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Le metamorfosi di Bianca Berlinguer
Il suo programma, Cartabianca, era diventato simbolo di tutto ciò che non va nei talk show politici italiani: dopo mesi di polemiche, alla fine la giornalista ha deciso di dimettersi e lasciare la Rai.
Forse è vero che il talk show politico ormai ha fatto il suo tempo. A leggere i giornali, se ne convincono ogni giorno di più anche alla Rai. In un’audizione davanti alla Commissione di vigilanza, l’amministratore delegato Carlo Fuortes ha detto che se siamo tutti stufi non è colpa di nessuno: non c’entrano i giornalisti, i presentatori, gli ospiti, il pubblico, gli argomenti. È il format in sé che ormai non è più utile e non ha più senso. «Credo siano (i talk show politici, ndr) più adatti all’intrattenimento su temi più leggeri», «non ideali per un approfondimento giornalistico», ha detto Fuortes, parlando dei programmi ai quali negli ultimi anni ci siamo affidati per discutere – quindi, in un certo senso, per capire – temi leggeri come crisi economica e migratoria, pandemia e guerra. Credevo fosse informazione e invece era intrattenimento, insomma. Forse Fuortes ha detto quello che ha detto spinto dall’esasperazione: sono settimane che ha una spina piantata nel fianco e ogni martedì questa spina affonda un po’ di più nella sua carne. Il nome della spina è Bianca Berlinguer, giornalista e conduttrice di Cartabianca, programma ormai diventato simbolo del format «più adatto all’intrattenimento su temi più leggeri», «non ideale per un approfondimento giornalistico».
Probabilmente nemmeno Berlinguer sa spiegare perché questo ruolo – la rappresentante di una classe, di un format, di una maniera di fare giornalismo in tv – sia toccato proprio a lei. Forse perché, per come stanno le cose in Italia, può toccare solo a un dipendente Rai: la Commissione di vigilanza non può convocare la dirigenza di La7 per chiedere chi selezioni gli ospiti de L’aria che tira di Myrta Merlino né interrogare quella di Mediaset su chi componga le melodie delle canzoncine che aprono tutte le puntate di Fuori dal coro di Mario Giordano. Forse c’entra anche il precedente della caciara sbracciata, spettinata ed etilica di Mauro Corona. Forse è questo o forse è quello, ma di certo c’è una cosa: a Berlinguer non importa granché delle reprimende dirigenziali né dei cazziatoni parlamentari. C’è in lei una certa sfrontatezza, una forma peculiare di entitlement che le permette di stare in mezzo alla polemica per settimane e di ritenere comunque una buona idea chiedere a Mauro Corona un’opinione sugli alpini accusati di molestie durante il loro ultimo raduno riminese. E quello si mette a parlare di «qualche giovinastro» che si traveste indossando un cappello con la penna nera «comprato alla bancarella, ce ne sono tanti (in effetti, spopola tra giovani e giovanissimi la moda di indossare il copricapo degli alpini, ndr)», degli alpini «che conosco io, che non hanno nemmeno la stupidità di fare quei gesti lì». E poi prosegue discettando di «una cosa un po’ montata» e di «chiamiamole violenze», mentre Berlinguer ascolta e infine precisa che «ci sono state delle denunce». Ma il tempo corre e ormai è il momento di cambiare argomento, è il turno del professor Alessandro Orsini sugli ultimi sviluppi della guerra in Ucraina, con lui ci sarà anche Antonio Caprarica, in quota giornalista solitamente mite e compito che perde le staffe a sentire certe enormità. Chissà se Fuortes sta guardando, chissà se è questo che intende quando parla di rinnovare il format e aggiustare il palinsesto.
In tanti pensano che le metamorfosi di Bianca Berlinguer siano cominciate con quel contratto offerto per assicurarsi in esclusiva le opinioni di Orsini, primizie come «Stoltenberg è pazzo» e «preferisco che i bambini vivano in una dittatura piuttosto che muoiano sotto le bombe in nome della democrazia». L’hanno presa in giro tutti, per quell’offerta: muori da Fabio Fazio oppure vivi abbastanza a lungo da diventare Massimo Giletti, il senso dei tanti e vari sfottò. Tanto più che quello, Orsini, è talmente narcisista che alla fine a Cartabianca ha accettato di andarci gratis. E a La7, invece, stando anche a quanto dice Michele Santoro, a pagare gli ospiti per partecipare alle trasmissioni non ci pensano nemmeno. «Lo share non è necessariamente un elemento negativo», ha detto Berlinguer sulla questione in un’intervista al Corriere della Sera. E se non vivessimo i tempi drammatici che viviamo, ci sarebbe da commuoversi a leggere in queste parole i passi avanti della sinistra italiana: l’economia di mercato esiste, il successo commerciale è un fatto, i programmi tv sono pensati per la soddisfazione di chi li vede e non di chi li fa.
Ma leggendo quell’intervista al Corriere si sente nelle orecchie l’eco della voce di René Ferretti di Boris, il suo grido di battaglia «Perché a noi la qualità c’ha rotto il cazzo!». Berlinguer si è arresa. Da cultore dei talk show politici italiani quale con imbarazzo ammetto di essere, so che Cartabianca non è stato sempre il programma di cui abbiamo discusso negli ultimi tempi, quello difeso da Daniela Santanchè, Giuseppe Conte, Massimo Cacciari e, per qualche ragione, Adriano Celentano. A un certo punto però è successo qualcosa, e da quel punto in poi è diventato normale ospitare Alberto Contri armato di infografiche (evidentemente) autoprodotte in cui si dimostra che quella da Covid-19 non è una pandemia perché incidenti stradali e fumo di sigaretta fanno ogni anno più morti della polmonite bilaterale. Accanto a lui Andrea Scanzi che sbraccia e gli dà del «cercopiteco». «Ritengo che un dibattito pluralista debba dare spazio a tutte le opinioni», ha risposto sempre Berlinguer a quelli che da quella volta le hanno chiesto perché, usando una parola, “pluralista”, il cui significato originale è ormai perso per sempre e che ha una residua utilità solo come campanello d’allarme. A cosa si sia arresa Berlinguer non saprei dirlo, in realtà. Forse a una cosa di cui ha scritto Arnaldo Greco qui su Rivista Studio: il talk show politico vive di ruoli, esige delle funzioni. Mauro Corona ha il suo, Alessandro Orsini anche, Bianca Berlinguer non fa eccezione: ogni circo ha il suo Mangiafuoco.
Pare la Rai voglia chiudere Cartabianca. Si parla di una crisi ormai irreversibile del format. Mi è capitato di parlarne con un autore televisivo che nella sua vita ha lavorato anche a diversi talk show politici. Quando gli ho detto che secondo me questi programmi sarebbero spariti presto, cancellati dallo stesso cinismo con il quale hanno contribuito a mettere in scena una versione distorta e perversa del dibattito pubblico, lui si è messo a ridere. «Il cinismo è una cosa degli anni Novanta», mi ha detto, «ed è più o meno dallo stesso periodo che si parla di crisi del talk show, da che Giuliano Ferrara lo importò in Italia dall’America con Radio Londra. È una cosa ciclica. Il cinismo non c’entra nulla. I talk show esistono per tante ragioni, ma una delle più importanti è l’ipocrisia di chi li manda in onda in privato e poi li critica in pubblico. L’ipocrisia di chi fa finta di non sapere che i talk show non costano nulla, riempiono tre ore di palinsesto e hanno il loro pubblico». Dopo aver finito di parlare con lui, mi sono messo a scrivere questo pezzo. La prima cosa che ho fatto è stata un giro su internet per vedere se ci fossero novità su Bianca Berlinguer e Cartabianca. Sembra che alla fine il programma non sarà cancellato e lei non verrà cacciata. Anzi: per Berlinguer si parla di una promozione su RaiUno a partire dalla prossima stagione tv, un programma tutto suo sulla rete ammiraglia della radiotelevisione italiana. Cartabianca resterà su RaiTre, affidata a giornalisti che ne proteggeranno l’eredità. Pare che Bianca Berlinguer ci stia pensando.