Cultura | Personaggi

Senza Arbasino

Non è solo un classico della letteratura italiana, ma anche un autore di culto, la cui opera è uno sterminato diario italiano.

di Francesco Longo

Alberto Arbasino a Venezia nel 2013 aspetta l'inizio dell'Otello a Palazzo Ducale

Senza Arbasino, ovvero senza l’unico scrittore in grado di trasformare il chiacchiericcio in un ritmico stile letterario, l’osservatore che ha catturato ogni moda culturale e ha reso rivelatori tormentoni e tic linguistici. Arbasino è stato l’occhio capace di riempire per decenni rubriche di giornali con uno sguardo nitido e ironico sui cambiamenti della società intravisti in un dettaglio, e anche nei romanzi è stato lo scrittore in presa diretta, il narratore dell’indicativo presente, così come Bassani è stato l’autore dell’imperfetto. Arbasino non è solo un classico della letteratura italiana, è anche un autore di culto, riferimento di tutti gli scrittori che sono venuti dopo di lui, l’autore che nessuna altra lingua ha saputo forgiare. Non c’è estate romanzesca che non rimandi ai suoi libri, non c’è dialogo dal tono intellettuale che non richiami le sue tipiche conversazioni mondane, ogni vacanza italiana o resoconto di villeggiatura sono sempre ancora riflessi del suo infinito viaggio in Italia. Arbasino ha visto tutte le mostre del mondo, ascoltato tutti i concerti, si è seduto in tutti i teatri dell’Opera del mondo, ha letto tutti i libri e i saggi importanti, ha visitato ogni angolo della terra. Arbasino soprattutto ha conosciuto tutti: «E se penso che sono andato a Londra nel ’54 in treno e senza soldi e ho conosciuto T.S. Eliot e Ivy Compton Burnett e E.M. Forster, e sono andato in America nel ’59 in nave e sempre senza soldi ho conosciuto Edmund Wilson e Mary McCarthy ed Eleanor Roosevelt, e frattanto Céline e Cocteau e Mauriac a Parigi, e Adorno a Francoforte, allora – aveva ragione Palazzeschi – mi pare di rievocare cose davvero più remote dell’Impero Romano» (da In questo Stato).

Ad alcuni amici e conoscenti, e agli incontri più importanti, ha dedicato interviste e ritratti. Alcuni fulminanti e riassunti in poche frasi, altri più lunghi, tanti raccolti nei volumi America amore o Ritratti italiani, certi intensi e nostalgici come quello a uno dei suoi maestri, «il nostro scrittore più straordinario», Gadda: L’ingegnere in blu, che frequentò per anni: «Era sempre terrorizzato perché avevo macchine spider, Fiat o MG (…) e lui, sempre con le due mani aggrappate al freno a mano, per eventualmente bloccarci se avessi tentato un sorpasso in curva». Ogni ora della sua vita Arbasino ce l’ha raccontata come fosse pura leggenda, ogni cena al ristorante un’età dell’oro: con Gadda che «sedeva reticente a tavolate romane sempre più ampie e vocianti», intorno a via Ripetta o Trastevere, con Moravia e Morante e Attilio Bertolucci, Bassani e Carlo Levi: «E i più giovani: Pasolini che doveva scappare prima del dolce perché sennò i ragazzini non lo aspettavano».

L’opera di Arbasino è uno sterminato diario italiano, con speranze collettive e tragici lutti, si va da Piccole vacanze del 1957, con amori e pranzi al mare, all’epoca cupa del rapimento di Aldo Moro di In questo Stato. Prima e dopo il Boom, è stato sempre intento a interpretare i caratteri antropologici degli italiani e sempre intento a sfottere la «bigiotteria intellettuale».

Da ogni luogo del mondo ha mandato indietro lettere in forma di reportage descrivendo il mondo come se nessuno lo avesse visto prima di lui, dalla Cambogia (raccontata nel libro Mekong) alla Birmania e all’America Centrale (in Passeggiando tra i draghi addormentati), da Parigi a Los Angeles. Tra i suoi libri più bizzarri, Dall’Ellade a Bisanzio, con un incipit memorabile: «Nell’estate del 1960, con un elegante gruppetto d’amici greco-romani si era deciso fin dal Principe di Homburg a Spoleto di abbandonare la Roma delle Olimpiadi ai sociologi e fans della mass society, e passare invece a Olimpia, ovviamente deserta». Un altro piccolo classico sull’arte è Le Muse di Los Angeles, un giro on the road tra musei californiani: «L’apparizione del Getty Center sembra scadente e deludente», sulla «fatale faglia che teme sempre il definitivo terremoto Big One», intravede «scorci scombinati e riciclati dell’Eur, senza pini di Roma».

Quella di Arbasino è stata una eterna dolce vita, tra conversazioni colte, romanzi di formazione, feste, club, colazioni, inaugurazioni, festival, serate, viaggi, innamoramenti, concerti, un mondo prezioso confluito nella sua opera letteraria principale, quel magma ancora incandescente di Fratelli d’Italia, un capolavoro di stile, un’opera fluviale, un inno alla libertà stilistica, un elogio sfrenato alla vita e alla leggerezza: Arbasino ha fatto della leggerezza una legge morale, dell’eleganza un’etica. Il narratore di Fratelli d’Italia, studente universitario della borghesia lombarda, intraprende nell’estate del 1961 un viaggio con il suo amico Antonio, ecco l’indicativo presente nel famoso inizio: «Siamo qui da un’ora all’aeroporto senza colazione aspettando due amici di Antonio che arrivano adesso in ritardo da Parigi; si mangerà un pesce se si farà in tempo sul molo, in un bel posto degli anni scorsi che forse però quest’anno già non va più tanto bene; e non abbiamo ancora avuto un momento per parlare della nostra estate, che ormai è qui». Questo romanzo, dalle tante stesure, sembra a volte solo il pretesto per raccontare una jeunesse dorée dolorosa e senza precedenti. Arbasino non ha solo descritto l’Italia, l’ha anche inventata. L’ha resa un paese in cui si beve vino bianco parlando di Fellini e Fanfani in cui tutti si svegliano a mezzogiorno e discorrono di Winckelmann e Schubert. Ha reso iconici tutti i luoghi in cui ha ambientato scene dei suoi libri, esiste la Capri di Arbasino, la Forte dei Marmi di Arbasino, la Cortina di Arbasino, sono sue anche le acque trasparenti del mare e tutte le onde che si abbattono a settembre sugli stabilimenti chiusi, tutte le pinete, tutte le notti di Ferragosto. I suoi personaggi – con maglioni sulle spalle annodati sul petto e foulard al collo – a volte indolenti e cupi, altre divertiti e vitali, hanno reso splendido il paesaggio italiano e brillante la lingua italiana.

Con tanti padri – Gadda, Moravia, Brancati, Soldati – Arbasino, con uno dei registri linguistici più vasti possibili e a volte criptico, lascia anche tanti figli, nessuno scrittore italiano dopo di lui può sentirsi un orfano. Si dovrebbe però imparare non solo dalla sua ostentata grandezza, dal suo orecchio assoluto per i linguaggi, ma anche – ora che è morto e che sarà consacrato come un immortale – dalla sua spietata autoironia, anche verso la propria opera: «Gadda peraltro venne allo Strega per presentare con Moravia il mio Anonimo lombardo che poi prese dieci o undici voti».