architetto – fiero autodidatta – francese ha dedicato più di trent’anni. Case nate per costruire “i giorni migliori” del secondo dopoguerra, che si potevano montare con facilità ma, soprattutto, che si potevano smontare senza essere demolite. Per questo sono chiamate le “Maisons Démontable”, per essere facilmente trasferite in altri luoghi, per nuove necessità. Viene da pensare agli ospedali che vediamo costruire in timelapse in queste settimane.

Quando potremo riaprire le porte, molti di noi avranno avuto tempo per porsi domande più o meno consapevoli: alla fine, stare a casa è un valore? Vivere tra le pareti domestiche è qualcosa che possiamo rendere sostenibile? Uno spazio che, nella maggior parte dei casi, è standard, può adattarsi a ciascuno di noi, o siamo destinati al compromesso?
I progettisti tentano da sempre di dare risposte e soluzioni, spesso sono solo dei tentativi che devono reggere il giudizio della storia, oltre che quello degli inquilini.

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