Attualità

Divide et impera

La vita alla Juventus, gli anni difficili, i maestri Fascetti, Mazzone e Sacchi, le opinioni sulla società, le mosse impreviste e vincenti. Antonio Conte raccontato da giocatore e da allenatore.

di Giuseppe De Bellis

È bello che Antonio Conte festeggi senza giocare. Bello per lui, ovvio. Bello anche perché è più onesto di far finta di niente: chi vuole vincere, chi lo desidera, è felice anche quando succede perché l’avversario perde. È l’estensione sul campionato di ciò che può accadere in una singola partita: l’avversario gioca peggio di te, commette un errore e tu vinci. Che fai, non esulti? Andiamo. Vincere senza giocare avviene ovunque: in Inghilterra, in Spagna, in Francia. Chi aspetta di arrivare in campo e di sceneggiare la festa solo lì è falso. Meglio lo champagne di Conte, le foto dell’esultanza, le maglie «non c’è due senza tre». Fa godere i tifosi, dà fastidio ai rivali, giusto così. Perché dividere è la banalità del bene nonché la funzione sociale di un protagonista del mondo del calcio.

Conte è uomo partita per somma di successi. Perché i numeri lo celebrano al di là di ogni considerazione: 96 punti, la possibilità di arrivare a 100, il terzo scudetto consecutivo, l’aver portato la Juve dal settimo posto alla ripetuta vittoria del campionato. L’oggettività che si deve al successo è uno dei suoi asset principali. Conte è parte di una dinastia senza parentela diretta di allenatori che hanno la possibilità di essere giudicati sui risultati, oltre che sul gioco. Ora, a dirla tutta, per una grande parte della seppur breve carriera in panchina, Conte è stato anche uno che ha fatto parlare di sé a prescindere dal risultato. Giocava diversamente dalla massa: aveva riportato un sistema di gioco che aveva usato in passato qualche folle visionario e lo aveva adattato all’utilitarismo di chi voleva arrivare. Oggi non se ne parla più, oggi che il suo modulo con tre difensori, cinque centrocampisti e due attaccanti, pare una fissazione, quasi un dogma, quel 4-4-2 che diventava 4-2-4 non se lo ricorda quasi nessuno. Lo faceva ad Arezzo, poi l’ha fatto a Bari e a Siena. Alla Juventus non l’ha fatto per due ragioni: mancanza di uomini e upgrade di coefficiente di difficoltà. Ora, il centrocampo a cinque e soprattutto la difesa a tre sono un adattamento. Fondamentalmente, arrivato alla Juve avrebbe voluto giocare sempre con tre attaccanti, salvo poi accettare che non aveva gli uomini per farlo, soprattutto da quando Pepe s’è infortunato senza tornare.

Giocava diversamente dalla massa: aveva riportato un sistema di gioco che aveva usato in passato qualche folle visionario e lo aveva adattato all’utilitarismo di chi voleva arrivare.

Comunque l’analisi sul sistema di gioco è un dettaglio, adesso. Conte ha vinto per ragioni molteplici, delle quali il come mette gli uomini in campo è una parte. Tanto più che la sconfitta in Europa l’ha riconvinto ancora che di più che il modulo giusto è proprio quello con tre attaccanti. Uno centrale e due esterni. La partita di Torino col Benfica ha chiarito che questa Juve non ha i giocatori giusti per quel sistema e ora sul mercato questo farà: cercherà esterni offensivi. Due e non uno. Due perché così Tevez sarà utilizzabile come centravanti (alternato a Llorente) o in alternativa come esterno.

Qui bisogna fermarsi. Sui nomi, dico. Perché Tevez e Llorente sono parte fondamentale del suo essere uomo partita di molte partite. Avrebbe potuto scegliere altri: sul primo c’era lo scetticismo di molti. Qualcuno ricorderà i giorni in cui sembrava che Carlitos dovesse andare al Milan al posto di Pato. La Juve si affacciò nella trattativa, senza esagerare, quasi frenata da un non so che di dubbioso. Conte ha dato il via libera qualche tempo dopo: lo voglio. Llorente già c’era e qui la sua bravura è stata quella di adattarsi a un acquisto che non rispondeva esattamente all’idea che aveva Conte. Voleva un centravanti, ma s’immaginava uno più vicino a Osvaldo. Llorente è arrivato a zero e Conte ha avuto due idee intelligenti: 1) aspettare che entrasse in condizione. 2) cambiare impostazione di gioco per sfruttarlo. Ora, i 15 gol dell’attaccante basco valgono più – il giudizio è personale – dei 19 di Tevez. Sono più inattesi, sono meno scontati, sono oltre: perché Llorente non era stato capito dall’ambiente e dal pubblico, perché Llorente non è appariscente né trascinante. Però è fondamentale. E in questa Juventus lo è stato al di là dei numeri superiori alle attese.

Qui c’è Conte, con tutto quello che il suo carattere complicato e spigoloso porta. Non è un tipo facile, non lo è mai stato. Poco amato perché indisponibile al compromesso con la sua lingua, ma per lo stesso motivo anche molto amato dalla gente juventina. Succede sempre: la rabbia che si genera nell’avversario è direttamente proporzionale alla goduria che si genera tra i tuoi. Ecco, questo l’ha capito in ritardo anche la Juventus che probabilmente s’è accorta del fenomeno Conte più tardi rispetto ai tifosi.

C’è stato un momento in cui Antonio si sentiva pronto ad arrivare a Torino. Fu l’estate dopo la promozione in A con il Bari: la Juventus chiuse mediocremente il campionato e lui era un nome che girava nel mondo juventino. Senza esperienza? Embè? La psicologia del tifoso era: meglio settimi con Conte che settimi con un altro. C’era poi una specie di risarcimento morale, sconosciuto o dimenticato dalla stragrande maggioranza delle persone. Qualcuno ricorderà il campionato 2007, quello della Juve in B. Quello, sì. Conte fu la vittima di Calciopoli. La vera. Fregato due volte: prima accusato di essere figlioccio di Moggi, bambolotto usato per curare gli interessi della “Cupola” in Toscana; poi retrocesso per colpa di una partita scandalosa per davvero. Alla penultima giornata la Juve, che non aveva mai perso, fece 2-3 in casa con lo Spezia che lottava con l’Arezzo di Conte per rimanere in B. Antonio parlò: «Rispetto tanto i tifosi juventini, ma ho poco rispetto per la squadra. Retrocedere così fa male, però mi fa capire cose che già sapevo. Nel calcio si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito».

Conte, lo juventino Conte, beffato da un pezzo di sé, o meglio da un pezzo che in quel periodo aveva deciso di rifiutare la storia dell’era juventina in cui Conte aveva dato il meglio. Sembrò un danno calcolato: Conte era è stato un assistito della Gea, era stato il capitano della Juventus della triade, era stato il viceallenatore di Luigi De Canio – pure lui gestito dalla Gea – a Siena, cioè nel feudo di Luciano Moggi; era allenatore dell’Arezzo, altro feudo nel quale la Juve ha scaricato i giovani della Primavera per farli crescere.
Una storia piccola e in parte dimenticata. Conte è tornato Conte per la dirigenza della Juve in coincidenza con il ritorno di Andrea Agnelli. È lì che la sua storia juventina è stata risvelata. Era arrivato a Torino a novembre del 1991. Lo aveva scelto Cestmir Vycpalek, lo zio di Zdenek Zeman. Lo aveva seguito tutta la stagione precedente a Lecce. Otto miliardi la quotazione. «Ricordo che il mio problema, quando arrivai alla Juventus, era decidere se dare subito del tu a Tacconi, Baggio e Schillaci, o iniziare con un più rispettoso lei».

«Ricordo che il mio problema, quando arrivai alla Juventus, era decidere se dare subito del tu a Tacconi, Baggio e Schillaci, o iniziare con un più rispettoso lei».

Tredici anni, poi. Fino al 2004, perché quando avrebbe potuto andarsene, scelse di restare. La Juventus aveva deciso di chiudere il contratto con Lippi (con cui non andava d’accordo) e di prendere Ancelotti: «Con Carlo sono rinato. Anche se non ho giocato titolare sempre, mi ha ridato fiducia e io l’ho ricambiato dando tutto quello che avevo da dare». A 35 anni s’è fermato. Voleva continuare per un’altra stagione, oppure ripartire da zero, da mister, coi giovani. Ecco, secondo le inchieste della Federcalcio, per Francesco Saverio Borrelli, dieci anni fa il potere di Moggi e del suo clan era massimo. Allora Conte doveva stare tranquillo: veterano della Juve, con un procuratore della Gea, con un fratello legato alla stessa società. Certo. «Mi dispiace andar via, ma l’offerta della Juventus non la ritengo adeguata. Ho vinto tutto e non posso che esserne contento. Dalla Juve ho ricevuto davvero tanto, ma credo di aver dato qualcosa in più, mettendola sempre al di sopra di qualunque altro pensiero. Lo dimostra il fatto che abbia deciso di sposarmi solo adesso che vado via» (si è poi sposato solo l’anno scorso, a scudetto vinto).

Il rapporto Conte-Juventus è stato tirato fuori dopo, quando era utile a disegnare scenari e scatole cinesi, a trovare teste di ponte e uomini d’onore che avrebbero aiutato la rete moggiana a comandare la baracca del pallone. Su Conte è arrivato il veleno: gli hanno dato del raccomandato, hanno tirato fuori presunte follie delle sue stagioni torinesi. Pure i capelli: non sono diventati più una battuta, ma un pretesto per attaccarlo, così come per i suoi modi educati, troppo gentili per un vero uomo. Le voci hanno affondato le radici nella spazzatura e negli affari personali. Bisbiglii, soffiate, personaggi di basso livello e questioni di piccolo cabotaggio. Tutta roba che in una città non grande, puritana e con la puzza sotto al naso erano già venute fuori. Antonio il chiacchierato, che poi era pure un terroncello: facile obiettivo. Facile facile. Se n’è andato, ha preso il patentino, ha trovato una squadra. E però era quella sbagliata. Siena. Altre parole: «Alla Juventus chiesi di poter allenare la Primavera. Non ho avuto questa possibilità e di questo sono rimasto piuttosto male. Per molti anni il mio procuratore è stato Alessandro Moggi, figlio di Luciano, e con me si è sempre comportato benissimo. Sono stati gli altri procuratori, quelli che ho avuto prima di lui, che semmai non si sono comportati benissimo. Quello che mi è capitato è comunque la dimostrazione che l’essere assistito dalla Gea non mi ha mai garantito canali privilegiati rispetto agli altri».

Non è bastato. Schiacciarlo quell’anno è stato uno sfizio del quale qualcuno non ha voluto privarsi. Eppure non ha fatto niente, lui. È stato uno che ha parlato quasi sempre quando è stato interpellato. È stato uno che ha detto cose quantomeno pensate. «I politici dovrebbero fare di più ma anche gli atleti, anche noi giocatori, troppo spesso privilegiati. Oppure maltrattati, giudicati con disprezzo: la nostra colpa è non ribellarci, non voler dimostrare che possiamo essere migliori. Le diverse discipline non dovrebbero vivere separate, quasi nemiche. Non conta solo il gusto della massa o la direzione in cui viaggiano i miliardi. Il giocatore medio è una persona valida anche se non ha studiato. E potrebbe dire qualcosa di importante, se glielo chiedeste. Invece ci fate parlare solo di partite, di avversari, di polemiche. Io vorrei andare in Tv e discutere d’altro, senza sentirmi un milionario in mutande. Non esiste più il giocatore incapace di pagare una bolletta o di farsi sistemare il contatore del gas, non ci serve il tutore. Penso che la cultura non sia solo un diploma, una laurea, ma un diverso modo di pensare a noi stessi, di imporre un’immagine più aderente alla realtà».

È stato uno giusto, Conte: non simpatico, ma neppure odioso, come qualcuno ha voluto far credere. Uno che ha continuato a studiare anche quando era pieno di soldi. Nel 1995, da vicecampione del mondo, ha preso il diploma Isef. Ci ha messo sette anni, neppure tanti. Pochi anzi, per dire che un giocatore non pensa solo al pallone, per mettere qualcosa oltre la pagella della Gazzetta: «Lo so che per la gente siamo così, è un luogo comune tremendo, eppure il calciatore medio è cambiato, si informa, partecipa alla vita normale. Ma non c’è verso, non riusciamo a spiegarlo. La fregatura del calcio è che ti toglie altre voglie. Arrivi presto al successo e ai soldi, hai una vita intensa, magari ti sposi giovanissimo e allora dedichi alla famiglia tutto il tempo che non trascorri in ritiro. Così, addio libri. Io invece ho avuto fortuna e tenacia, non mi sono fatto passare la voglia dell’Isef. Mi piacerebbe insegnare lo sport ai ragazzi, avere degli allievi. Anche mio fratello Gianluca è professore di Educazione fisica, i nostri genitori sono molto soddisfatti di noi. E il sud senza impianti, certo. Io vengo dalla Puglia e so che le scuole di Torino e Milano sono favorite. So anche che nella Costituzione non compare mai la parola sport. E che il nostro modello socio-culturale è sbilanciato verso il professionismo, il business. Lo squilibrio delle risorse esiste. C’è il problema dei concorsi, delle graduatorie ma chissà, magari ci provo. Sarebbe un modo per tornare una persona comune, che lavorando può anche avere uno stipendio basso. Ma perché in Italia l’insegnamento è sottopagato?».

Da tutti i miei maestri ho appreso qualcosa. Fascetti mi ha trasmesso la fiducia nei giovani, Mazzone il carattere, Trapattoni l’umanità e la disponibilità.

Aveva 26 anni, aveva discusso una tesi in psicologia dello sport: “La personalità dell’allenatore”. Se l’è riletta dopo, se la rilegge ancora. «È stato un lavoro interessante, ho provato a raccontare come dovrebbe essere l’allenatore ideale. Prima di tutto un ottimo psicologo, uno che sa ascoltare e che ti spiega le ragioni di una scelta. Purtroppo, e parlo in generale, si curano poco i rapporti umani. A me in fondo è andata bene, da tutti i miei maestri ho appreso qualcosa. Fascetti mi ha trasmesso la fiducia nei giovani, Mazzone il carattere e se non stavi attento ci litigavi, però è uno vero. Trapattoni l’umanità e la disponibilità: quante ore ha trascorso a insegnare calcio dopo gli allenamenti, quando gli altri di solito dicono basta. Lippi mi ha dato la carica di chi non è mai appagato e vuole sempre di più, oltre a una notevole preparazione tattica. Infine Sacchi, cioè lo scienziato del lavoro quotidiano».

E però un limite l’aveva trovato. Uguale per tutti. Per Fascetti, Mazzone, Trapattoni, Lippi e Sacchi: «Si dialoga troppo poco e quasi sempre a senso unico. Mi piacerebbe che gli allenatori non parlassero con noi solo di calcio, che meritassero il loro carisma non con l’autorità del ruolo e del diritto acquisito». Quando è diventato allenatore lui dice d’averci provato. Dice che è diverso. Parlare parla. Si vede. Lo ha detto Pirlo nel suo libro: «Il primo giorno di ritiro a Bardonecchia, ha convocato la squadra in palestra e si è presentato. Aveva già il veleno addosso: “In questa squadra, cari ragazzi, si viene da due settimi posti in campionato. Roba da pazzi, agghiacciante. Io non sono qui per questo, è ora di smetterla di fare schifo”». Trasmette ciò che vuole, spiega ciò che fa. Visto prendere un attaccante e raccontargli il movimento da fare, ossessivamente, continuamente. Visto prendere Bonucci e spiegargli il tempo del passaggio in verticale, accompagnandolo con il braccio fino a metà campo. Visto chiedere a uno se la sentiva di giocare. Si parla, dice. Poi si protegge: il suo giocatore prima di tutto e di tutti. Per qualcuno è sbagliato: non ha mai frequentato uno spogliatoio.