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Rileggere Carmen Maria Machado

Nell'attesa dell'arrivo della serie tv tratta da Il suo corpo e altre feste, un dialogo con una delle voci più interessanti della letteratura queer.

07 Settembre 2021

I libri di Carmen Maria Machado sono architetture. Non solo perché sono ricchi di costruzioni narrative e non-fiction, elementi scomposti e ricomposti più e più volte ma per una personale propensione dell’autrice a disseminare tracce di sé dentro ai luoghi, tanto quotidiani quanto alieni, e costruire case fantasma all’interno delle quattro mura, culle “home sweet home” e sedi dei peggiori incubi. Che l’immaginario ricco di contaminazioni di Machado fosse una novità per il panorama editoriale americano era già evidente nella raccolta di racconti, Il suo corpo e altre feste (uscito nel 2017 negli Stati Uniti ed edito in Italia da Codice Edizioni), un caso editoriale che è valso a Machado interviste su magazine patinati, una lode del Guardian per la “rara audacia” della sua penna capace di mescolare horror e fiaba, una menzione del New York Times tra “i 15 libri della New Vanguard” nonché una serie tv, tuttora in progress, tratta dalla raccolta. Con l’atipico memoir Nella casa dei tuoi sogni (Codice Edizioni) che intercetta narrativa e saggistica, fiaba e linguistica, cultura pop e queer studies, costruito con capitoli uno dentro l’altro come labirinti claustrofobici, il percorso procede per accostamenti di idee che sfaldano il mito della casa come luogo sicuro e, scavando nella memoria personale e collettiva della comunità queer, fotografano la realtà di un abuso. Tra le righe a calamitare il lettore è la ricerca del punto in cui il quadro diventa storto, è l’incipit di una relazione disfunzionale, traccia che scorre parallela alla caduta di maschere e miti introiettati fin dall’infanzia.

Finalista al National Book Award, Carmen Maria Machado, Artist-in-Residence all’University of Pennsylvania, dove tiene un corso accademico sulle case infestate nella letteratura – «Sono spie delle nostre paure, del nostro rapporto con lo spazio, il tempo e i luoghi che abitiamo» racconta – ha inanellato una serie infinita di traguardi. Vincitrice, tra gli altri riconoscimenti del Lambda Literary Award for LGBTQ Nonfiction, del Brooklyn Public Library Literature Prize, del Shirley Jackson Award, tra gli altri premi, ha un nuovo libro in cantiere ed è al lavoro su una sceneggiatura. «Mi piacerebbe sperimentare anche il linguaggio del videogioco. È come aprire tutte le porte che conducono a una storia, la dimensione interattiva della narrazione mi interessa da sempre».

Il memoir Nella casa dei tuoi sogni si apre con una citazione di Louise Bourgeois «la memoria stessa è una forma di architettura». Perché?
Ho letto molti scritti di Bourgeois, nel libro, poi, è finito dentro molto meno. Volevo iniziare con quel passo perché implica l’idea che la memoria debba essere costruita. Pensiamo, spesso, che la memoria funzioni in modo automatico, che le cose succedano e noi le ricordiamo senza alcuno sforzo. La realtà è che, quando guardi indietro, devi costruire la memoria intorno alle cose, muoverti continuamente dal presente al passato, credo sia un modo interessante di pensare alle dinamiche del ricordo.

Hai spesso inglobato l’archivio nella tua ricerca e nella tua scrittura. Qual è il potere sovversivo di ciò che è stato cancellato, censurato, epurato dall’archivio?
Costruire l’archivio è costruire la memoria, l’archivio è uno strumento di potere, è politico, determina quale lato della narrazione passa come storia ufficiale. Quando qualcosa viene lasciato fuori è indicativo. Ci sono narrazioni non presenti negli archivi ufficiali, altre che non vengono colte nell’immaginario comune. Si pensi alla storia delle persone transgender, oggi ci sembra qualcosa di relativamente nuovo eppure è antichissima, un archivio a Berlino ne traccia il percorso. C’è una sorta di archivio parallelo, un archivio fantasma di tutto ciò che è stato rimosso. Ho letto che scrivere la storia delle donne è come scrivere sulla sabbia, ogni onda sembra spazzare via ciò che è stato e altre donne devono creare dal nulla il loro archivio. È lo stesso per le persone queer, transgender, black, la storia ufficiale non è stata registrata attraverso i loro occhi e, ogni volta, nuove generazioni devono riscriverla.

A proposito di censure, dopo che una scuola statunitense ha bandito il tuo memoir, insieme ad altri autori e autrici, tra cui Margaret Atwood, hai chiesto che i libri fossero di nuovo a disposizione degli studenti. «Nella lista annuale di libri censurati stilata dall’American Library Association, quelli i cui personaggi e/o autori sono black, latini, queer o trans appaiono spesso in testa», scrivi raccontando il caso al New York Times
Ho scritto un essay per il New York Times (“Banning My Book Won’t Protect Your Child”, nda) perché il mio libro era stato bandito in una scuola americana. Tutto era iniziato dopo le segnalazioni di gruppi religiosi a cui non piacevano i contenuti queer. Si pensa che tutto ciò sia normale, abbiamo tanta strada da fare. Negli Stati Uniti, poi, abbiamo a malapena educazione sessuale e un’educazione affettiva non è minimamente contemplata, non siamo abituati a pensare a cosa sia sano o meno quando si tratta di relazioni, crediamo, per esempio, che la gelosia sia romantica, è importante ripensare la questione in altri termini.

Se la scrittura è testimonianza dovrebbe essere ancora più preziosa se i lettori sono negli anni della formazione…
Sono stata in una relazione abusiva, tuttora ci sono due Carmen, una è una scrittrice soddisfatta che sta girando per festival letterari, l’altra è ancora lì, sotto shock, ha poco più di vent’anni, non sa cosa le è accaduto e cosa succederà dopo. Per me scrivere non è stato una forma di terapia, è stato dolorosissimo, la ferita è ancora lì, intatta. Posso dire, però, che scrivere è una forma creativa di testimonianza. È importante ci sia una pluralità di voci letterarie accessibili anche a ragazze e ragazzi. Non è un caso che siano tra i più censurati i libri che raccontano storie e personaggi queer, trans, black perché omofobia, transfobia, razzismo, purtroppo, ancora dilagano. E non solo tra i gruppi di genitori conservatori…

Nel memoir citi Angela Carter e decostruisci la struttura della fiaba, o meglio ne recuperi le origini prima della versione edulcorata disneyana. Perchè?
Sono sempre stata affascinata dalle fiabe. Sono, in un certo senso, simili ai luoghi comuni, attraversano moltissimi paesi, culture, tempi. Leggerle è un modo interessante di vedere come si costruiscono miti e pensieri. Non sono interessata al romance ma a quello che le fiabe rappresentano come linguaggio universale. Ci dicono, per esempio, come accade per generi letterari e cinematografici come l’horror, di cosa siamo preoccupati e di cosa abbiamo paura…

Ti interessano anche espressioni idiomatiche e luoghi comuni…
Gli idiomi sono indicativi del modo in cui formuliamo i pensieri. Sono indici. Scrivendo il libro ho studiato tutte le espressioni inglesi che tratteggiano la casa come luogo sicuro e protetto, le ho sentite dire per tutta la mia vita, quando ne ho letto le origini, spesso mi sono stupita. Se la casa è l’unico posto sicuro, per esempio, significa che, senza, tu non possa salvarti altrove e dunque che non ti salvi da sola. Spesso le frasi fatte indicano esattamente il contrario rispetto a quanto la gente crede e questo mi sembrava davvero affascinante.

Pensando ancora alle rappresentazioni comuni, il corpo, osservato dal “male gaze” è spesso scomposto, oggettificato. I corpi delle tue narrazioni, al contrario, non solo sono integri ma nascondono superpoteri, sono “super corpi”. Quando sei diventata consapevole del potere che aveva il tuo?
Intorno ai vent’anni credo, sono cresciuta negli anni Novanta, avevo una madre ossessionata dalla diet culture e che odiava il suo corpo e di conseguenza io odiavo il mio. Ora lo amo e lo amano tutte le persone che per me contano ma è servito tempo per disinnescare cattive abitudini e voci nella mia testa. Occupare il mio corpo in modo libero e reale è stato un atto politico così come non provare più rabbia né giudizi. Se ora penso a quanti odiano il proprio corpo la cosa mi riempie di dolore.

Siamo nell’era della body positivity, credi che dinamiche capitalistiche e slogan online ne stiano alterando messaggio e contenuti?
Sì, ogni movimento può essere sovvertito dal potere corrosivo del capitalismo, è valido anche per i movimenti queer, non mi piace l’idea di un pride durante il quale ovunque si vedono prodotti commerciali ammiccanti. Allo stesso modo la body positivity mi sembra troppo interessata a vendere vestiti, sicuramente è una parte del progetto, ma c’è molto, molto di più. D’altro canto credo che tutto possa essere contaminato dal capitalismo, è un processo inevitabile.

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