Attualità | Cronaca

Avetrana, dieci anni dopo

Intervista a Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, autori di Sarah, romanzo-inchiesta sul delitto che ha cambiato per sempre la cronaca italiana. E che diventerà una serie tv.

di Studio

Sarah Scazzi

Il 26 agosto 2010 tv e giornali riferivano della scomparsa di una ragazzina di 15 anni in uno sconosciuto paesino a pochi chilometri da Taranto, una notizia di cronaca destinata a trasformarsi nella più bieca tragedia nazionalpopolare della recente storia italiana. Nel Paese del delitto di via Poma, di Novi Ligure, di Cogne, di Erba, Avetrana ricopre infatti, ancora oggi, un ruolo fondamentale. Non solo per il delitto in sé, non solo per Sarah, che rimarrà per lunghissimo tempo sullo sfondo pateticamente ritratta dai media, ma anche per tutti coloro che quella storia hanno contribuito a scriverla, dai familiari ai compaesani fino ai giornalisti e agli stessi spettatori, che ad Avetrana si sono scoperti avidi di orrore (reale o presunto) come mai avrebbero immaginato di essere. Con Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni – autori di Sarah, il libro uscito per Fandango che sarà alla base della serie tv di prossima uscita dedicata alla vicenda – abbiamo parlato del significato che Avetrana riveste nell’immaginario collettivo e di come ha cambiato il nostro modo di fruire la cronaca nera, in peggio.

Sono passati dieci anni dal delitto di Avetrana, un caso che ha segnato l’opinione pubblica del nostro Paese come pochi altri. Secondo voi, quali sono gli elementi che hanno contribuito a fissare la morte di Sarah Scazzi nella memoria collettiva?
La determinazione dei protagonisti di questa storia ad offrirsi alle telecamere e ai giornalisti si è rivelata centrale: Avetrana – all’epoca il paese più povero della provincia tarantina – si è ritrovata a divenire un set a cielo aperto in cui era possibile produrre programmi televisivi a basso costo, e i suoi abitanti che fino a quel momento vedevano la loro vita scandita da una noiosa routine si sono riscoperti personaggi televisivi. Disagio sociale, ignoranza e miseria si sono offerti certamente come un appetibile sfondo, ma sono i sentimenti archetipici che esplodono per le vie del paese salentino a essere centrali e ad aver catturato l’attenzione pubblica. Senza dimenticare, altro aspetto fondamentale, che questi si sono fusi con il più becero dei gossip rappresentato ora dalla valanga di messaggi fra Sabrina Misseri e Ivano Russo, ora dalla villetta al mare dove vengono ritrovate tracce di cocaina.

Ripercorrendone la storia e i tanti personaggi, cosa vi ha sorpreso di più che all’epoca non ebbe la dovuta risonanza?
Il ruolo di una delle teste chiave del processo, Anna Pisanò, che attraversa molti degli episodi principali della narrazione e che emerge adesso in tutta la sua complessità: Testimone di Geova come la madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano, segna tappe fondamentali delle indagini. È lei a parlare agli inquirenti per la prima volta del fioraio, Giovanni Buccolieri, che racconterà poi del famoso inseguimento di Sarah da parte di Cosima Serrano (salvo poi dire che si trattava solo di un sogno); è lei a dire che Cosima la mattina del 26 agosto non aveva in realtà lavorato perché così le era stato detto da una sua amica. Tesi, però sconfessata dallo stesso datore di lavoro della Serrano. Ed è sempre lei che viene “utilizzata” alla stregua di un detective dagli inquirenti quando le viene affidato un registratore per carpire segreti e testimonianze che potessero “incastrare” il fioraio, tentativo che poi fallisce inesorabilmente. Anna Pisanò è al centro dell’inchiesta: di lei gli inquirenti si sono fidati, nonostante in molti casi sia stata teste de relato de relato, smentita poi da chi invece aveva avuto diretto confronto e testimonianza con i fatti e con alcuni personaggi dell’inchiesta. Ma c’è anche un altro aspetto, connesso alla figura della Pisanò e non solo, che abbiamo cercato di mostrare: ad Avetrana dicerie e voci di paese hanno lambito e spesso toccato le indagini. E questo è accaduto anche a causa della enorme pressione mediatica: pochi sanno che anche un altro testimone ha parlato di un inseguimento quel giorno. Ma inizialmente, nei primi interrogatori, parlava di un uomo con baffi folti e capelli ricci. Salvo poi dire, tempo dopo, che probabilmente era Sabrina mascherata. Questo lascia intendere quali siano state le conseguenze delle storture mediatiche ad Avetrana.

Inchiesta, romanzo, ora Sarah diventerà anche una serie tv: mi piacerebbe saperne di più del metodo congiunto (Flavia scrittrice, Carmine giornalista) con cui avete lavorato per raccontare questa storia e che differenze avete trovato, se le avete trovate, rispetto al vostro precedente libro, Nella Setta?
Lavoriamo insieme su tutto, affidandoci l’uno all’altra nelle parti che ci sono più affini. È certamente più complesso, ma anche l’unica strada che conosciamo per provare a sommare all’inflessibilità dell’inchiesta che presuppone lucidità e in taluni casi obbliga alla freddezza, l’empatia e la profondità della narrativa. Nonostante siano profondamente distanti sotto tanti punti di vista, anche in Nella Setta abbiamo cercato di affiancare l’analisi dell’inchiesta  a quella umana: ciò che ci interessa, al di là della cronaca nera come nel caso di Sarah o della manipolazione mentale e degli abusi come in Nella setta, è l’animo umano, provare a comprendere i lati più nascosti e, spesso, abbietti, nel difficile intento di confrontarci noi per primi con tali lati.

In Sarah c’è una nuova confessione di Michele Misseri, che si prende ancora una volta le colpe dell’omicidio e racconta alcuna dettagli della sua infanzia. Com’è stato raccogliere questa testimonianza?
È stato molto doloroso conoscere la discesa agli inferi di quest’uomo che fin da bambino ha subito abusi fisici e violenze sessuali. Ci ha obbligato a domandarci se chi ha conosciuto il male fin da bambino sia più o meno perdonabile. Ci ha costretto a interrogarci su cosa sia la violenza. In che misura ciò che si vive nell’infanzia può produrre delle conseguenze in età adulta? E quanto questo può costituire un alibi? Sono domande scomode, forse tremendamente disumane, ma che noi per primi ci siamo rivolti e che rivolgiamo al lettore.

Negli ultimi giorni si è parlato molto di cronaca nera a seguito della vicenda di Viviana Parisi e in tanti si sono lamentati di come i media hanno coperto il caso. Se l’approccio voyeuristico di certa stampa non è certo cosa nuova, in questi anni si sono aggiunte anche le reazioni social, penso ai meme su “zio Michele” o alla mitizzazione della figura di Franca Leosini. Per il vostro libro avete messo in fila dieci anni di atti processuali, interviste, confessioni, ospitate tv: è cambiato il modo in cui parliamo e ci rapportiamo alla nera e se sì, che ruolo ricoprono i social in questa dinamica?
È cambiato in modo completo l’approccio che tutti abbiamo a internet, al flusso costante e continuo di informazioni prodotte e ricevute; naturalmente, si è così trasformato, in modo altrettanto significativo, anche l’approccio rispetto alla cronaca e alla cronaca nera, che assurge in casi come quello di Sarah Scazzi o di Viviana Parisi, come mix di paure collettive – la scomparsa prima, la ricerca della verità poi – amplificato dal nulla agostano. Tracciare un mosaico netto e definitivo delle possibilità offerte dai social è impossibile: costruiscono e demoliscono la rete delle persone come costruiscono e demoliscono quotidianamente miti e ossessioni. Sono tritacarne ingovernabili a volte, ma capita anche che diventino un sostegno e suggeriscano come l’umanità, nonostante tutto, a volte riesce a sopravvivere.

C’è, a vostro parere, un modo “giusto” per parlare di questi casi e uno del tutto “sbagliato”?
Rispettare le persone coinvolte, nel loro privato e nel loro intimo, potrebbe sembrare una banalità. Invece sarebbe un ottimo punto d’arrivo. In Sarah abbiamo provato a scegliere la via dell’etica, che dovrebbe portare a una giusta distanza, scampando dal patetismo come dalla freddezza. Ricordare che non stiamo parlando di personaggi, ma di persone, è fondamentale. Spesso si sottovaluta anche la potenza del linguaggio: ci ritroviamo a parlare di “caso” Scazzi, svuotando di umanità una persona tremendamente uccisa a 15 anni. Ecco: abbiamo provato nel nostro racconto anche a raccontare Sarah, a offrirne innanzitutto vigore umano.

C’è chi vorrebbe abolirla, ma perché, secondo voi, è necessario parlare di casi di cronaca nera?
Perché i fattacci ci mostrano la parte nera dell’animo umano, che esiste per quanto uno provi ad arginarla. Credere che i fattacci appartengano solo all’inferno è un tentativo di protezione inutile. La cronaca nera è un concentrato dell’essenza dell’uomo, e non solo nei suoi momenti più efferati.

Cosa non abbiamo ancora capito di Avetrana?
Che quel giorno, in via Deledda, non è morta solo Sarah Scazzi. La sua tragica scomparsa ha segnato in modo definitivo la perdita di ogni dignità della stampa italiana. La spettacolarizzazione del dolore ha toccato la sua vetta più alta, sdoganando la disumana crudeltà di taluni giornalisti e l’assoluto sadismo del pubblico. Siamo diventati tutti peggiori. Confrontarci con quello che avvenne dieci anni fa e poi nei mesi successivi, è confrontarci innanzitutto con noi stessi.