Foto di Zoe Natale Mannella per il numero 41 di Studio

Attualità | Dal numero

Lo scontro generazionale ai tempi del Climate Change

Cosa fare quando tuo figlio inizia a guardarti con gli stessi occhi inquisitori di Greta? Forse la soluzione è abbracciarne la passione e lavorare per trasformarla in un sano, concreto, circostanziato ottimismo.

di Paola Peduzzi

Il bambino è depresso», dice la mamma di Alvy nel film di Woody Allen Io e Annie, «improvvisamente non riesce più a fare niente». «Perché sei depresso?», chiede il dottor Flicker al bambino sul divanetto accanto alla madre che risponde al suo posto: «È per una cosa che ha letto». «L’universo si sta dilatando», inizia Alvy, «l’universo è tutto e si sta dilatando. Questo significa che un bel giorno scoppierà e allora quel giorno sarà la fine di tutto». La mamma, agitata: «Ma sono affari tuoi, questi? Ha smesso anche di fare i compiti!». «A che scopo farli?», chiede Alvy. «Ma cosa c’entra l’universo con i compiti? Tu sei qui a Brooklyn e Brooklyn non si sta dilatando!», dice la mamma sobbalzando sul divanetto. «Non si dilaterà per miliardi e miliardi di anni», interviene il dottore, «e noi da qui ad allora dobbiamo cercare di go-der-ce-la».

Alvy vede il mondo dilatarsi, esplodere, e non ha senso fare i compiti, progettare il futuro, sognare, se tanto poi arriverà la fine di tutto. Vi ricorda qualcuno? Alvy è Greta ma noi non possiamo più essere il dottor Flicker, e non soltanto perché la sua sigaretta accesa dentro l’ambulatorio ci appare oggi inconcepibile: non abbiamo miliardi di anni davanti, non possiamo più go-der-ce-la. Ce lo dicono i dati, gli studi, gli esperti, persino il buon senso, e ce lo dice Greta, che si è incarnata nei nostri figli, nei compagni di classe dei nostri figli, in una generazione di ragazzini che ci accusa di aver ignorato la catastrofe ormai imminente: il mondo si dilata e un pianeta B non esiste.

Gli occhi di Greta sono ovunque, severi, inquisitori, arrabbiati. Me li sento addosso quando cambio l’acqua ai pesci rossi – ogni volta un disastro ecologico: se riempissi e svuotassi una piscina consumerei di meno – o nella stanzina dell’immondizia condominiale, mentre smisto pattumiera controllando le tabelle appese sui muri e chiedendomi quand’è che ho cominciato a lavare così meticolosamente i rifiuti. Me li sento addosso ovunque, gli occhi di Greta, si sono fissati sul volto dei miei figli che non spengono mai la luce uscendo da una stanza – la paura del buio è più forte della paura della dilatazione del mondo – ma osservano minacciosi le bottigliette di plastica che mi restano sciaguratamente nella borsa. S’aggirano con quel questionario-test che è stato distribuito a una mostra a Milano – “Capire il cambiamento climatico”, ora è a Napoli – che permette ai figli di dare una pagella ambientalista ai genitori, un esperimento diabolico che capovolge in un attimo gerarchie familiari millenarie: i ragazzi che mettono i voti agli adulti, che abuso di potere. Dicono: spegni il computer se non lo usi (invece le consolle restano accese di notte perché si fanno punti ai videogiochi pure dormendo), non prendere l’auto (ma se alla mattina piove e la figlia si è passata i capelli con la piastra allora un passaggio è ben accetto), non far scorrere l’acqua mentre ti lavi i denti (per i pesci, invece, la vasca piena), usa la borraccia, e così via. I voti sono bassini sempre, lo sguardo accusatorio è alto, e fisso.

Gli occhi di Greta hanno rivoluzionato ogni cosa: i giovani, gli adulti, il nostro desiderio di go-der-ce-la che a lungo è stato un semplice, solenne menefreghismo venato di qualche consapevolezza: le lavatrici soltanto di sera e pienissime, mai rifiuti per terra, molti video commoventi di panda. Greta e i suoi sostenitori che hanno riempito le piazze dei Fridays for Future in tutto il mondo – una cosa mai vista: una marcia globalizzata – mettono a disagio noi adulti: ci fanno sentire in colpa perché sapevamo che il cambiamento climatico era in corso e non abbiamo fatto nulla e perché oggi sembriamo del tutto impreparati ad affrontare questa crisi. Anzi: incapaci. Per questo molti adulti non sopportano Greta, cercano dietro di lei qualche manovratore occulto – dai suoi genitori a George Soros, vale tutto – o le prove che lei non sia spontanea, è un’operazione costruita a tavolino, un grillo parlante eterodiretto con le trecce di Pippi Calzelunghe, e sostengono che la sua campagna ambientalista sia una grande distrazione di massa per imporre ben altri fanatismi, sopra a tutto il controllo delle nascite.

Gli occhi di Greta sono ovunque, severi, inquisitori, arrabbiati. Me li sento addosso nella stanzina dell’immondizia condominiale mentre smisto pattumiera controllando le tabelle appese sui muri

In realtà Greta è soltanto un’adolescente, una teenager, con l’istinto colpevolizzante di quell’età, e il catastrofismo di quell’età. Non c’è rivoluzione senza un’anima – slogan, colonne sonore, simboli – nichilista, perché ogni cambiamento radicale parte dall’annullamento di quel che è stato fino a quel momento. I ragazzi severi, i ragazzi moralizzatori: sappiamo tutti  fin troppo bene di cosa si tratta. I tedeschi che hanno la parola perfetta per ogni situazione dicono, come ha fatto Jochen Bittner di Zeit, che il movimento legato a Greta è ispirato allo Zweckpessimismus, il pessimismo deliberato: aspettiamoci tutto il peggio possibile, se poi non accade proveremo sollievo. I giovani ci buttano addosso il loro pessimismo cosmico, l’eco-apocalisse imminente, e aspettano di vedere come reagiamo, sicuri che reagiremo per forza.

Il punto è proprio questo: come sosterremo lo sguardo di Greta, assecondando il suo pessimismo, il suo imperativo: panicate, adulti, perché avete sbagliato tutto? Oppure proporremo un sano, concreto, circostanziato ottimismo, basato sullo studio, la ricerca, l’innovazione, gli investimenti? Sempre Bittner, che non è un genitore ma non è nemmeno un ragazzo, dice: «Abbiamo bisogno di ottimismo, altrimenti il catastrofismo diventerà una routine fine a se stessa». Tirarlo fuori, questo ottimismo, costruirlo, non è semplice. Un po’ perché la fiducia nel futuro è poca anche tra gli adulti: se si guardano gli studi, dal Pew Center fino all’Eurobarometro, si vede chiaramente che non è la consapevolezza dei guai ambientali a mancare, c’è un’assenza più profonda, che ha a che fare con la nostra incapacità di fare affidamento sull’ingegno dell’uomo, lo human spirit come lo chiamano gli inglesi. Se scoprissimo oggi il fuoco, per dire, la gran parte di noi non vedrebbe l’opportunità di luce e calore data dal fuoco, ma direbbe: aiuto, bruceremo tutti. Questa sfiducia è il problema, e l’ingegno umano è la soluzione.

Foto di Zoe Natale Mannella per il numero 41 di Studio

Certo, alcuni elementi del movimento di Greta e del suo pessimismo deliberato sono destabilizzanti. Abbiamo preso dimestichezza (più o meno) con le emissioni di anidride carbonica e le impronte ecologiche di ognuno di noi, ma con il problema del sovrappopolamento e le sue soluzioni no. Mi è capitato di parlare con due ragazze inglesi di 25-26 anni affiliate a Population Matters, uno dei tanti movimenti per il controllo delle nascite: una di loro stava programmando di farsi sterilizzare «per ragioni ecologiche»; l’altra diceva che al massimo avrebbe avuto un figlio, ma contava di adottarlo: «Tu che hai due figli sei al limite», mi ha detto, «sostituiranno te e tuo marito, non migliori né peggiori il pianeta». Ho provato a chiedere: e se cambiate idea? Se poi invece volete dei figli, perché si cambia, perché è naturale, perché il pessimismo può essere soltanto una stagione non una scelta di vita, non ci avete mai pensato? Hanno risposto che ci hanno pensato tantissimo, ma sono convinte che ognuno di noi debba fare almeno un sacrificio importante, altrimenti il Pianeta è finito. Ecco, maneggiare tale deriva nichilista è molto complicato, ma è anche vero che si tratta di una deriva radicale ed estrema, e abbiamo imparato fin troppo bene in quest’epoca di estremismi e fanatismi che l’unico modo per combatterli non è: ti impedisco di sterilizzarti, ma ti faccio venir voglia di mettere al mondo dei figli.

L’eco-ottimismo non è una scoperta di questi giorni. Da tempo il dibattito sul cambiamento climatico ha superato la fase che vedeva contrapposti i catastrofisti ai negazionisti (resistono sacche di scetticismo, ma hanno a che fare con l’ideologia non con la scienza). Siamo tutti sostanzialmente convinti che il Pianeta si sta trasformando e che questo cambiamento potenzialmente distruttivo debba essere governato con iniziative che vadano oltre le buone intenzioni dei tanti ragazzini che abbiamo visto durante l’estate aggirarsi nei porti e nelle spiagge con retini e sacchetti per raccogliere la plastica. Qualche anno fa, la scrittrice scientifica Emma Marris aveva pubblicato uno studio che faceva parte di questa corrente eco-ottimista o, come dice lei, eco-pragmatica. Aveva utilizzato un’immagine molto bella, quella dei «rambunctious garden», i giardini chiassosi, vivaci, anche un po’ indisciplinati e turbolenti, ma vivi. La Marris partiva dall’idea che la natura incontaminata non c’è più, è stata distrutta in gran parte dall’attività dell’uomo, ma questo non ci impedisce di diventare «giardinieri responsabili e appassionati», perché l’intervento umano non è soltanto distruttivo: «Il giardino chiassoso è ovunque», scriveva la Marris, «e il giardinaggio chiassoso è proattivo e ottimistico, crea nuova natura non si limita a costruire muri a protezione della natura rimasta».La studiosa americana Laura J. Martin ha proposto un’altra immagine eco-pragmatica: invece che parlare soltanto di “footprint”, dell’orma che lasciamo ogni giorno deturpando l’ambiente, un’orma che non lasciamo intenzionalmente ma che c’è per il semplice fatto che esistiamo, dovremmo parlare di “handprint”, dell’impronta della mano. Questa impronta, scrive la Martin, «è volontaria, esperta, ingegnosa. Evoca l’abilità umana di modellare il mondo scegliendo tra diverse possibili nature». Questo ottimismo pragmatico si sostanzia in politiche precise. Persino quel catastrofista di Al Gore che all’inizio degli anni Duemila ci scaraventò in faccia la sua “scomoda verità” sul futuro del Pianeta e noi preferimmo per lo più ignorarlo o al limite toccare ferro, ora fa attivamente parte del mondo degli eco-pragmatici. Dice che i costi delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica sono in «continuo ed esponenziale calo», e questo renderà meno dispendioso la conversione delle nostre economie da eco-scettiche a eco-compatibili – questo è il tema importante: il costo della trasformazione, nessuno vuole imporre un Green Deal che sa di tasse e di decrescita. Le emissioni di anidride carbonica, pure se i cinesi e Donald Trump fanno i capricci, sono al livello più basso da venticinque anni (in America, in altri Paesi la media è più alta), anche se dal 1990 a oggi ci sono due miliardi di persone in più sul Pianeta, che consumano e inquinano. Oltre alla protezione, insomma, c’è anche lo sviluppo sostenibile: ed è fattibile.

Ho scoperto che i giardini chiassosi e le impronte della mano sono invincibili con i nostri figli. Per quanto siano pessimisti, arrabbiati, severi e si aggirino per casa con quelle maledette pagelline sulla mia eco-bravura, preferiscono al mondo grigio e mortifero dell’apocalisse il sogno di diventare giardinieri rumorosi e indisciplinati, che costruiscono le soluzioni per proteggere e sviluppare questo mondo acciaccato che gli abbiamo consegnato, lasciando le impronte delle loro mani ovunque, il segno di un passaggio virtuoso, promessa di sopravvivenza, anzi: di salvezza. Il mondo si sta dilatando, ma io li accompagnerò nei loro giardini chiassosi (non ho mai gettato una carta per terra in vita mia: mi porteranno con loro) e mi metterò la tuta da giardiniera, e finanzierò il loro primo progetto, quando saranno ingegneri ambientali, per riuscire a riciclare tutta la plastica che separo con cura dal resto dei rifiuti, e non soltanto quella – pochissima – che si ricicla oggi. E possiamo anche go-der-ce-la. Un giorno andremo in Florida a vedere quelle creature meravigliose che sono i lamantini, le mucche del mare: erano circa mille quando ero bambina io, oggi sono diecimila. Pare che fu Cristoforo Colombo ad avvistarli: li prese per sirene.