Cultura | Esteri

Ben Fountain e la letteratura delle presidenziali in America

Gli Stati Uniti di Trump e la sfida del 3 novembre: ne abbiamo parlato con l'autore di America brucia ancora, il reportage sulla campagna elettorale del 2016.

di Marco De Laurentis

Keystone, South Dakota, 2 luglio 2020

«La genuflessione nei confronti dell’equità è un atto di devozione frequente nelle redazioni, in pratica è la scusa per una buona dose di cronaca col pilota automatico e di pensiero pigro, sotto un ideale benigno», affermava senza mezzi termini Joan Didion in un vecchio articolo sulla New York Review of Books. È una frase che di sicuro non può essere applicata a Ben Fountain, lo scrittore autore di America brucia ancora, uscito due anni fa negli Stati Uniti ed ora disponibile anche in Italia per Minimum Fax con la traduzione di Assunta Martinese.

Fountain, classe 1958, nel 2016 ha seguito la campagna presidenziale da entrambi i fronti, Democratico e Repubblicano, raccogliendo le sue osservazioni sulle pagine del Guardian, una serie di reportage con cui è stato candidato al Pulitzer per il miglior giornalismo di commento. Come già nei suoi precedenti lavori, dai suoi racconti dal Terzo Mondo Fugaci incontri con Che Guevara e alla satirica war novel È il tuo giorno, Billy Lynn!, adattata poi cinematograficamente dal premio Oscar Ang Lee, Fountain mostra il suo spirito critico e di denuncia (forse retaggio della sua precedente esperienza da avvocato), condita da un’ironia pungente, quasi caustica nel raccontare i vari contesti, profili e condizioni di vita dei suoi protagonisti. Corroborato da un’ampia documentazione,  non si limita a dare un semplice resoconto delle elezioni presidenziali, ma indaga sulle radici storiche della democrazia americana, sottolineando le varie fragilità e debolezze messe a nudo quattro anni fa nello scontro Clinton-Trump. Alla vigilia delle nuova tornata elettorale, ripercorriamo con lui gli snodi politici della campagna del 2016 fino a toccare gli eventi degli ultimi mesi.

ⓢ Partiamo dal titolo della raccolta, Beautiful Country Burn Again, che presumo provenga dal reportage di Joan Didion, A Sud e a Ovest. In America molti scrittori famosi si sono cimentati nel racconto delle varie campagne presidenziali, penso alla stessa Didion, a Norman Mailer o a David Foster Wallace in tempi più recente. Quando è nata l’idea di scrivere un reportage sulle elezioni del 2016 e quali sono stati i suoi riferimenti letterari?

La citazione Beautiful country burn again deriva in realtà dal poema apocalittico Apology for Bad Dreams di Robinson Jeffers, ma è stato proprio con A Sud e a Ovest di Joan Didion che mi sono imbattuto per la prima volta in quelle parole. Ho copiato quella frase nel mio taccuino e durante il periodo 2015-16 mi è tornata spesso in mente. Gli Stati Uniti sono davvero una splendida nazione per tanti aspetti, dal punto di vista paesaggistico ad esempio, ma anche grazie alle sue ambizioni e ai suoi notevoli traguardi raggiunti. Ma nel biennio 2015-16 c’era la sensazione palpabile, almeno dal punto di vista americano, che le cose si stessero avvicinando verso un vero e proprio punto di rottura. Gran parte del merito di America brucia ancora va al Guardian che nel 2016 mi invitò a collaborare alla sua copertura delle elezioni americane; i pezzi che scrissi per il giornale divennero così la base del libro. Mentre scrivevo questi articoli, e poi nei due anni successivi in cui il libro prendeva corpo, mi ritornavano in mente i grandi commentatori di politica americana a cui facevi riferimento, Mailer e Joan Didion. Aggiungerei a questa lista anche James Baldwin, Hunter Thompson e Zadie Smith, così come Marilynne Robinson e Garry Wills.

Nell’introduzione c’è un’analisi molto approfondita della struttura antropologica americana. Il parallelo che fa è tra i vari processi storici del Paese, la Grande Depressione e il New Deal, l’abolizione della schiavitù e la Guerra Civile Americana. In questo quadro lei parla di “reinvenzione” o rivoluzione. Nel testo viene ripetuta più volte la frase “il profitto è proporzionale alla libertà; lo sfruttamento è correlativo al soggiogamento”. Qual è il nesso fra questione razziale ed economia nell’equazione del potere? E alla luce degli ultimi eventi, penso al movimento Black Lives Matter, ci sono le premesse per una nuova rivoluzione?

Beh, la schiavitù praticata nelle Americhe, la Schiavitù Industriale, fu istituita allo scopo di generare profitti. Per sostenere questo imperativo capitalista è stato inventato un ordine sociale razziale, che poggia su una dura e vecchia verità negli affari umani: chi ha il potere fa la parte del leone riguardo la distribuzione della ricchezza generale. Sia la Guerra Civile che il New Deal furono dunque riordinamenti fondamentali riguardo la distribuzione del potere, del potere politico intendo, nella società americana. Queste spartizioni dirette del potere ebbero poi un impatto sulla distribuzione della ricchezza nel Paese. Black Lives Matter alla fine sta ottenendo la stessa cosa: è un movimento per la pari cittadinanza, per l’uguaglianza dei diritti secondo la legge. L’uguale diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Nella misura in cui una persona, o un gruppo di persone, è privata di tale uguaglianza, è molto più vulnerabile allo sfruttamento economico. Black Lives Matter e gli altri movimenti riguardano, in definitiva, tanto l’uguaglianza economica quanto l’uguaglianza politica e civile.

Nella campagna presidenziale del 2016 si è avuta sempre di più la percezione di un’esasperazione mediatica, tema già toccato nel suo precedente lavoro È il tuo giorno, Billy Lynn, oltre che un linguaggio sempre più crudo e violento e una radicalizzazione dell’elettorato americano (che lei definisce nel libro «tribalismo»). Come giudica il ruolo dei mass media in questi anni?

I mass media sono principalmente una sussidiaria del cosiddetto Complesso Fantastico-Industriale di cui parlo nel libro. È nel nostro migliore interesse, come cittadini, “consumare” i mass media (per usare l’odioso linguaggio contemporaneo) in un momento di grande scetticismo e con il presupposto che essi promuovano esclusivamente bugie, delusioni, fantasie e distrazioni, tutte subordinate da motivi di profitto. Non è un caso che l’ascesa di Trump sia coincisa con la piena fioritura dei mass media e del Complesso Fantastico-Industriale. Lui è il grande maestro del “CFI”, probabilmente il migliore che sia mai vissuto, perché riesce a manipolarlo a proprio vantaggio.

ⓢ «Trump è un fenomeno più artistico che politico», si legge nei primi capitoli del libro. Cosa c’è di paradigmatico nella figura di Donald Trump?

Trump ha costruito la sua persona, la sua fama, il suo successo e la sua celebrità in gran parte sull’illusione, l’artificio, la performance: da qui la sua “arte”. È un maestro nel promuovere se stesso, il “miliardario” magnate degli affari Donald Trump, anche se sta diventando chiaro che è stato un disastro incredibile anche in quel campo. Il suo vero genio sta nel marketing, nel branding di se stesso, nella pubblicità; un genio particolarmente adatto alla nostra epoca, come predisse Henry James all’inizio del 1900 nel suo romanzo Gli ambasciatori. Se porti avanti di qualche generazione il personaggio di James, Chad Newsome, ottieni Donald Trump.

Sappiamo che il linguaggio di Donald Trump è stato uno dei fattori principali che si nascondono dietro alla sua vittoria del 2016. Alla luce di questi mesi di campagna elettorale, quale parola chiave inserirebbe in un ipotetico vocabolario per queste presidenziali?


Nessun dubbio su questo, anche se sono due parole: “Fake news”. Ogni volta che i fatti, ovvero delle realtà  del tutto osservabili e dimostrabili, interferiscono con l’agenda di Trump, lui si limita a gridare “fake news”, e per milioni di suoi connazionali quei fatti scompaiono nel nulla. Fino a  quando ci si ritorcono contro, sotto forma di emergenza Covid, o di un ambiente tossico generale, o di un sistema finanziario truccato che degrada il nostro benessere generale. In definitiva, ritengo che la realtà sia più forte di chiunque di noi in questo momento.

Ben Fountain

L’inadeguatezza della candidatura di Hillary Clinton è sottolineata a varie riprese nel suo libro. Secondo lei, in questi quattro anni, gli errori da parte dei democratici sono stati capiti, assimilati rispetto al passato? C’è stato un cambiamento in questo?

Molte, troppe volte nel corso di quest’anno mi sono disperato per il Partito Democratico, per il modo in cui i suoi leader e l’establishment del partito sembrano fare affidamento sulla vecchia agenda del 2016. Rimanere al centro, essere cauti, calibrare il messaggio per inseguire i cosiddetti elettori “incerti” nel mezzo, che poi si tratta di un gruppo relativamente piccolo. Nel frattempo il più grande partito politico negli Stati Uniti, ovvero quello composto dalle persone che non votano, sta aspettando QUALCUNO, sia tra i Democratici che tra i Repubblicani, che offra loro una ragione valida per uscire e andare a votare. Un’agenda, un programma, che parli delle loro sofferenze, delle loro preoccupazioni e dei loro disagi, dei loro problemi quotidiani. Negli ultimi mesi abbiamo visto Biden e il Partito democratico fare passi in avanti in questa direzione, grazie alle pressioni di Bernie Sanders e dell’ala progressista del partito. Questo è l’unico modo in cui i democratici possono portare masse di nuovi elettori a votare. E questa è la chiave per il futuro, portare questi milioni di nuovi elettori all’interno del processo politico. La questione è se l’establishment democratico avrà il coraggio di dichiarare l’indipendenza dai suoi padroni, le corporation.

Facendo un passo indietro, invece, come giudica l’amministrazione di Obama?

Obama e la sua amministrazione hanno salvato il Paese, almeno a breve termine. Dimentichiamo fin troppo velocemente quale crisi completa, o meglio quel fascio di crisi, il paese stava affrontando nel gennaio del 2009. Obama ci ha salvati, ma in termini di un reale cambiamento strutturale, un riordino dell’equazione potere-profitti-saccheggio, questo andamento è stato limitato grazie all’Affordable Care Act. Che è stato un passo importante nella giusta direzione, ma solo un passo.

Come analizza nel suo reportage, nella sua scalata verso la Casa Bianca Trump ha messo in crisi non solo i Democratici, ma anche il Partito repubblicano nella sua identità. Per lei c’è stata una mutazione imprevista o il semplice ripescamento di un vecchio retaggio reazionario?

Il Partito repubblicano ha smesso di essere il “partito di Lincoln” nel 1964, e si può individuare tale cambiamento in una data precisa, il giorno di quell’estate in cui il presidente Johnson convertì in legge il Civil Rights Act. Poche settimane dopo Barry Goldwater vinse la nomination repubblicana per la presidenza nel bel mezzo di una convention repubblicana apertamente razzista e da allora il partito ha manipolato e fatto affidamento sul razzismo americano per il proprio successo elettorale. L’altro lato di questa equazione è il fatto che il Partito repubblicano versa in una bancarotta intellettuale da oltre quarant’anni. La “grande” idea, quella dell’economia dal lato dell’offerta, si è rivelata un fallimento prima sotto l’Amministrazione Reagan e Bush I, poi sotto Bush II e ora con Trump. Inoltre il fondamentalismo del libero mercato ha soddisfatto i ricchi e colpito duramente le classi lavoratrici e medie. Le fila repubblicane erano in aperta rivolta contro l’establishment del proprio partito nel 2016 (il Tea Party è stato un esempio in questo) e il loro sostegno incondizionato a Trump faceva parte di questa ribellione. Il fatto che fosse il più apertamente razzista di tutti i candidati repubblicani ha infiammato la sua candidatura. Naturalmente, vinte le primarie e poi le presidenziali, il Partito Repubblicano si è inchinato davanti a lui, e da allora è divenuto il suo partito personale.

Nel libro uno dei temi centrali, l’educazione, tocca anche questioni intime e personali, in quanto suo padre era insegnante. Perché secondo lei è così importante per la società americana ripartire da questo punto?

Make it free, make it good, make it central. Ovvero l’istruzione. In termini di risorse, quanto più la società spende per l’istruzione, tanto più dai suoi investimenti otterrà indietro molto in benefici, e ciò include benefici economici, ma anche sociali e in termini di capitale umano. Gli studi lo dimostrano; il “residuo di Solow” ad esempio, che descrivo nel libro. Gli scritti di Marilynne Robinson sulla grande tradizione dell’istruzione pubblica in America sono stati per me una rivelazione e consiglio a tutti di leggere il suo lavoro.

Nelle scorse elezioni un elemento non trascurabile è stato quello dei social media, delle fake news e delle cosiddette “bolle” in cui siamo rinchiusi. Come giudica il ruolo della Silicon Valley nella politica americana? Le piattaforme social influenzeranno ancora il voto?

I social media sono come il denaro: c’è un grande servo e un terribile padrone. In questo momento nella nostra società si stanno comportando troppo come veri despoti. Siamo a loro completa disposizione, veniamo manipolati da loro e la maggior parte delle volte non ce ne accorgiamo nemmeno. Affinché gli Stati Uniti abbiano speranze realistiche di continuare come una democrazia costituzionale verosimilmente genuina, dovremo arrivare a domare l’enorme potere dei social media e l’impatto dei giganti tecnologici che sono i loro approvviggionatori, e questo processo è appena iniziato. E sì, influenzerà il voto. Puoi ringraziare il tuo bot russo per questo.

Worst case scenario: come si immagina l’America del futuro se ci fossero altri quattro anni di Trump?

Beh, molte vite andranno perse, molte vite verranno rovinate, le istituzioni e le tradizioni andranno in frantumi, la polarizzazione si spingerà sempre più lontano, tutte cose che abbiamo già visto in questi ultimi quattro anni, ma in peggio. E se questo è effettivamente il punto di svolta del cambiamento climatico, non abbiamo altri quattro anni da perdere. È un’elezione esistenziale.