Cultura | Letteratura

Bluets di Maggie Nelson, il libro di culto che arriva in Italia dopo 14 anni

Arriva finalmente anche in Italia il libro che, mescolando poesia e saggio, racconta depressione, desiderio e alcolismo attraverso una lente sempre dello stesso colore: blu.

di Fabrizio Spinelli

Come molti ho conosciuto Maggie Nelson solo nel 2016, con la versione italiana di The Argonauts (il Saggiatore, traduzione di Francesca Crescentini), e come molti sono stato assorbito non tanto dalla trama (uno struggente amore, il diario di una maternità e il resoconto di una transizione FTM) ma dal peculiare modo di mescolare narrativa (il racconto), filosofia (critica culturale) e poesia. In tutta la sua produzione (dal saggio più o meno accademico Women, the New York School, and Other True Abstractions al recente On Freedom) Maggie Nelson non ha fatto altro che scavallare i confini di genere, trasportando il lettore in spazi di negoziazione in cui la conoscenza e l’esperienza personale tornavano di nuovo a essere elettrizzanti ed eccitanti. Esattamente come il sesso o la violenza, non a caso temi ricorrenti dell’autrice.

The Argonauts, che tra le altre cose è un breviario di teoria queer, ha vinto nel 2015 il National Book Critics Circle Awards per la categoria “criticism”, ma non ha niente a che vedere con la critica per come la intendiamo abitualmente, nemmeno nel senso più alto e nobile, quello formulato da Benjamin nel famoso saggio sulle Affinità elettive di Goethe. Una dottoranda in anglistica mi ha fatto notare in una mail come The Argonauts vada ascritto al filone dall’auto-theory, e che c’entri poco con la narrativa. In effetti, forse non inserirei Ballardismo applicato di Simon Sellars in un corso sul romanzo, ma non riterrei nemmeno The Argonauts un saggio o un’opera di critica, almeno non solo. Alcuni studiosi ricorrono alla categoria barthesiana di écriture, dove fanno cadere tutte le opere in prosa non regolamentate. In una situazione così instabile finisce che sia il mercato a decidere – con la collocazione editoriale – cosa siano questi oggetti non identificati e quale contratto dobbiamo stipulare una volta che li leggiamo.

A partire dal 2017, fulminato da The Argonauts, ho iniziato a recuperare i titoli che mi mancavano. Jane: A Murder (2005), è un memoir scritto prevalentemente in versi incentrato sul misterioso e efferato omicidio di Jane Mixer, zia dell’autrice. Siamo negli anni Sessanta e la donna ha solo ventitré anni quando viene ritrovata morta. A distanza di quarant’anni Nelson apre un’indagine che mescola poesia e fonti documentarie (articoli di giornale, lettere della vittima e testimonianze di vario genere) e la costringe a convivere, durante le ricerche, con un carico di violenza che segnerà la sua scrittura per molto tempo. The Red Part: Autobiography of a Trial (2007), incomincia dove il libro precedente finisce. Il caso di Jane Mixer viene improvvisamente riaperto e Nelson segue in prima persona il processo che ne segue. Le sue riflessioni toccano soprattutto i risvolti mediatici e l’attenzione ossessiva delle persone verso i particolari più macabri dell’accaduto, e conseguentemente il peso che ciò ha sulla famiglia. True crime e cronaca giudiziaria diventano i materiali per un ragionamento filosofico e poetico, come se Stefano Nazzi scrivesse Indagini con Anne Carson e Joan Didion. L’ultimo volume della trilogia è The Art of Cruelty (2011), saggio-saggio sull’estetizzazione della violenza nella società e nelle arti del XX secolo. La conclusione del volume è che tra arte e crudeltà ci sia un rapporto fertile e vitale. Una boccata d’ossigeno in una cultura (soprattutto letteraria) che tende a una martellante moralizzazione del fatto estetico.

Negli ultimi anni mi è capitato più volte di parlare di Maggie Nelson con persone che non appartengono al mondo della scrittura. Ricordo almeno un paio di conversazioni, il cui tema era che Bluets è forse uno dei migliori libri che abbiamo letto negli ultimi anni, ed era assurdo che non fosse stato ancora tradotto. È circolato per molto tempo in lingua originale in maniera quasi clandestina, tra il passaparola e le storie Instagram, diventando un oggetto di culto e un simbolo di appartenenza, come un Il mio anno di riposo e oblio ma di una poetessa. E ora, finalmente, in questo tardo 2023, a quattordici anni dalla sua comparsa negli USA, nottetempo l’ha portato in Italia nella versione di Alessandra Castellazzi.

Bluets è la biografia di un colore e dell’ossessione per quel colore. È un libro esile, strano, composto da 240 di quelle che Nelson chiama “proposizioni” – periodi che vanno dalle due alle venti righe. Il modello è il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche (anche il filosofo austriaco, oltre al citatissimo Goethe, ha dedicato molte riflessioni ai colori). Il titolo è preso da un quadro di Joan Mitchell, Les Bluets, in francese i fiordalisi, ed è pensato per essere «pronunciato male», come dice di fare la stessa autrice. Suppose I were to begin by saying that I had fallen in love with a color, recita il memorabile incipit, e con il proseguire delle pagine scopriamo che in effetti è così. Nelson ha raccolto per anni scatoloni di oggetti blu, ha collezionato amuleti azzurri (il termine blue è più ampio del nostro blu) in giro per il mondo come una cercatrice di indizi e prove, con l’intento di catalogare i reperti e di scriverne un compendio enciclopedico, quasi un elenco perechiano o meglio una performance di Sophie Calle.

Ma Bluets non è niente di tutto questo, gli unici oggetti che attraversano le pagine sono le citazioni, le parole degli altri, su cui Nelson ricama frasi che sono metà un commento metà una deposizione: Mallarmé, Platone, Isabelle Eberhardt, Billie Holiday, Dionigi l’Areopagita, Derek Jarman – regista di uno dei testamenti artistici più toccanti che ricordi, il film Blue – sono tra i tanti sacerdoti del rito officiato dall’autrice, una cromomanzia. Due meritano una menzione speciale. Il primo, William H. Gass, per aver scritto una philosophical inquiry dedicata allo stesso colore (On Being Blue, 1975). Gass è ricordato da Nelson per l’associazione in inglese del blu con il sesso, con l’essere arrapati (lo stesso vale per Warhol) – anche il suo saggio è a tutti gli effetti una storia del blu, una storia rigorosamente non personale, molto intelligente, anch’essa strana e colloquiale, ma non ha troppo a che vedere con la scrittura tragica di Nelson. Il secondo è Wallace Stevens, che viene liquidato così alla proposizione 12: «E per favore non venirmi a dire che le cose come sono cambieranno grazie a una chitarra azzurra. Quello che si può cambiare con una chitarra azzurra non mi interessa qui». Il riferimento è al poema in distici The Man with the Blue Guitar (1937), una complicata meditazione sul senso e il valore della poesia.

Bluets è anche il racconto di una rottura, della depressione che ne consegue (to be blue: essere malinconici, depressi), e di un’amicizia con una donna rimasta quadriplegica dopo un incidente automobilistico. La storia del blu si intreccia con i riflessi di una vicenda privata sommersa (dell’uomo che ha lasciato Nelson, ad esempio, sappiamo solo di che colore ha gli occhi – azzurri – e come scopa – like a whore), una vicenda che l’autrice tenta di preservare, di non intaccare con le parole. La stessa ossessione per il blu non è mai chiarita, non è una metafora di nulla, appare totalmente irrazionale. E forse proprio per questo, perché Nelson non vuole spiegare niente, perché non è interessata a trasformare la propria vita in un’allegoria, il libro è così disarmante.

Le massime di Bluets spingono a una sapienza che è il contrario della sapienza, una saggezza negativa, incarnata, fatta di peli, di cisti, di sebo. Le frasi di Nelson trasmettono una concezione della cura che rovescia i cliché dei manuali di self-help: non bisogna sforzarsi di essere funzionali (muoversi agitati come la coda appena staccata di una lucertola), ma sprofondare nel dolore, ascoltarlo senza opporre resistenza. Registrare come la depressione modifica i propri comportamenti, il senso di realtà, e – forse – le stesse reti neuronali del cervello. Ciò non significa proporre una semplicistica e ingenua visione della sofferenza psichica. Nelson è chiara su questo: il dolore è un equivoco, soffrire non serve a niente, non ci migliora come persone, lascia tutto così com’è.

Nel corso delle pagine le proposizioni-schegge si sommano, si sovrappongono, si allacciano, ma alla fine del libro diventano una montagna di scarti che fatica a trasformarsi in un messaggio, in qualcosa che progredisce. Sono una “gelatina azzurra” intorno agli occhi, non una lezione. Ed in questo sta la loro meraviglia.