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Carlo Carabba, essere poeta in una multinazionale dell’editoria

Di giorno è Executive Editor di Narrativa Italiana ad HarperCollins, di notte scrive poesie e romanzi e fa karaoke a squarciagola: intervista a una figura sui generis del panorama italiano.

di Chiara Barzini

Carlo Carabba è una figura sui generis nel panorama letterario italiano. Una sorta di supereroe dalla doppia (tripla?) identità. Di giorno è Executive Editor di Narrativa Italiana ad HarperCollins, di notte scrive poesie e romanzi e fa karaoke a squarciagola. Ne La prima parte (Marsilio) ha raccolto poesie edite e inedite scritte in un arco di tempo che va dal 2001 al 2020. Vent’anni di cambiamenti, vittorie, delusioni e lutti. C’è nostalgia per questo ventennio rivoluzionario e anche un po’ di sfacciataggine. Nell’ultimo periodo siamo stati tutti costretti a sviluppare distacco e cinismo, ma nei libri di Carabba e in questa intervista non c’è traccia di questo. Siamo spinti a invocare la new wave di poeti polacchi come Adam Zagajewski, mentre la old wave del mondo reale sembra essersi infranta per sempre. Abbiamo deciso di fare una chiacchierata proprio su questo, il vecchio e il nuovo, la vita ufficiale e quella privata, la fine del romanticismo e la voglia di continuare a illudersi.

ⓢ È passato del tempo dalla tua prima raccolta di poesie Gli anni della pioggia, una raccolta che ho amato moltissimo. Mi sono sempre chiesta perché non ne stessi scrivendo altre. Quanto hai tergiversato prima di accettare il fatto che sei un poeta e che avevi voglia e bisogno di scrivere un nuovo libro di poesie?
In realtà il fatto è stato che mentre scrivevo la serie di poesie del viaggio americano che sta in questa raccolta (una specie di diario in versi di un coast-to-coast che ho fatto nel 2006, sono sei poesie dedicate al mio compagno di viaggio Matteo Benedetti, complessivamente si chiamano “Inseguendo il tramonto”) è morta una delle mie migliori amiche. A quel punto mi sembrava assurdo, impossibile, insensato, non scrivere di lei. E dopo qualche mese, circa sei o sette credo, ho iniziato a pensare di scrivere una poesia su di lei. Ma, forse perché era tutto fresco ed ero perso nel lutto, forse perché mi sembrava di comprimere in un tutto ordinato (una poesia) una cosa che era folle e disordinata, mi è parso che una poesia non bastasse. E ho pensato di scrivere una raccolta su questo. Ma io non sono portato per i “concept album” o le raccolte di poesie in cui ogni poesia è una tessera di un puzzle. Io ho sempre scritto poesie autosufficienti, tanti singoli, per restare nell’analogia musicale – poi è chiaro che i temi sono sempre quelli, l’amore, la morte, la solitudine ecc. Insomma, mi sono detto, qua devo scrivere un racconto. Ho iniziato, senza sapere bene dove andare, e presto ho capito che neanche il racconto mi bastava, e quindi questo testo in prosa si è espanso sempre di più, è diventato un flusso unico, senza mai stacchi, nemmeno una riga bianca, tutto collegato, di 150 pagine. Non l’ho mai considerato un romanzo, ma un lungo testo in prosa. Ultimamente ho capito che è una lunga poesia in prosa. È di lettura difficile, temo, a volte i periodi sono lunghi una pagina, e la sintassi è veramente complicata (anche se matematicamente esatta, se apro una coordinazione alla prima riga, poi posso metterci dentro venti subordinate, che a loro volta si coordinano ad altre venti, ma alla fine torno alla prima coordinazione e la chiudo). Un po’ mi dispiace perché, come nelle poesie che scrivo, è la fine a dare il senso al tutto e siccome temo che arrivarci, alla fine del mio libro in prosa non sia facilissimo, ho paura si perda il senso complessivo. Comunque ci ho messo cinque anni, a scriverlo. Poi, non appena l’ho finito, avevo avuto una promozione importante sul lavoro e volevo dedicarmi solo a quello, e tenevo questo libro nel cassetto, perché non mi andava di mischiare le cose. A un certo punto mi sono sentito più tranquillo di avere dimostrato quel che dovevo dimostrare sul lavoro (questa cosa del dimostrare è terribile, vorrei non averla, ci sto lavorando su) e l’ho tirato fuori dal famoso cassetto virtuale. È stato rifiutato credo da sei editori, poi Chiara Valerio è andata a Marsilio, gliel’ho mandato e ne è stata entusiasta e io le sono davvero grato, come sono grato a lei e a Luca De Michelis (amministratore delegato della casa editrice) di avere pubblicato queste mie poesie ora, gesto niente affatto banale e scontato, da parte di un editore. Insomma, tornando alla domanda, a un certo punto avevo un po’ di poesie inedite e mi rendevo conto che quelle vecchie erano difficili da trovare e ho chiesto a Chiara se le andava di pubblicare una mia raccolta mista vecchia nuova. Lei ha accettato. Io rimandavo, prendevo appunti, perché c’erano delle poesie che sapevo di volere scrivere, di cui avevo già dei versi. Intanto la mia vita aveva avuto un periodo turbolento ed era iniziata la pandemia, ma io continuavo a prendere appunti per un nuovo libro in prosa e per le poesie, ma non scrivevo. Poi nell’estate del 2020, dopo alterne vicende mi sono ritrovato in Grecia, a Symi, un’isola cara a me e la mia compagna. E là ho scritto, e si è aperta una vena. Non sapevo che dal settembre all’agosto successivo avrei dovuto attraversare un anno carico di lutti, tra cui quello, infinito e “life-defining”, di mio padre. Però in quest’anno così doloroso ho continuato a scrivere, tanto, poesie, come non mi accadeva da anni.

Mi parli un po’ della tua doppia vita di scrittore ed editor? È difficile mantenere il cervello vigile per intuire i gusti degli altri e poi tornare nella grotta calduccia della propria creatività?
Non lo so, in realtà, io amo il mio lavoro di editor, mi piace tantissimo provare a valorizzare il talento altrui, che poi, è un po’ una formula ma ci credo, è un lavoro maieutico, non normativo, per me consiste nell’entrare in un’armonia assoluta con l’anima dell’autrice o autore che sto pubblicando, per provare a capire qual è il libro ideale che lei o lui sta cercando di scrivere (molto platonico, un iperuranio dei libri da scrivere), non sovrascrivere con delle regole la creatività altrui. Scrivere un libro in prosa mi ha aiutato tantissimo nel mio lavoro sui testi altrui (anche se poi il mio lavoro comprende anche tutta un’altra parte, cioè la scelta iniziale su cosa pubblicare e il “publishing”, tutto un insieme di decisioni prese di concerto con la casa editrice, titolo, copertina, posizionamento, che riguardano il modo in cui il libro pubblicando sarà presentato al mondo). E il mio lavoro in realtà mi fa continuamente capire cose sulla scrittura. Il problema è semmai il tempo, sia quello materiale, perché è un lavoro che tende a portarti via tante ore, sia quello, chiamiamolo, spirituale, perché spesso si è immersi in un libro altrui, che oramai si sente come proprio (affettivamente, non nel senso che l’editor è l’autrice/autore del libro, che è una sciocchezza, ma nel senso che l’editor può amare il libro quasi quanto lo può amare l’autrice/autore che l’ha scritto). Però penso che sia una ricchezza, fare entrambe le cose. Non sono sicuro che fare l’editor aiuti a scrivere (in una certa misura sì), ma sono certo che scrivere ti migliori in quanto editor. D’altra parte la storia dell’editoria italiana è fatta di grandi editor scrittrici/scrittori, come Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Vittorio Sereni, Elio Vittorini, Roberto Calasso, Antonio Riccardi, Antonio Franchini, Beatrice Masini, Helena Janeczek, Matteo Codignola, Vincenzo Ostuni a cui di recente si sono aggiunti (come scrittori) Gianarturo Ferrari e Alberto Rollo e, da pochi giorni, Jacopo De Michelis fino ad arrivare alla generazione di cui faccio parte anche io Mario Desiati, Chiara Valerio, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Federica Manzon, Rosella Postorino, Marco Peano, Giulia Caminito e sto sicuramente dimenticando qualcuno.

Cosa ti manca della poesia nel tuo lavoro come editor e cosa di manca del tuo lavoro di editor nel tuo essere poeta?
Parto dalla seconda parte della domanda. Io sono fedele alla lunga tradizione del labor limae. Posso impiegare anni (in cui ovviamente faccio anche altro) per scrivere una singola poesia, che può avere trenta versioni, in un continuo processo di autoediting. Quindi in realtà quell’aspetto lì esiste (anche se poi l’editor verə e propriə può solo essere esternə). Rispetto alla prima parte invece io non sono un editor di poesia, anche se per fortuna ogni tanto mi capita di pubblicare quantomeno opere anomale, in qualche modo avvicinabili alla poesia, come era stato Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini, o uno stupendo romanzo in versi di Francesca Genti, trai poeti italiani che amo di più, sulla vita di Nina Simone, che uscirà a inizio 2022.

La nostalgia è una grande chiave del tuo lavoro di scrittore e poeta. Il tempo passa, gli amici si perdono, ci sono lutti, matrimoni, divorzi. Che rapporto hai con il cambiamento?
Quando ero piccolo ero terrorizzato dal cambiamento. Pensavo che il cambiamento avrebbe portato il disastro, la morte, a partire da quella dei miei genitori e delle persone a me care. Così ho elaborato una complessa numerologia alla base di rituali ossessivi-compulsivi, una discreta parte dei quali compio tuttora (ma in un modo assolutamente compatibile, ci tengo a dirlo, con la normalità dell’esistenza). Poi ho imparato a capire e amare il cambiamento, anche se sì, spesso è doloroso (ma spesso sa essere glorioso). Rispetto al tempo è un discorso, temo, davvero complesso. La mia opera letteraria preferita, è, direi, la Recherche proustiana. Io mi sento affine al narratore della Recherche e al suo rapporto col tempo. Lui più volte cerca di capire la vita mentre si svolge, di avere un’epifania sul senso della vita. Ma non ci riesce mai (i campanili di Martinville, gli alberi di una foresta, le stazioni di una notte in treno). Le uniche epifanie che ha sono quelle che aprono e chiudono il libro, la famosa madeleine e il piede in fallo sulla mattonella nel Tempo ritrovato. E sono epifanie di morte. Sono epifanie che fanno capire che i noi stessi che eravamo sono morti, che è morto quel mondo in cui eravamo immersi, che era il nostro orizzonte. Eppure noi viviamo. E il rapporto con quei noi che non siamo e siamo stati è misterioso, la tenerezza che proviamo, il disgusto per degli atti che abbiamo compiuto o il dolore per il dolore che qualcosa ci ha causato, il rimorso per le azioni fatte o mancate, il dolce rimpianto degli attimi belli che vorremmo rivivere. Ecco, nella raccolta una poesia di quelle americane è dedicate a questo, all’idea, sbagliata, che “l’unico tempo vero” fosse quello che stavamo vivendo, senza rendercene conto, e che non viviamo più. Forse non ho risposto alla domanda, forse sì, non mi è chiaro.

Che rapporto hai con il karaoke?
Grazie di avermelo chiesto. Adoro cantare. Canto tutto il tempo, a casa, in motorino, (ovviamente) sotto la doccia, e spesso in ufficio mentre vago tra i corridoi (alla Mondadori di Segrate, che è un open space, questa cosa era accolta con affetto e ironia, spero – ricordo soprattutto le battute di Nadia Focile, meravigliosa responsabile dell’ufficio eventi, ed è capitato, anche ad HarperCollins, che con il calare della sera l’ufficio si sia riempito di note, grazie alla complicità di Aurora Peccarisi, giovane fantastica responsabile dell’ufficio diritti). Però parto stonato, e pare che negli anni, a furia di cantare, io sia diventato intonato, o giù di lì. Così quando qualcuno mi dice che canto bene, è tipo il miglior complimento che mi possano fare (mi piace anche quando mi dicono che sono bello, se devo essere onesto, mentre quando mi dicono che sono intelligente mi fa piacere, ma meno – questo probabilmente perché mi sento più sicuro, dell’intelligenza, mentre mi penso brutto e stonato).

Mi è capitato più volte di ballare e cantare a squarcia gola canzoni italiane pop con te. Chi stai ascoltando in questo periodo?
Allora, come tuttз sto ascoltando il disco di Marracash, poi ho avuto un innamoramento per Andrea Lazslo De Simone. E mi piace Tutti fenomeni. E molte cose di Achille Lauro. E qualche anno fa mi ero innamorato di Madame e del primo disco di Chadia Rodriguez. E prima ancora Calcutta, che mi piace moltissimo. E sono entusiasta del successo dei Måneskin. E a X-Factor mi aveva colpito molto l’audizione di Erio, ma ancora di più gIANMARIA, spero che mantenga le promesse, che sono splendide.

Qual è la cosa più poetica che hai mai fatto?
Se decidessi di mentire direi prendere la mongolfiera all’alba, in Cappadocia. O vedere la neve scendere sui canali veneziani. Mentirei un po’ meno se dicessi: quando avevo sedici anni ho fatto il mio primo interrail con quattro amici. Avevo una fidanzata, Giulia, di cui ero molto innamorato. Non c’erano ancora i cellulari, e lei era in una casa al mare, senza telefono. Così ogni giorno le scrivevo una lettera, più o meno sempre da un posto diverso, non sapendo lei dov’era, che faceva, se le stavano arrivando o no, le mie lettere. E rivederla a fine interrail è stato bellissimo.

Ma la verità è un’altra. Avevo 26 anni ed ero a Merida, in Messico, da solo alla fine di un viaggio. Una ragazza, meglio, una giovane donna mi ha sorriso, abbiamo iniziato a parlare. Mi ha chiesto che facevo io ho bofonchiato qualcosa su un dottorato e un lavoro in una rivista, lei mi ha detto la massaggiatrice. Io ho detto che non mi avevano mai fatto un massaggio e lei ha detto te ne faccio uno. Io “eh sarebbe bello ma domani parto”. Lei ha detto, vabbè, facciamolo ora. Ora, fino a qualche giorno prima ero in viaggio con un’amica e un amico, che poi erano partiti e loro se l’erano fatti fare, il massaggio. E mi sono detto, ma perché tu, Carlo, non ti concedi mai nulla. E ho accettato. Lei mi ha detto che esercitava in un albergo. E abbiamo cominciato a vagare per i vicoli di Merida, fino a che siamo arrivati a una stamberga in cui ci ha accolto un giovane messicano dagli occhi rossi con l’espressione che io associo al crack, anche se non ho mai visto una persona usare il crack. Nella stanza, complice una tecnica massaggiatoria rudimentale (che mi pare comprendesse anche un calpestamento piedi schiena) mi sono reso conto di quello che lettrici e lettori di questo sito, più perspicaci di me, avevano capito all’inizio del racconto. La giovane donna mi ha detto una tariffa. Io ho rifiutato, dicendo che avrei pagato per il disturbo ma non era la mia cosa. Ho pagato. Lei ha insistito ma io non ho cambiato idea. A quel punto mi ha abbracciato e mi ha spinto sul letto e ha iniziato a parlarmi. Mi ha detto che non le era mai capitato e mi ha chiesto se era perché ero fidanzato, che glielo potevo dire. Ma non lo ero. Ha iniziato a parlarmi della sua vita, dei suoi problemi, delle sue speranze, e ha un certo punto si è addormentata su di me. Ora, io non ho per nulla quella strana fascinazione della prostituzione, Garcia Marquez, Bukowski, i bordelli di Buenos Aires. Per niente. Penso che sia un problema enorme, per lo più gestito da malavitosi terribili, e ho tante riserve, politiche ed etiche sull’atto in sé (anche se poi so che c’è un movimento di sex workers che rivendicano la dignità del proprio lavoro e questo ancora una volta mi insegna che si deve evitare di essere giudicanti). Ma quella notte a Merida è forse davvero la cosa più poetica che mi sia capitata. Perché, almeno nella mia visione, per il poetico serve un misto di dolore, calore, squallore, dolcezza, e non credo che ci sia nulla di più poetico (e penso alla Ginestra) di un contatto umano imprevisto e impossibile nell’oceano burrascoso dell’esistenza.

Pensi che la tua parte di scrittore sia frenata dal fatto che hai anche una presenza pubblica nel mondo della letteratura? Per esempio l’anno in cui stato candidato allo Strega (2018) è stato anche l’anno in cui hai avuto un crollo del tuo sistema immunitario. Ricordo che quando ti congratulai eri pallido e turbato. Speravi solo di non entrare in cinquina.
Qua ci sono due discorsi diversi. Per rispondere al primo pezzo no, non lo penso. Penso anche che la mia vocazione principale sia fare l’editor, l’editore, lavorare con i contenuti e il talento altrui, provare a riconoscerlo e valorizzarlo al meglio. È una passione, oltre che un lavoro, davvero una chiamata. Poi mi rendo conto che scrivere è effettivamente una “urgenza” anche se oggi chi vuole apparire intelligente dice che dire questa cosa dell’urgenza è corrivo e volgare e fa venire in mente un mal di pancia. Ma se non scrivo, dopo un po’ non sono felice. E i periodi in cui scrivo tanto lo sono. Poi, io scrivo prevalentemente poesie, e al limite lunghi memoir filosofici che per me sono poesie in prosa e risultano penosi alla lettura. Quindi non credo che, sic stantibus rebus, siano cose che possano avere chissà quale circolazione. E quindi penso che, poiché ho avuto la fortuna di avere un buon successo nel mio lavoro, rispetto a un mondo che sa che lavoro faccio e che più o meno coincide con il pubblico, potenziale e reale, delle cose che scrivo, il mio lavoro mi dà più visibilità, non meno. Poi qualcunə a cui sto simpatico sarà benevolə, qualcun altrə malevolə (e non hai idea di come la cosa mi faccia soffrire, ma tant’è).

Rispetto allo Strega io non volevo andare, però un paio di persone mi hanno detto “Ma ti pare che non vai? Non è che hai paura?” e io purtroppo sono un po’ come Marty McFly in Ritorno al futuro, da un certo punto in poi della mia vita se qualcuno mi dice “Hai paura” o “Ti sfido” io non ci vedo più (ma anche su questo, ci sto lavorando). Poi però partecipavo nella doppia veste, di autore e di editore, per Mondadori, con un libro bellissimo, Il gioco di Carlo D’Amicis. E a un certo punto le voci, che sempre circondano il Premio Strega, dicevano che per l’ingresso in cinquina era un testa a testa a testa a testa tra quattro libri, tra cui il suo e il mio, per due posti. E tu mi devi avere incontrato in questa fase, con questo pensiero che mi incupiva e dispiaceva che entrassi io e non lui. Poi non è successo, lui è entrato e io no. Ne sono stato sinceramente molto felice.

 Che poeti stai leggendo e chi ti ispira in questo momento? E che consiglio daresti alla parte di te poeta ventenne?
Dunque, quando ho chiuso la raccolta ho riletto i miei numi tutelari italiani Pascoli e Gozzano (o letto per la prima volta alcune loro cose, soprattutto di Pascoli, che ha scritto di più e non conoscevo tutto), anche per un discorso sull’uso del metro, della rima, e via dicendo (sono tra gli italiani, quelli che mi paiono padroneggiare meglio la prosodia). Nello sbloccarmi è stato essenziale un regalo che mi ha fatto il mio amico Alessandro D’Avenia, le poesie di Adam Zagajewski (poeta ucraino e/ma apolide, pubblicato da Adelphi e ora in una bella edizione antologica molto completa, dallo Specchio Mondadori). Poi ho sempre l’impressione che quando uno (nel senso di io) fa gli elenchi finisca per scordare cose fondamentali, e dispiacere qualcunə che proprio non si voleva dispiacere. Quindi cito solo tre libri di poesie usciti di recente che mi hanno molto colpito: 50 tentati suicidi e 50 oggetti contundenti di Alessandra Carnaroli (Einaudi), All’altro capo di Roberto Deidier (Mondadori) e il sorprendentissimo 100 sonetti indie di Luca Alvino (InternoPoesia) – sono davvero cento sonetti, con gli endecasillabi e le rime, su temi della nostra quotidianità. Sono felicissimo siano usciti dei libri di poesia così forti originali e vitali più o meno insieme al mio. E voglio ricordare (per la seconda volta, temo) che a gennaio uscirà, per i tipi di HarperCollins, Nina, meraviglioso romanzo in versi di Francesca Genti, delle cui raccolte precedenti consiglio vivamente la lettura. Rispetto al me ventenne gli direi soltanto di non essere mai pigro, di provare sempre a capire se quello che stai scrivendo lo pensi e lo senti davvero, di fuggire la maniera e la sciatteria. E concluderei con il mio motto preferito (da anni sto pensando di tatuarmelo sugli avambracci), che devo a Winston Churchill: «Success is not final. Failure is not fatal». Motto che prosegue: «It is the courage to continue that counts».