Cultura | Libri

L’importanza degli anni Venti oggi e cent’anni fa

Intervista a Paolo Di Paolo, che nel suo Svegliarsi negli anni Venti mette a confronto i due decenni di due secoli diversi.

di Cristiano de Majo

Gennaio 1920, lavoratori disoccupati mostrano la carta d'identità negli uffici affollati delle agenzie di disoccupazione di Berlino, durante la crisi economica tedesca del dopoguerra (Foto di Three Lions / Getty Images)

È un libro originale e pieno di piccole illuminazioni Svegliarsi negli anni Venti di Paolo Di Paolo, un saggio che mischia il racconto storico, l’aneddotica letteraria, l’osservazione personale per confrontare, con uno sguardo concentrato sull’Europa, due decenni apparentemente lontanissimi, quello che è appena iniziato e quello che cent’anni fa avrebbe fatto da premessa al periodo più buio della storia del Vecchio continente, eppure ricco di intelligenza, di creatività, di arte, di pensiero. Un libro che si legge con piacere e che fa nascere numerose domande, che ho girato al suo autore in uno scambio di mail.

ⓢ Per scrivere Svegliarsi negli anni Venti hai deciso di prendere gli anni ’20 del Novecento e usarli come metro di misura di questo decennio che inizia, com’è nata quest’idea? È chiaramente un metro di misura arbitrario perché il confronto può essere fatto tra tutti i decenni, ma hai visto magari in quegli anni ’20 d’Europa, terribili ma anche come tu stesso scrivi culturalmente ricchi e promettenti, qualcosa che sia riconducibile all’oggi?
Ho sentito piuttosto, entrando in questi anni Venti, una distanza ormai considerevole dal Novecento. Come se, appunto, svegliarsi negli anni Venti significasse anzitutto svegliarsi in un tempo distante dal secolo che ancora ci richiama e ci condiziona. Anche semplicemente constatare il fatto che circolano per il Pianeta ragazzi e ragazze nate nel 2000 e ormai ventenni mi ha spinto a interrogarmi. Quando finisce un’epoca? E un secolo – “breve” o lungo che sia – muore di colpo o continua a morire a lungo, a estenuarsi, a dibattersi nel secolo successivo? Per questo, più che il confronto tra i due decenni – anni Venti appena iniziati e anni Venti del Novecento – mi interessava scrivere un libro sui passaggi d’epoca, gli scarti, le cesure. Prima della pandemia e della conseguente crisi sanitaria, dicevo a me stesso, come un ritornello o un mantra: stiamo per entrare negli anni Venti? E sì, pensavo agli eventi di cent’anni fa, ma non per costruire paragoni, paralleli, ragionamenti – spesso insopportabili e che spero di avere evitato – sui corsi e i ricorsi. Pensavo piuttosto al fatto che dopo gli anni Venti del Novecento, scrivere romanzi, fare arte, esprimersi creativamente non è più la stessa cosa. Uno può scrivere un romanzo alla Balzac, o trascinare ancora avanti le possibilità dell’impressionismo, ma intanto sono passati Joyce e Virginia Woolf, Picasso e Dalì. L’Ottocento si è esaurito lì, in quelle scariche di elettricità e di novità. Mi interessava raccontare questo; e se è vero che il gioco dei confronti si può fare fra tutti i decenni, quel decennio in particolare ci dice che di tanto in tanto, nella Storia e nella storia della cultura in particolare, si incrociano misteriosamente alcuni agenti (umani) del cambiamento. Come se si fossero dati appuntamento, senza conoscersi. Non è interessante mettersi lì con il sussidiario in mano a dire: ah, vedi, c’è stata la guerra e c’è stata la pandemia, quindi anche ora eccetera, oppure giocare a fare profezie idiote: ci sono stati i totalitarismi, e quindi… Schemi inutili. Più stimolante, almeno per me, è farsi guidare da qualche coincidenza, da qualche illuminazione, e soprattutto indagare il materiale emotivo. Mann parlava cent’anni fa di “suscettibilità a fior di pelle”? Bene, vediamo se funziona per capire qualcosa anche di noi. Credo che una delle pagine per me più illuminanti per scrivere Svegliarsi negli anni Venti sia stata quella – tratta da un romanzo di Saul Bellow, Il pianeta di Mr Sammler – in cui si legge: «Per via dell’alto ritmo di velocità, le decadi, i secoli, le ere si condensavano in mesi, settimane, giorni, addirittura frasi. Per cui per star dietro a tutto questo, bisognava correre, precipitarsi a tutto sprint, fluttuare, volare su acque luccicanti, bisognava saper vedere che cos’era che stava abbandonando la vita umana e che cos’era che, viceversa, vi rimaneva dentro. Non si poteva più essere uno di quei vecchi saggi all’antica che stanno seduti e osservano. Bisognava addestrarsi. Bisognava essere sufficientemente forti per non rimanere terrorizzati di fronte agli effetti locali della metamorfosi».

Sono tanti gli scrittori citati nel tuo libro, penso a pesi massimi come Kafka, Mann o Werfel, da qualche parte ho letto che il 1925 viene considerato l’anno in cui sono stati scritti più bei libri di sempre… il confronto con questi non può che essere impietoso? E se la risposta è positiva, perché succede, secondo te?
Imprevedibile, inspiegabile. È, come dicevo, una sorta di appuntamento tra sconosciuti di genio. Capita in qualche epoca, non sempre con la stessa intensità. Ma non si tratta solo di libri “belli”; questi ne escono sempre, e compresi nel mucchio sono quelli che non ci passano per le mani, di cui non ci accorgiamo. Si tratta di libri nuovi. Diversi in un senso per cui la differenza è uno scarto netto con il passato, con un certo modo di vedere e di raccontare le cose. Non è che negli anni Cinquanta o Sessanta, per dire, non siano usciti parecchi capolavori a tutte le latitudini, e anche una valanga di libri originali, ma La signora Dalloway (1925, per l’appunto; lo stesso del Grande Gatsby…) non è un libro originale: è una piccola rivoluzione. In alcune pagine di riflessione risalenti a questo stesso anno, Woolf fa sentire tutto il desiderio e lo sforzo di inventare qualcosa di nuovo. Più rispondente, lei dice, a quello che è la vita, la vita autentica. E il fatto è che la Tolstoj e Balzac – due geni – avevano trovato la forma (maestosa) per rappresentare la vita autentica secondo i parametri cognitivi e creativi di umani del diciannovesimo secolo; Woolf vuole non adattarsi, pure ammirandoli, ma trovare la propria. E che sia inusitata. «La vita», scrive, «non è una serie di lampioncini disposti in ordine simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere esprimere questo spirito mutevole, misterioso e indefinito, per quanto possa mostrarsi complesso e aberrante, con una miscela possibilmente priva di elementi esterni ed estranei? Non chiediamo solo più coraggio e sincerità; vogliamo suggerire che la materia del romanzo è un po’ diversa da quella che l’abitudine vorrebbe farci credere». Se si limitasse a queste istanze, sarebbe un manifesto simile a quello – per quanto rilevante e sovversivo – di una qualche avanguardia; ma lei scrive La signora Dalloway!

Leggendo il tuo libro ho avvertito la sensazione, leggera, che nel confronto tra il passato e il presente sia sempre perdente quest’ultimo. C’è una forma di tuo pregiudizio verso il presente? Non si rischia facendo questi confronti sempre una forma di passatismo?
Non amo la pubblicistica nostalgica, quella che ci parla di un passato roseo (ah che belli gli anni del Boom economico!). Molti giornalisti italiani non fanno che scrivere libri elogiando il tempo che fu. Io, in queste pagine, ho semmai giocato proprio con l’attitudine, l’inclinazione a vedere regale e magnetica un’epoca lontana. Ma sapendo che si tratta di una prospettiva fallace. Non a caso cito il Woody Allen di Midnight in Paris: lì lo scrittore idealizza gli anni Venti e la Parigi di Hemingway e Dalì, per magia ci finisce dentro, e però si trova davanti una donna dell’epoca che gli dice: il presente è noioso, era meglio la Belle époque! Siamo fatti così. Ci guardiamo indietro e nelle certezze più o meno stabili del già vissuto ci confortiamo. Poi la nostalgia la accetto su un piano privato (e senz’altro ne ho sparsa un po’, più che in questo libro, in qualche romanzo più “giovanile”), ma non sul piano collettivo, pubblico. Lì è pericolosa. Almeno quanto l’uso ambiguo e ipocrita della parola futuro. Che suona sempre come una promessa non mantenuta. Voi giovani siete il nostro futuro! Ah sì? Poi ti svegli a quarant’anni e senti ripetere la frase, identica, a qualcuno che ha la metà dei tuoi anni. Sul presente non ho nessun pregiudizio: è l’unico spazio-tempo di cui davvero disponiamo. Lo sottovalutiamo, lo bistrattiamo. E invece è un’avventura irripetibile. Mi aspetto molto da questi anni Venti, anche se cominciati in modo così drammatico e turbolento. Mi fido del notista dell’Economist che dice che essere vivi su questo pianeta negli anni Venti del Ventunesimo secolo significa essere tra le persone più fortunate che abbiano mai vissuto. Capisco che sembra il momento meno adatto per crederci, ma…

È un libro molto “europeo” il tuo e un’altra sensazione di lettura, questa più strana, è che l’Europa di un secolo fa fosse più Europa di quanto lo sia adesso, nonostante l’Unione, l’Euro è tutto il resto. Come la vedi tu?
Era un’Europa appena uscita dalla Grande Guerra; i confini erano stati ridisegnati a Versailles da uomini baffuti ancora in redingote. Più simpatici e meno freddi dei “burocrati di Bruxelles” additati dai populisti sovranisti? Non so. Mi pare che, al di là delle politiche dell’Europarlamento – effettivamente opache e mal comunicate – ci sia un patrimonio immenso di libertà in una “piattaforma continentale” che almeno per milioni di cittadini (in larga parte bianchi) privilegiati è uno spazio di libertà di movimento messo in discussione seriamente solo da un virus. Non mi piacciono le piccole patrie, ho un’allergia istintiva per le istanze indipendentiste, anche laddove hanno ragioni storiche e sociali legittime e comprensibili. Voglio dire che le battaglie catalane, di cui senza dubbio non so abbastanza, mi sembrano in ogni caso fuori tempo. Non per recitare un falso e tutto sommato solo “estetico” cosmopolitismo, ma perché – come una volta ho sentito dire da Fernando Aramburu, l’autore di Patria – pensare che il mondo finisca col viale di casa è un po’ gretto. Per questo, come scrivo nel libro, se sento un sessantenne anti-europeista non mi stupisco; ma se sento un mio coetaneo o una persona anche più giovane fare i distinguo sull’Europa, su Bruxelles, sulla moneta unica, mi cadono in ogni caso le braccia. E mi rattristo.

Il tuo lavoro, oltre che nello scrivere romanzi, è sempre stato quello di critico, biografo letterario e anche di giornalista/commentatore sui fatti di cronaca. Pensi che il tuo lavoro, il nostro lavoro, avesse cent’anni fa una dignità maggiore?
I confini dell’élite scrivente e leggente erano più netti e lo spazio molto ristretto. Racconto nel libro di un censimento degli scrittori attivi a Parigi nel 1750 e pare fossero 359. Oggi quanti sono? A Parigi, a Milano, a Roma? Numeri impressionanti e naturalmente anche ben più democratici. Il discorso è complesso, e non sono sicuro di avere tutti gli elementi per una risposta. Ma ci provo. Da un lato, mi pare che la “perdita di autorevolezza” sia determinata non dai tempi ma da una sorta di attitudine al cazzeggio che gli scrittori hanno assorbito come postura dominante. Battute, scherzetti, cazzatine. Fanno gli spiritosi. Dopo un po’, hai la sensazione che paragonarli a Thomas Mann sia, come dire, incongruo. Anche avessero scritto la loro Montagna magica. Ma se guardi fuori dall’Italia, senza cercare i monumenti ottanta-novantenni, hai Michel Houellebecq, hai Olga Tokarczuk, hai Herta Müller. Sessantenni. Hai Maylis de Kerangal, hai Mathias Énard. Cinquantenni. Hai Edouard Louis: nato nel 1992! Seri, autorevoli. Gente che alza la posta in gioco. Questo per dire che, se sei capace di prendere sul serio ciò che fai, senza prendere necessariamente sul serio te stesso (cosa in cui sono specialisti imbattibili gli stessi amatori del cazzeggio perenne), puoi anche sperare di lasciare qualche segno. Quanto alle attività “laterali” – scrivere per i giornali, per il teatro, scrivere dei libri degli altri, ecc. – non hanno solo ragioni “alimentari”. Semplicemente, è curiosità per il presente (torniamo a quanto dicevamo); e c’entra la sensazione che “fare solo lo scrittore” sia limitante. Ammiro, ma non invidio, chi si chiude in casa per quattro anni e ne esce con un romanzo come da un tunnel sotterraneo. Ma preferisco questo sporcarsi le mani con il giorno-per-giorno, che mi fa sentire vivo. E mi dà l’impressione, come la dava a molti scrittori “spuri”, che contaminarsi con altri generi di scrittura non solo allarghi la tastiera stilistica, ma offra occasioni di riflessione e di contatto utili anche ai progetti narrativi. Mi ha colpito una frase di Baricco su Dave Eggers, che scrive per il cinema, fa una casa editrice, una rivista, ha fondato una scuola “speciale” di supporto a ragazzi con difficoltà nella lettura e nella scrittura: «Neanche l’ha sfiorato l’idea che fare lo scrittore potesse bastare».