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Boris Johnson è il predestinato?

È rimasto solo Jeremy Hunt a contendergli la leadership dei Conservatori: il futuro sembra già scritto, ma qualcosa sta cambiando.

di Gabriele Carrer

Boris Johnson esce dalla sua casa di Londra il 21 giugno 2019: il giorno prima con 160 voti ha vinto l’ultima votazione per la leadership dei Conservatori prima della sfida finale con il secondo classficiato Jeremy Hunt (77 voti) (Luke Dray/Getty Images)

È bastato un weekend per rimettere in bilico il futuro di Boris Johnson come leader del Partito conservatore britannico e primo ministro del Regno Unito. Sembrava quasi tutto fatto. Giovedì si era chiusa la prima fase delle primarie, con l’eliminazione degli ultimi due degli otto contendenti che l’ex sindaco di Londra e il suo sfidante, Jeremy Hunt, hanno sconfitto prima di arrivare al duello finale.

Il primo dei perdenti è Michael Gove, l’uomo che nel 2016 tradì Johnson impedendogli di succedere a David Cameron dopo le dimissioni di quest’ultimo a causa della sconfitta nel referendum sulla Brexit. Della campagna per il Leave, Gove era la mente e Johnson il braccio armato, una coppia che sembrava imbattibile e fatta per il governo del Paese. Ma non c’è posto per due galli nel pollaio e Gove venne folgorato sulla via di Downing Street: Boris non è adatto per il numero 10, disse, costringendo l’ex amico a ritirare la candidatura.

Ma quest’anno le cose sono diverse: la campagna di Johnson sembra una macchina da guerra, capace, si racconta nelle seconde file del Partito conservatore, di orchestrare la sconfitta di Gove al quinto e ultimo turno della prima fase delle primarie, quella in cui sono chiamati a esprimere la loro preferenza i 313 deputati conservatori alla Camera dei Comuni. Al quarto voto, Gove era in vantaggio su Hunt di due voti (61 a 59), vantaggio ribaltato a favore di Hunt all’ultima chiamata. E pare che dietro al sorpasso del ministro degli Esteri sul collega dell’Ambiente ci sia stata proprio la macchina di Boris Johnson, da una parte deciso a vendicarsi dell’ex amico, dall’altra spaventato da quello che Dan Hodges, editorialista del Mail on Sunday, aveva definito, citando il discusso penultimo episodio dell’ottava stagione di Game of Thrones, il Cleganebowl nella guerra dei Tories.

Ma, dicevamo, è passato un fine settimana. E con esso le interviste di entrambi gli sfidanti alle televisioni del Paese e l’immancabile editoriale domenicale sul quotidiano euroscettico Telegraph firmato da Boris Johnson. Scrive l’ex capopopolo della Brexit nel terzo anniversario dalla vittoria del Leave che il Regno Unito «può, deve e vuole» uscire definitivamente dall’Unione europea il prossimo 31 ottobre, nuova data limite dopo il rinvio del 29 marzo scorso. Come cercherà di far digerire al Parlamento di Londra un nuovo accordo o come raggiungere il «no deal» nonostante l’opposizione dell’Aula sono due interrogativi a cui Johnson non offre risposte. E non le offrirà neppure martedì sera, essendosi sottratto al dibattito organizzato da Sky News.

«Vigliacco», così l’ha definito Hunt per il nuovo passo indietro, invitandolo a comportarsi «da uomo» evitando di provare a «sgattaiolare dentro Downing Street passando dalla porta sul retro». Boris, che di Jeremy è stato il predecessore al Foreign Office, sta cercando di evitare il confronto da settimane. L’ha fatto prima, quando i candidati erano dieci, e lo sta facendo ora che lui e Hunt stanno iniziando il tour elettorale in giro per il Regno Unito per convincere i 160.000 iscritti al Partito conservatore, a cui spetterà la scelta. Vuole evitarlo non soltanto per la paura di dover fornire maggiori dettagli sulla sua Brexit, specie ora che di fronte si trova non un super europeista ma un euroscettico più realista di lui, convinto che il Regno Unito è quasi obbligato a chiedere un nuovo rinvio per evitare l’uscita senza accordo e per garantire l’unità del Regno, ma anche perché la sua macchina elettorale glielo sta impendendo, forte dei sondaggi che da inizio primarie lo danno super favorito, per la paura di nuove gaffe, che di gaffe Boris è un esperto. Ma anche per evitare di parlare della sua vita privata, che dopo giovedì notte è sulle prime pagine di tutti i giornali. È dovuta intervenire la polizia, chiamata dai vicini, per sedare la lite tra lui e la sua compagna, Carrie Symonds, potente Pr ed ex press officer del partito, avvenuta ore dopo la chiusura delle urne. Urla, oggetti che si rompevano, «non mi toccare» e «vattene da casa mia» detto dalla ragazza trentunenne al compagno cinquantacinquenne. Il Guardian, che ha ascoltato la registrazione dei vicini, racconta che Symonds si lamentava di Johnson che aveva macchiato il divano di vino rosso: «Non te ne frega di niente perché sei un viziato. Non hai rispetto dei soldi o di niente».

Sembra esserci un solo candidato alla guida del Partito conservatore e del Regno Unito. Vuoi perché il rivale offre soluzioni non troppo diverse alla questione della Brexit, vuoi perché Boris Johnson si è spesso in passato rivelato l’unico in grado di seppellire, con il suo ego, le sue gaffe e il suo caratteraccio piuttosto irascibile, i suoi progetti di potere. È proprio il passato a rendere l’episodio di giovedì notte così rilevante, ha scritto Matthew d’Ancona, editorialista del Guardian che conosce molto bene l’ex sindaco di Londra.

Jeremy Hunt, ministro degli Esteri e candidato alla segreteria del Partito conservatore, viene intervistato a Londra il 24 giugno: i risultati del ballottaggio tra lui e Boris Johnson saranno anunciati il 22 luglio (Leon Neal/Getty Images)

Adesso il sottomarino è diventato Hunt, che attacca dal basso il rivale forte della sua crisi di consensi dopo la lite che non ha voluto spiegare e le foto della sua auto pubblicate dai giornali:  «La macchina disordinata di Boris è un riflesso della sua mente?», si è infatti chiesto il Guardian impaginando foto dell’interno della vettura, un vero caos, con scatole di cibo da asporto, bottigliette d’acqua, tute sporche e buttate per aria, briciole ovunque e scontrini appallottolati e ricevute accartocciate.

Anche Hunt, di tre anni più giovane, ha qualche scheletro nell’armadio, dall’inchiesta Leveson sui rapporti fra media e politica fino al recente scontro con i giovani medici. Ma non deve scontare il fatto di essere ritenuto unfit dai colleghi di partito. Infatti, dopo il tradimento di Gove tre anni fa, Boris Johnson oggi deve fare i conti con i deputati del Partito conservatore. Il Times ha contato cinque progetti di golpe nei suoi confronti, il più clamoroso dei quali prevede il voto di sfiducia 24 ore dopo il suo insediamento per impedire che la Regina lo convochi per formare il nuovo esecutivo.

Non rimane che aspettare la settimana del 22 luglio, quando conosceremo l’esito del voto dei 160.000. Intanto, Johnson sembra aver dilapidato tutto il vantaggio sul rivale. «È raro vedere la vita privata di un politico avere tutta questa importanza per gli elettori», ha spiegato Damian Lyons Lowe, amministratore delegato di Survation. Ma quando si parla di Boris Johnson, vale tutto. E Jeremy Hunt lo sa bene.