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Il piacere proibito di non prendere like

Cosa si prova quando si cerca un’interazione nei social ma questa non si instaura.

di Giordano Tedoldi

Un visitatore osserva il suo riflesso in uno 'Smoke Mirror', al Wired's NextFest di Los Angeles del 2007 (Noel Vasquez/Getty Images)

Uso i social, sono un buon antidoto contro la solitudine, anche perché non la risolvono – sarebbe tragico se ci riuscissero – ma a volte non si resiste alla tentazione di molestare l’altro – possibile spiegazione di quasi tutte le fondamentali spinte sociali – e i social si prestano egregiamente a tale scopo.

Del resto, interagire sui social, non è che il prolungamento del disgusto che si avverte, come un’ondata gelida, all’aprire della pagina di Facebook o Twitter (Instagram va un po’ meglio, perché le immagini, a differenza delle parole, sono sempre meno stucchevoli). Già quel disgusto ci tradisce come animali sociali: se fossimo davvero capaci di solitudine non solo non avremmo aperto la pagina, ma soprattutto non sentiremmo la nausea. Prima o poi, a quella nausea non si può non rispondere. Scriviamo qualcosa, non ha importanza in realtà cosa, ma vogliamo contribuire alla nausea.

Il più delle volte, è vero, questo contro-conato assume la forma di una dichiarazione sprezzante o sarcastica. Altre volte è una posa. Altre ancora è impegno civile, vale a dire una dichiarazione sprezzante o sarcastica, ma in posa. L’espressione impegno civile sui social ha ampliato notevolmente il suo significato. Ridicolizzare i “leoni da tastiera” è classificato come impegno civile, ad esempio. È come se la nausea avesse tante sfumature, e poiché ognuno ha uno stomaco più sensibile a una certa sfumatura di voltastomaco piuttosto che a un’altra, è in quel campo che darà il meglio. La nausea dell’impegno sui social finirà per generare post impegnati, la nausea sulla teoria estetica: post sui libri con le tovagliette, la nausea per certe forme di vischiosità sentimentale: riflessioni sentimentali. Quando infine si è pronti per andare a vomitare, si stacca per un po’ dai social per liberarsi lo stomaco. È tutto un raffinato, decadente atteggiarsi nauseato. La faccetta che sorride e quella che sta per vomitare sono due faccette della stessa medaglia.

In tutto questo malessere si insinua a volte una tregua, anzi, un vero e proprio piacere. Un piacere estremamente raffinato, che sembra fatto apposta per continuare a prolungare la dipendenza da social, e che si presenta come un piacere non richiesto, come un effetto collaterale. Lo si prova quando si cerca un’interazione nei social ma questa, miracolosamente, non si instaura. Un post con un numero di “mi piace” né negativo né positivo (che è la cosa più vicina alla dimostrazione dell’inesistenza di sé). Un tweet che resta sguarnito di cuoricini, per non dire retweet, cui nessuno dà non dico un bacetto ma nemmeno un buffetto. Aggiorniamo la pagina, usciamo e rientriamo, ascoltiamo un video su YouTube e torniamo ma, sul piano cartesiano, su una coordinata il tempo cresce, sull’altra il conteggio resta fermo all’origine.

Intellettualmente, chissà perché, reagiamo con incredulità. Ma il fenomeno veramente interessante è quello emotivo. È uno strano piacere, un sensazione eccezionale come affogare nell’indifferenza generale, o vomitarsi addosso in un modo che non può essere considerato nemmeno performance. Ma quale performance più rappresentativa, oggi, di quella offerta non da un artista, ma da noi stessi che buttiamo un “contenuto” sui social senza provocare nessun effetto? È un tonfo, un rumore molto singolare, che prima dei social non esisteva in natura.

Questo è il vero piacere proibito dei social: sentire che di là nessuno ti s’incula. Forse bisogna essere un po’ masochisti per apprezzarlo, ma davvero oggi, questo, non ha più alcuna importanza. Bisogna essere un po’ masochisti per vivere senza suicidarsi, oggi. Dunque si rientra comunque nello spettro della normalità e nessuno potrà accusarci di essere degli squilibrati o dei perversi.

Lo specchio di fumo è stato presentato al Wired’s NextFest di Los Angeles del 2007 (Noel Vasquez/Getty Images)

Ma per assaporare davvero questo sottile piacere, consiglio di visualizzare. Come certi yogi. Immaginare e ricreare davanti a sé lo scenario dell’opinione pubblica social in preda al suo mal di stomaco. Naturalmente questa scena di visualizzazione dell’opinione pubblica non può più prendere, come negli anni Settanta, l’aspetto di una manifestazione di massa, sarà invece parcellizzata dato che anche le manifestazioni di massa oggi sono sminuzzate e ridotte nel tweet di un individuo; la pluralità, la collettività si è trasferita dal numero dei partecipanti al numero dei like che quella massa guadagna al mediatore, cioè all’individuo postante.

Perciò immagineremo gli altri come tanti individui separati e reclusi, ciascuno davanti allo schermetto o schermo del suo dispositivo, che, da bravo mediatore, fissa, considera, valuta per un microsecondo oppure molto più a lungo, e magari anche più volte, il tuo assurdo tweet, e passa oltre. Ed è abbastanza inebriante immaginare cosa accada nella sua mente, in quel momento: in quella non relazione ci sentiamo così vicini a lui. Su quanti post o tweet irrilevanti, fastidiosi o nauseanti sorvoliamo? Essere sorvolati a propria volta crea comunità molto più degli appelli a restare umani.

Sono queste esperienze di disallineamento, di asincronicità, di frustrazione isolante (tanto più potenziate dalla propensione con cui ti si lecca il culo per ogni stronzata) che soggiacciono al successo dei social. La festa ideale, è una festa in cui non hai legato veramente con nessuno, e che quindi è rimasta una festa, un processo, una struttura artificiale predisposta per superare l’individuo, non si è trasformata in un rapporto: non ti ha ingannato.

Dal punto di vista di chi scrive un post a reazione zero, c’è un piacere preliminare o un’aspettativa di piacere già nello scrivere una “cosa”, ritenendola anche potabile se non addirittura intelligente – perché questo va detto, qui non si ha a che fare con sterili provocatori o situazionisti patetici, qui si ha a che fare col vero dolore e dunque col vero piacere – quindi immetterla nel flusso dei social, nel proprio protetto canalino di scolo, e vedere che, no, non arriva alcuna eco, non arriva un cenno. È tutto così umiliante e lunare. Dopo magari sì, arriva un cuoricino o un mi piace, ma tu sai che è l’amico commosso, o la pazza che mette like a qualunque cosa «non capisco ma sembra fica», insomma qualcuno che si è piegato all’istinto di soccorrere, di rendersi utile. Ma era più bello prima che intervenisse.

Zero reazioni. Zero reazioni social. Sé stessi e il proprio tweet, in un fiume di nausea. E, come accennato prima, persistere a vedere (cioè a immaginare di vedere) in faccia gli altri, ed è curioso come il cinema ci abbia abituati a vederli realisticamente questi altri, e a leggergli la mente. Con gli occhi puntati sul tuo post o tweet, pensano: «come ha fatto a ridursi così?» – «ma io i libri di questo coglione non li compro» – «oddio ma allora era veramente stronzo come pensavo, il mio intuito non sbaglia mai» ecc. ma il tutto solo pensato, non agito; e in realtà generato da se stessi e concatenato in una spirale paranoica di ipotesi contumeliose che infine ti restituiscono un rinfrescante senso di normalità. Una guarigione dall’Ideale di sé.

L’inconveniente però è che, ormai, non ricevere più alcuna reazione è davvero difficile. Ecco perché tanta nausea. Qualche idiota che alla festa ti considera qualcuno, purtroppo, c’è. Ma quelle mezz’ore, quelle ore in cui il tuo tweet resta ignorato, in quarantena, prima del soccorso dell’inevitabile uomo che è restato umano, sono davvero preziose. Impariamo a valutarle per il piacere e il segreto insegnamento che possono darci.