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Anche l’aria di Milano è diventata virale

Condividere sui social i pessimi dati sull'inquinamento è sempre più diffuso. Ma è una nuova forma di slacktivism?

di Ferdinando Cotugno

È stato un mese tremendo per la qualità dell’aria a Milano, una città che cerca di ucciderti in modo milanese, senza rumore e senza fare troppe scene, a seconda delle metriche da 1500 a 4000 morti premature ogni anno. La soglia critica delle polveri sottili a gennaio è stata superata in diciassette giorni su trentuno secondo le centraline di monitoraggio, a febbraio la città era nella top ten mondiale delle più inquinate al mondo. Tutto questo non si è trasformato in una sollevazione però: ma in un flusso di infografiche condivise sui social, che rubano l’occhio per i colori violenti, rosso, porpora, viola, i tuoi polmoni oggi erano qui. L’attivismo dell’infografica non è pigrizia o antipolitica, è un grido di allarme lanciato con il televoto: fate qualcosa, fate presto. Il punto è: grido di allarme lanciato a chi?

Alla politica, all’amministrazione cittadina, o a noi stessi, un modo per dire: siamo vivi anche oggi, anche oggi abbiamo respirato questa roba qui, fin qui tutto bene, ma ricordatevi di noi. Non ci lamentiamo per fare divulgazione, per diffondere dati, noi ci lamentiamo per farci coraggio. Ma è un coraggio che confina con lo spreco, perché è diventato sterile: siamo nella zona in cui l’indignazione confina col rumore di fondo.

L’ansia dei social per l’inquinamento atmosferico è un buon laboratorio per osservare cosa stiamo diventando, cosa non riusciamo a essere e come non riusciamo, collettivamente, ad affrontare le emergenze del presente. Nemmeno quando le vediamo e ne siamo consapevoli – soprattutto quando le vediamo e ne siamo così consapevoli. I cambiamenti climatici sono una materia frustrante su cui agire, sono la politica che tocca la morale, si sviluppano su scale temporali e geografiche vastissime, su cui anche la più retta delle esistenze non ha un effetto visibile da poter essere una ricompensa. L’inquinamento dell’aria che respiriamo funziona in modo diverso: ha il potenziale di essere politica di prossimità, quella che confina con l’utile, e avrebbe delle ricompense, per noi, sulla scala delle cose di cui potremmo godere. Eppure trattiamo l’inquinamento atmosferico come se fosse il cambiamento climatico, lo abbiamo messo nel cassetto delle cose remote, parliamo della qualità dell’aria nel nostro quartiere come del livello del mare intorno alle piccole isole del Pacifico, addolorandoci con quel vago senso di impotenza.

Nel laboratorio in questione, Milano, l’emergenza inquinamento non ha dato vita a un fronte politico, ma nemmeno a quel senso di diffuso civismo che dovrebbe avere origine da un problema così grande e trasversale. Le associazioni che praticano l’attivismo urbano (non “da infografica”) fanno un lavoro immane in città, e lo fanno ogni giorno sulle cose ultime delle vita, non essere uccisi una mattina in bici, non essere soffocati dall’aria che si respira. A volte riescono ad aggregare consenso nella cittadinanza in senso più ampio, a passare da manipolo a minoranza visibile. È successo nei momenti di maggior dolore, che sono stati gli incidenti stradali che hanno costellato l’ultimo anno in città, ognuno una storia atroce. C’è stato un impatto, la politica su questa scala è utile in un modo allo stesso tempo immediato e intangibile. Stasera qualcuno è vivo e non sa di esserlo anche per un pezzo di ciclabile o un sensore su un camion per cui un’associazione ha fatto un’attività di studio, monitoraggio, analisi, lobbying, pressione, si è presa gli insulti, ha affrontato la noia delle carte e dei documenti e la frustrazione dell’indifferenza. Succede, è così, per certi versi è anche normale, piccoli gruppi di pressione che curano con pochi mezzi e grande fatica interessi molto più grandi di loro.

E noi? Sulla scala esistenziale, l’attivismo da infografica coincide con la fantasia ben diffusa agli aperitivi di comprare una casa in altura o nel verde: il progetto di gentrificare non più una periferia, ma un’area interna, qualcuno lo ha già fatto, qualcuno lo farà quest’anno, lasciare indietro chi non si può sottrarre allo smog e non considerare nemmeno per un minuto la politica urbana un’alternativa spendibile per occuparsi del problema. Faremmo qualsiasi cosa per salvarci da questa emergenza, anche andare a vivere a un’ora di viaggio dal cinema più vicino, a patto che non ci venga chiesto di praticare una partecipazione civica e costante.

Sull’inquinamento si vede chiara la faglia sempre più marcata tra chi ha scelto l’attivismo come traiettoria esistenziale, e deve prendersi anche il peso degli assenti, e tutti gli altri, per i quali la fatica di partecipare non sarà mai un’opzione. E sarà da vedere come verranno digerite le eventuali nuove misure di contenimento dell’inquinamento: si è tornati a parlare delle domeniche a piedi, è una proposta portata avanti dal gruppo consiliare dei Verdi, che avranno anche tanti difetti, ma non hanno il timore dell’impopolarità. Perché a Milano sarà un’idea impopolare, città piccola, pianeggiante, con una buona rete di mezzi pubblici e gli automobilisti più radicalizzati d’Italia (almeno in proporzione all’utilità del mezzo). È uno dei paradossi di città come queste: tutte le volte che scopri che l’ecologia non è a somma zero. A un certo punto, certe cose non si potranno fare, e bisogna accettare anche la fatica politica di chiedere delle rinunce, di accettare delle rinunce.

Una delle conversazioni più interessanti del mese l’ho avuta con il mio barbiere, per proteggere la sua identità lo chiameremo Salmo, perché somiglia molto al rapper Salmo. Abbiamo parlato di collasso ecologico, di clima, di ambiente, non so perché, comunque visto che c’eravamo gli ho chiesto cosa ne pensasse, e mi ha dato una risposta perfetta, una barra da rapper, in effetti. Mi ha detto: «Mi preoccupo, ma non me ne occupo». Almeno lui è stato sincero.