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Vivere nella Turchia che ha rieletto Erdogan

Racconto delle due settimane che hanno fatto la storia recente della Turchia, tra le speranze di un cambiamento mai sembrato così vicino e la conferma della presa ancora fortissima di Erdogan sul Paese.

di Alia Kiran

La Turchia non è mai stato un Paese facile in cui vivere. Sin dalla sua fondazione nel 1923, il Paese e il suo popolo hanno affrontato autoritarismo, golpe militari, lotte politiche tra la destra e la sinistra che si sono trasformate in violenza per le strade, gravissime crisi economiche, instabilità geopolitica e incertezza riguardo al futuro, la stessa che la post-modernità ha portato anche in tutto il resto del mondo. La Turchia è stata anche un Paese di resistenza e speranza, nonostante il modo in cui spesso si tende a raccontare le scelte elettorali dei suoi cittadini (della maggioranza degli stessi, per essere precisi). Ma con le ultime elezioni si sono scavate linee divisive, polarizzanti e colpevolizzanti, sempre più profonde, mentre nel Paese convivono disperazione e speranza.

Le ultime elezioni sono state importanti per due ragioni. La prima è di tipo storico: è il centesimo anniversario della repubblica, fondata dopo la caduta dell’impero Ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. I politici hanno usato questo anniversario per dare alle loro campagne elettorali un’impronta, appunto, storica. I manifesti elettorali, grandi e piccoli, di Erdogan, appiccicati in ogni angolo delle strade di Istanbul, lo osannavano come “Dogru Adam, dogru Zaman” (l’uomo giusto, al momento giusto). I manifesti dell’opposizione, composta da partiti politici appartenenti a tutto l’arco parlamentare – dai comunisti ai nazionalisti, compresi anche i curdi – annunciavano il momento in cui “Tutto sarà grandioso”, “Scriveremo la storia” e incitavano a “Decidere!”.

La seconda ragione per la quale questa elezione era importante aveva a che vedere con le sorti economiche del Paese e con le conseguenze del terremoto: gli analisti turchi e del resto del mondo si chiedevano se il Paese avrebbe allungato di altri cinque anni l’ormai ventennale leadership di Erdogan. La risposta restituita dalle urne può sembrare un netto “sì”, ma in realtà le cose non sono così semplici. Al ballottaggio l’opposizione, con il candidato Kemal Kilicdaroglu, ha ottenuto il maggior numero di voti nella storia delle elezioni presidenziali (il 47.8 per cento, contro il 52.1 di Erdogan). Al contrario, il partito di Erdogan non è mai andato così male in termini di seggi parlamentari ottenuti. Un risultato che si spiega con le profonde divisioni del Paese: per metà di esso, Erdogan è ancora l’uomo della stabilità finanziaria e dello sviluppo industriale. Un’immagine rafforzata grazie agli squilibri del sistema mediatico turco, secondo il quale il Paese sarebbe minacciato da terroristi al suo interno e da potenze straniere all’estero (ai media filogovernativi piace usare queste definizioni per gruppi etnici, Paesi e istituzioni internazionali). Si spiega anche così la duratura fiducia nell’uomo «che tiene testa all’Occidente».

I sostenitori di Erdogan non fanno che sottolineare le tante infrastrutture che ha realizzato in questi venti anni: aeroporti nelle zone rurali del Paese, grandi autostrade, ponti, il treno ad alta velocità da Istanbul ad Ankara, il treno urbano che collega la parte occidentale e quella orientale di Istanbul passando in un tunnel sotto il Bosforo. Come tutti i Paesi polarizzati, queste infrastrutture rappresentano futuri e ideali completamente diversi in base a chi sia la persona con la quale ci si trovi a parlare. Per esempio: quando ho chiesto a degli elettori di Erdogan incontrati per strada la loro opinione sulla situazione economica del Paese, una delle risposte più frequenti è stata: «Tira fuori il telefono». Una maniera per dimostrare che il Presidente e il suo partito hanno portato benessere a tutti è far vedere come tutti oggi possano permettersi di comprare uno smartphone. Ma c’è un ulteriore sottotesto: lo smartphone è la prova che, checché ne dica l’opposizione, Erdogan è l’uomo che ha portato la modernità in Turchia, a tutti. Ma per chi sta dall’altro lato della battaglia politica, il regno di Erdogan ha significato perdita di libertà civili e politiche, soprattutto dopo le proteste di Gezi del 2013. E anche dal punto di vista economico, il racconto degli avversari e oppositori di Erdogan differisce enormemente. La vita nelle città turche è diventata economicamente insostenibile, soprattutto negli ultimi sei mesi. Sempre più spesso capita, a me e a miei amici, di non poterci permettere nemmeno un drink in un bar: compriamo birre al mercato per risparmiare. L’inflazione è un problema grosso nelle città, eppure non altrettanto grave e sentito nelle periferie. Un’altra linea di separazione tra i turchi.

Come se le preoccupazioni economiche non fossero sufficienti, il terremoto dello scorso febbraio ha inferto un colpo durissimo alla psiche collettiva turca. Le città più colpite hanno subìto distruzioni e contato vittime (50 mila i morti) senza precedenti: secondo le stime, 14 milioni di persone – il 16 per cento dell’intera popolazione turca – hanno subito le conseguenze del terremoto. L’assenza di aiuti da parte dello Stato si è fatta notare, soprattutto nelle comunità più colpite, dove corrente elettrica, acqua e persino delle semplicissime tende da campeggio sono mancate per settimane. Dopo il terremoto, gli eventi a Istanbul sono stati cancellati: le persone, semplicemente, non avevano voglia di uscire di casa e incontrarsi.

È in mezzo a questo tumulto che la Turchia ha vissuto non una ma due tornate elettorali. Nei giorni precedenti il primo turno c’era un certo ottimismo tra coloro che speravano fosse la volta buona per spodestare Erdogan. I sondaggi favorevoli e l’innegabile recessione economica avevano riempito di speranze l’opposizione e i suoi sostenitori. «Se ne andrà, ne sono certo. Non può vincere», mi aveva detto un amico, la sera prima delle elezioni. L’ottimista in me gli aveva creduto, la scienziata politica aveva molti dubbi. In quegli stessi giorni, avevo sentito il crescendo della retorica nazionalista e militarista di Erdogan. Avevo visto migliaia di persone fare la fila in strada per la visita guidata di una nave da guerra della Marina, raccontata con toni trionfalistici dai media filogovernativi. Sconsolata, ho visto persone che tiravano fuori con fretta i telefoni per riprendere le inutili manovre dei caccia da combattimento, ovviamente di fabbricazione turca, nei cieli di Istanbul. Ho seguito i risultati del primo turno delle elezioni a casa di un amico: la delusione era opprimente. Mentre tornavo a casa, le strade erano silenziose. Le persone erano tutte davanti alla tv, in attesa dei risultati ufficiali. Certo Erdogan non era riuscito a vincere al primo turno, ma la sensazione era comunque che l’opposizione fosse stata sconfitta.

Con solo due settimane di tempo tra il primo turno e il ballottaggio, l’opposizione e i suoi sostenitori hanno fatto fatica anche solo a conservare la speranza. Nonostante il risultato finale apparisse ormai inevitabile a molti, al ballottaggio ha partecipato l’86 per cento degli aventi diritto (solo l’1 per cento di differenza rispetto al primo turno). Mentre lo spoglio dei voti si traduceva in un sempre maggiore vantaggio per Erdogan, la depressione si faceva palpabile nella redazione della testata indipendente Yerel Medya Koordisyon (una collaborazione tra le online media association Kuest Media e Dokuz8 Haber). I giornalisti sono una delle categorie più perseguitate di questi ultimi anni: molti dei presenti in questa redazione speravano in un futuro migliore sotto un governo più liberale. Un mio caro amico mi ha detto: «Non sottovalutare mai la stupidità umana. Le persone hanno scelto di seguire il sogno di un passato nostalgico, invece di pretendere una visione realistica del futuro».

Nonostante tutto, c’è una parte di me che non accetta queste elezioni come il giudizio definitivo sui vent’anni di Erdogan. Considerando l’enorme vantaggio che avevano in termini di soldi, risorse, spazi mediatici, istituzioni favorevoli, lui e il suo partito non sono riusciti a ottenere una netta vittoria. In sostanza: nonostante venti anni di dominio, Erdogan non è riuscito a cambiare la forma di tutta la società turca. Come ha detto il fondatore di Kuest Media, Mustafa Aslan, «pur con tutta la disinformazione, la propaganda e gli oscuramenti dei media, la società civile turca resta forte ed è capace di far arrivare le informazioni a coloro che vogliono ascoltare. È l’unica cosa che mi fa andare avanti».