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I fratelli Gallagher si sono esibiti insieme per la prima volta dopo 16 anni In un circolo operaio a Londra.

Il paese dell’amnesia

Reportage da Beirut, città fatta di ricordi e contraddizioni, dove i profughi siriani sostituiscono i turisti e nuovi locali vengono costruiti nei luoghi di un massacro.

31 Ottobre 2013

BeirutTornare a Beirut dopo quattro anni è come trovarsi davanti una Detroit invertita. Sospesa nell’aria c’è la stessa sensazione di una città abbandonata, ma con una fondamentale differenza: nella capitale del Libano i grattacieli vuoti, invece di essere vecchi e fatiscenti, sono nuovi, lussuosi ed edificati dalle archistar locali. Lungo la corniche, la passeggiata del lungomare di Beirut, palazzoni senza luci circondano i passanti come sentinelle al turno di guardia notturno. Ed è questo il segno, forse il più evidente, dell’incessante guerra oltre confine e del profondo legame tra Beirut e Damasco, due paesi dai destini perennemente incrociati.

Da quando nel marzo 2011 è scoppiato il conflitto in Siria, la situazione politico economica del paese è andata via via peggiorando. In soli tre anni il Pil del Libano è passato da un + 8,5% a un misero +1% a causa soprattutto della fuga dei turisti e di tutti i ricchi khaliji (gente del Golfo) per cui Beirut è sempre stata una delle mete favorite. E se sono in molti a essere scappati negli ultimi tre anni, sono altrettanti quelli ad essere arrivati: secondo le stime delle Nazioni Unite dal 2011 in Libano si sono rifugiati quasi un milione di siriani, un numero che ha alimentato le perenni tensioni politiche di uno dei paesi più settari al mondo. Per le strade di Beirut centinaia di ragazzini si arrangiano come lustra scarpe, vendono pacchetti di cicche, offrono confezioni di fazzoletti agli incroci mentre di notte rovistano nei cassonetti della spazzatura in cerca di qualcosa di rivendibile. Gli adulti invece si accalcano il mattino presto alla rotonda di Daura, primo nord della città, dove i libanesi in cerca di manodopera a basso costo arrivano e caricano i lavoratori.

E quel che forse è peggio è che l’afflusso di siriani in fuga ha creato una situazione paradossale per cui mentre i condo scintillanti delle zone bene della capitale sono vuoti perché i libanesi ricchi sono scappati in Europa e i khaliji non hanno fatto ritorno ma mantenuto comunque le case di Beirut come status symbol, i rifugiati siriani fanno lievitare gli affitti delle abitazioni più modeste e quelli dei generi di prima necessità. «Non si può più trovare una stanza per 300 dollari al mese», dice una ragazza, 30 anni, redattrice di una rivista locale, «lo stipendio mi basta ormai soltanto per sopravvivere. Se voglio qualcosa in più, nulla»,  aggiunge un impiegato di Banque du Liban intorno ai 40 anni, e via così, lunghe lamentele si susseguono l’una all’altra.

Ara Azad, pittore locale sulla cinquantina racconta che l’enorme afflusso di rifugiati ha cambiato colori, facce e  volto alla città e che Beirut ormai non è più la stessa. Ma nelle parole di Ara, come in quelle degli altri libanesi, non sembra però esserci astio, almeno non ancora: una sorta di sentimento di empatia pan-arabo mantiene fermo il limite tra la lamentela e una rabbia che potrebbe essere fatale per un paese la cui situazione politica rimane instabile.

«Il Libano è il paese dell’amnesia dove le persone preferiscono concentrarsi sull’immediato in modo da sfuggire alla visione complessiva delle cose»

Il governo manca dalla scorso giugno e il Parlamento in attesa che il conflitto in Siria si risolva evita di prendere qualsiasi decisione – persino la data delle prossime elezioni è un tabù. Minaccia principale alla stabilità del paese è Hezbollah, il gruppo islamista insediato nel sud di Beirut, in quella che de facto è una capitale dentro la capitale controllata da un esercito di militanti con capacità di fuoco maggiori delle regolari forze armate del paese. E tra i libanesi è ancora fin troppo vivo il ricordo di quando nel 2008 il partito di Dio ha bloccato mezza Beirut e fatto rivivere alla città un’atmosfera da guerra imminente.

La guerra civile (1975-1990) e due guerre con Israele (l’ultima è del 2006) hanno distrutto più volte il volto della città. E in molti qui sono convinti che, se dovesse sentirsi minacciata da Hezbollah o da Assad, Israele non esiterebbe un attimo ad attaccare Beirut. Ma per le strade, anche se carri armati e pattuglie dell’esercito sono visibili dappertutto, di politica si parla poco e la risposta più comune a una domanda impegnata è un sorriso smaliziato che invita ad un diverso soggetto di conversazione. «Il Libano è il paese dell’amnesia dove le persone preferiscono concentrarsi sull’immediato in modo da sfuggire alla visione complessiva delle cose», dice Eliane Raheb, l’autrice del nuovo documentario sulla guerra civile libanese Sleepless Nights.

Il Bo18, locale famoso per essere costruito a forma di bara proprio sul luogo di uno dei più grandi eccidi della Guerra Civile libanese è pieno ogni giovedì, venerdì e sabato

Ed è forse questo il principale motivo di una vita notturna incessante dove bar, discoteche ed eventi si susseguono con i ritmi di una città europea in cui la maggior preoccupazione è il traffico. Ottobre ha visto l’apertura del Beirut Art Fair, della Beirut Photo Fair e l’inaugurazione in grande stile della vecchia stazione dei treni a Bourj Hammoud con annessa mostra di graffiti. A Mar Michael, una sorta di Pigneto o di via Tortona di Beirut, i locali rimangono aperti fino al mattino.

Bodo attira sempre una gran folla grazie alla sua birra a poco prezzo; il lunedì hip-hop di Radio Beirut continua ad essere pieno di aspiranti rapper e amanti del genere; l’Electro Mechanical Relaxation ospita ogni sabato un nuovo gruppo, spesso di artisti siriani; il Bo18, locale famoso per essere costruito a forma di bara proprio sul luogo di uno dei più grandi eccidi della Guerra Civile libanese è pieno ogni giovedì, venerdì e sabato. Non solo. Rue Gouraud la strada principale di Gemmayze, uno de quartieri dove si concentrano bar e locali, il venerdì e il sabato è una sfilata interminabile di Porche, Mercedes e Ferrari.

Ma a Beirut non ci sono soltanto i tamarri in salsa saudita. Nei quartieri cristiani del nord della città si icontrano hipster e biciclette a scatto fisso. La maggior parte ha riportate le proprie bici indietro da qualche anno di esperienza in Europa e le poche in vendita nei negozi di Beirut spariscono in pochi giorni e a prezzi altissimi. E sono sempre loro i clienti del primo ristorante vegano della capitale e sempre loro ad aver fondato Dighri, il primo servizio di consegne a domicilio su bici del medio oriente.

Le differenze estetiche e del mezzo di trasporto rimangono comunque sulla superficie perché alla domanda “che cosa succederà?”, nonostante la città più elegante del medio oriente assomigli sempre più alla post-industriale Detroit, i libanesi rispondono «mab haref», “non lo so”. E i pochi che si azzardano a fare qualche previsione parlano di “cinque, forse dieci anni”, prima della fine delle tragedia siriana. «Ed è un peccato», dice il solo a cui dopo diverse birre viene voglia di dire qualcosa di più solido, «perché quando non è costretto a vivere in emergenza questo paese mostra tutte le sue incredibili potenzialità».

Nella foto: un evento a Piazza dei Martiri (Jordi Cami / Getty Images )

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