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Quel che resta di Bill Cosby

La storia di uno degli uomini allo stesso tempo più amati e odiati d'America costringe ad affrontare il tema della differenza tra l'artista e la sua opera: è possibile, ed è giusto, ridere delle vecchie battute di un uomo che si è poi rivelato un predatore?

di Giulio D'Antona

Foto di Don Emmert/AFP via Getty Images

Nel 2022 non è facile rispondere alla domanda “Chi è Bill Cosby?”. Sicuramente non è più un comico. Se per “comico” intendiamo qualcuno che per mestiere fa ridere, quella è una definizione che ormai gli è invecchiata addosso. Ridere non è la prima reazione che si ha quando oggi ci si imbatte in un’immagine di Cosby. E non parliamo solo delle immagini che lo vedono al banco degli imputati, ma anche di quelle che lo ritraggono all’apice dalla sua carriera: nei panni del dottor Cliff Huxtable (per gli italiani, Robinson), uno dei padri più amati, giusti e saggi della televisione; o quelle che lo vedono su un palco di fronte a una folla adorante. Microfono in una mano, sguardo sicuro, spalle dritte e la voce piena e profonda di un predicatore immerso nel suo sermone più ispirato mentre la folla impazzisce di risate e si spella i palmi delle mani applaudendo.

E all’inizio degli anni Duemila è stato anche questo: un uomo della rettitudine morale. Girava per i sobborghi delle grandi città per incontrare le comunità afroamericane e per rivolgersi a loro direttamente attraverso i pulpiti delle loro chiese e i palchi dei loro community center. Molte delle persone che incontrava, appartenenti soprattutto alla sua generazione, lo accoglievano come un salvatore. Veniva a impartire una regola di vita e ad attribuire una colpa. Veniva a raddrizzare una cattiva condotta e a tracciare una buona via. Per lui, e per coloro che lo stavano ad ascoltare e generalmente la pensavano come lui, la corruzione delle comunità nere era la diretta conseguenza del cattivo comportamento dei più giovani: svogliati, senza aspirazioni, senza buone intenzioni. E peggio: corrotti dalla musica, privi di qualsivoglia gusto artistico – che comunque finiva sostanzialmente con il declino del jazz –, drogati. Carne da prigione e da obitorio, come nelle peggiori rappresentazioni segregazioniste.

Il dottor Cosby puntava il dito soprattutto, viene da dire ora, per distrarre da quelli che aveva addosso lui. Dopotutto, era un nero nato in piena segregazione che era stato in grado di costruire per se stesso una rispettabilità che a pochissimi come lui veniva concessa. Quella condizione che Michelle Obama ha definito di “onorevole responsabilità” alla quale vengono chiamati i privilegiati coscienziosi. E parlava a un pubblico così ampio e trasversale da trascendere i confini di appartenenza. Chi negli anni ottanta si avvicinava alla comicità, non poteva non fare i conti con il gigantesco esempio di Bill Cosby: una macchina da show che spostava milioni di dollari e si rivolgeva a centinaia di milioni di occhi, e non poteva esimersi da cercare il suo benestare. Era ciò a cui si era elevato: un moralizzatore. Ma più di tutto, era un uomo di spettacolo dal talento innato e brillante; un comico come pochi ne nascono; per citare Jerry Seinfeld nel documentario del 2002 Comedian: «Un monumento».

Quando nel 1981 il ventenne Eddie Murphy sfondava i record di biglietti venduti con il suo primo tour nazionale da rock star della comicità, la sua delusione più cocente consistette nel ricevere una telefonata da Cosby che lo rimproverava di avergli impedito di portare i suoi figli a vedere lo spettacolo perché conteneva «troppe volgarità». Per coloro che erano cresciuti con la necessità di dimostrarsi “due volte più buoni” per non cedere sotto i terribili colpi del razzismo di stato, le manganellate della polizia, la crisi del crack, o la violenza intercomunitaria, la rispettabilità era tutto. E sentirsi ripresi da chi quella rispettabilità la incarnava, da chi aveva di fatto lottato per aprire la strada, poteva essere un brutto colpo. Cosby, più ancora di Mom’s Mabley e Richard Pryor, era la voce autoritaria della liberazione perché parlava la lingua del Movimento per i Diritti Civili e predicava una sorta di rivoluzione cortese e costruttiva, opposta al caos potenzialmente distruttivo di uomini di intrattenimento dome Pryor e, dopo di lui, Murphy. Un ideale Martin Luther King contro una schiera di Malcolm X.

Quando il Cosby Show (per gli italiani, I Robinson) è giunto al picco più alto di ascolti e di gradimento, poi, l’influenza di Cosby si è allargata al di fuori delle comunità per trasformarlo nel paterfamilias d’America. L’uomo che tutte le famiglie perbene avrebbero voluto saldo al comando. La differenza tra il personaggio e l’interprete era azzerata. A quel punto poteva parlare al cuore di tutta la popolazione, senza timori e senza remore; tanto più che lo faceva col tono caldo e suadente del buon educatore e – particolare fondamentale – senza mai smettere di essere uno degli uomini più divertenti del continente. Questo, nei tempi a venire, avrebbe reso le cose ancora più complicate, soprattutto per i suoi fan.

A gennaio di quest’anno è uscito un documentario intitolato We Need to Talk About Cosby. Il regista W. Kamau Bell a un certo punto mette un tablet in mano a vari personaggi legati alla storia del comico: colleghi, amici e anche alle donne che sono state vittime delle sue moleste. Sullo schermo del tablet scorrono le immagini di alcuni spettacoli di Cosby all’apice della sua carriera, mentre Bell intervista i suoi ospiti su ciò che è stato ed è diventato. È un modo sensato di affrontare una questione abusata: la distinzione tra opera e autore. L’opera e l’uomo coesistono e, non per la prima volta ma sicuramente in maniera inedita, confliggono. Ciò che ne emerge è una realtà dolorosa: il computo di una vita giunta indecorosamente al suo lento declino, ma che resta la vita di uno dei più grandi intrattenitori della storia, di un moralizzatore e, infine, di un mostro. Domandarsi cosa fare del lascito artistico di coloro che in fondo si sono rivelati brutte persone è qualcosa di simile a un ricatto morale. Il vero atto di coraggio dovrebbe essere quello di ammettere la triste realtà: i nostri eroi possono rivelarsi persone spregevoli pur avendoci lasciato qualcosa che ci fa felici, ci diverte e ci commuove. Certo, l’opera può risentire della realtà perché spesso ci sono particolari ai quali non avremmo fatto caso senza conoscere i retroscena – ad esempio l’ossessione di Cosby per i barbiturici, che con il senno di poi emerge da quasi tutti i suoi monologhi – e questo può compromettere una fruizione matura e distaccata, ma non può cancellare il fatto di aver goduto del bello in tempi di insospettabilità.

Cosby è stato tutto ciò per cui è stato esaltato, ed è colpevole di tutto ciò di cui è stato accusato. È complesso e questa complessità mette alla prova tanto chi gli ha voluto bene, quanto chi lo ha sempre disprezzato. Non è innocente, e il suo lascito artistico non giustifica la sua condotta. Ma evitare la sua opera non serve a chi lo ha amato a dimenticare le ragioni per cui odiarlo, e cercare di seppellirlo nella memoria è semplicemente un esercizio inutile. A un certo punto di We Need to talk About Cosby, uno degli ospiti di Bell scoppia a ridere guardando il tablet: non riesce a trattenersi a causa di una vecchia battuta che, dice, lo ha sempre divertito. Ecco, forse si tratta di questo: accettare che ci saranno sempre cose che ci faranno ridere, che lo vogliamo o no, e altre che ci disgusteranno; e cercare di cogliere questa complessità nella sua completezza, prendendo ciò che si è guastato e ciò che è rimasto intatto per quello che è: un’evoluzione, che non sempre è sinonimo di miglioramento.