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Come fanno i bambini di Anna a essere attori così credibili

Intervista a Lorenza Indovina, attrice italiana che nella nuova serie di Niccolò Ammaniti, dal 23 aprile su Sky, ha lavorato come coach per i piccoli attori sul set.

di Corinne Corci

Una foto dalle riprese di Anna, di Niccolò Ammaniti

Di Anna si potrebbero dire e scrivere tantissime cose. Che con il romanzo prima, nel 2015, e la serie tv poi (da domani disponibile su Sky e Now, dal primo all’ultimo episodio), Niccolò Ammaniti sia riuscito ad anticipare la nostra “storia potenziale”, raccontando una Terra privata degli adulti a causa di una pandemia e lasciata nelle mani dei bambini. Che Anna sia una riscrittura visiva del Signore delle mosche, o un compendio di tutti quei film e quelle serie in cui il mondo veniva salvato dai ragazzi. Per l’attrice Lorenza Indovina, più di tutto però Anna è stata un viaggio, iniziato molto tempo prima che partissero le riprese, in qualità di consulente durante i casting e poi di coach sul set per i piccoli attori.

Dopo qualche selezione iniziale da parte di suo marito, Niccolò Ammaniti, è subentrata lei per dei provini più ragionati, «e una volta scelti gli attori in modo definitivo li ho guidati per un mese e oltre di preparazione alle scene, a un certo punto l’avventura è iniziata». Faticosissima, anche fisicamente, «siamo saliti sull’Etna alle 4 del mattino, con un freddo cane e tutti i bambini da gestire». Nella serie sono quasi orde, in una scena ce ne sono 300 tutti insieme, a volte con la faccia dipinta di vernice o piena di terra, poi selvaggi e selvatici, «Dario Ceruti, che si è occupato anche dell’aiuto regia mi ha dato una mano, io seguivo soprattutto i personaggi principali, e poi quando c’erano comparse parlanti entravo ancora in gioco. Ma diciamo che tutti quei bambini che corrono, che urlano, piangono, ridono, li hanno gestiti Dario e Niccolò», ride.

ⓢ È stato complesso? Soprattutto considerando che, essendo tanti di loro così piccoli, per la maggior parte sarà stata la prima volta su un set.
È stato difficile, ma i bambini se li tratti da adulti e li responsabilizzi, si responsabilizzano a loro volta. Lo prendevano come un gioco, si divertivano come pazzi anche a fare i cattivi, con l’insegnante che ad alcuni ha spiegato come dare le botte per finta. Ogni dieci bambini c’erano dei capo gruppi che se ne occupavano, soprattutto fuori dal set. Pensa avere tutte queste voci mentre stai girando una scena. E in più ogni bambino porta un genitore, e pure loro sono da gestire, anche perché si annoiano, non immaginano che il cinema sia così noioso e quindi se ne stanno lì a non fare niente o a fare le bizze più dei loro figli.

ⓢ Era la prima volta che facevi la coach?
Sì, e l’ho fatta perché la serie era diretta da Niccolò e conoscevo a menadito la storia, l’ho seguita dalle fasi iniziali del romanzo fino alla fine e avevo ben chiaro nella testa quello che lui voleva dai ragazzini. Anche per questo forse lui me li affidava con leggerezza. È stato un lavoro di collaborazione meraviglioso.

Lorenza Indovina e Niccolò Ammaniti sul set di Anna

ⓢ Il coach che arriva sul set e allena i nuovi attori è una delle figure chiave che stanno emergendo proprio in questi anni, sia per i più piccoli come è stato nel caso dell’Amica geniale, che per gli adulti, considerando che è diventato famoso anche il “sex coach” che guida i protagonisti in certe scene. Quanto è importante nel realizzare le richieste dei registi sul set?
Stanno emergendo per generi di film diversi, anche Stefano Accorsi l’aveva preso per Veloce come il vento. Alla base c’è il problema, e te lo dico da attrice, dei limitatissimi tempi di preparazione, almeno in Italia. C’è poco spazio per lavorare con il regista prima dell’inizio delle riprese, quindi poi ti trovi che arrivi sul set, i tempi sono quelli che sono, il regista ha mille cose a cui stare dietro e l’approfondimento sul personaggio diventa faticosissimo. Se tu invece hai una persona che si occupa di questa parte, il grosso sarà già stato fatto perché qualcun altro avrà sviscerato insieme all’attore il ruolo da interpretare.

ⓢ Tatiana Lepore, attrice e coach, aveva raccontato che, arrivata sul set di Nanni Moretti per affiancare i tre bambini interpreti di Tre piani (terminato nel 2020, uscirà quest’anno), si era sentita dire proprio da Moretti «non ho ancora ben capito cosa sia un coach, ma sono molto contento di lavorare con te». Tu come lo definiresti?
E pensa che Nanni Moretti è uno di quelli che con gli attori ci lavora tantissimo, ci fa pure 70 ciak. Il coach è uno sguardo esterno, uno che vede il tuo lavoro con oggettività e ti dice se la direzione in cui stai andando è quella giusta. Io stessa davo delle dritte a Niccolò per relazionarsi con Giulia [Dragotto, la giovanissima attrice che dà il volto alla protagonista Anna, nda], sapevo come tirarle fuori alcune cose e capivo se potesse fare meglio o meno. Gli dicevo «Niccolò, guarda, è già bravissima, ma dalle un altro ciak».

ⓢ Ma qualcuno ha anche improvvisato?
Non tantissimi. Il bambino che interpreta Astor da piccolo [il fratello di Anna, nda] per esempio lavorava quasi interamente di improvvisazione, come quando ripete nella macchina delle maestra tutte le cose che dice Viviana, la bambina che interpreta Anna da piccola, le fa il verso. Ecco, quella è roba sua. Poi, certo, si usano dei trucchetti.

ⓢ Per esempio?
Per esempio dirgli che la ragazzina si chiamava davvero Anna, e non Viviana. E lui tutte le volte che la nominava la chiamava come il personaggio.

ⓢ La sfida per te, Ammaniti, la troupe e i produttori è stata costruire un mondo solo per i bambini. Come si fa a realizzare un mondo che sia alla loro portata?
Più che un mondo che sia alla loro portata, noi abbiamo immaginato come sarebbe stato se l’avessero costruito proprio loro. Pensato, quindi, da ragazzini che non hanno avuto un’educazione, e che quindi sono privi di principi etici, che non sanno cosa sia il bene e cosa sia il male. La vera difficoltà è stata qui, nel capire per esempio come potessero vestirsi degli esseri umani a cui nessuno aveva insegnato a farlo, che tipo di gusto potessero avere, cosa mangiano, come comunicano. E immaginare le case in cui vivono. Prendi quella di Anna e Astor, una specie di immondezzaio poetico, noi giravamo con questi “camion di monnezza pulita” che ogni tanto buttavamo qua e là per arredare gli spazi. Lavorare in un ambiente così pieno di voci, pieno di cose, di oggetti, di persone, tra il casino, i bambini, le urla, il fumo, è stata una cosa fisicamente stancante e stimolante. Un viaggio, appunto.

Una scena dal primo episodio di Anna

ⓢ Guardando Anna è facile che vengano in mente i videogiochi, sembra esserci quella logica dei livelli da superare, una dimensione paradossalmente ludica in un mondo che viene descritto come se fosse ai confini dell’inferno. È così?
Quella non solo è la linea principale del racconto, ma è l’approccio che hanno avuto gli stessi bambini anche sul set. Soprattutto nel momento in cui dovevano fare i cattivi. Quando uno dei due gemelli [si vede nel secondo episodio, nda] intrappola Anna nella colla, non immagina che potrebbe farle male, lo fa perché si diverte, e l’attore si divertiva davvero. È stato molto più difficile lavorare con i ragazzi più adulti rispetto che con i piccoli, sai a 13 anni hai già tutto un pensiero, c’è la dimensione sociale del chiedersi «oddio sarò brutta? Così sembrerò antipatico?». E invece nei bambini mancano gli schemi. Io cercavo anche di ammorbidirgli le cose ma loro erano i primi ad affrontarle senza orrore o disgusto, e si divertivano.

ⓢ Immagino che lo stesso discorso valga anche per la morte, visto che in Anna è sempre presente, di adulti e di bambini.
Io sono orfana da quando ero piccola, ho perso mio padre a 6 anni e mia madre a 12. Ho vissuto in prima persona il senso di perdita dalla parte di una bambina e non c’è mai stata quella sensazione di fine e di abbandono che invece si prova da grandi, quando ti rendi conto che lui o lei ti manca. Semplicemente a un certo punto la persona con cui ti relazionavi non c’è più. Per questo, anche se nella serie ci sono tantissime scene relative alla morte, io con i bambini non ho mai avuto bisogno di parlarne, perché per i bambini vale quella frase per cui, come scrive Niccolò nel romanzo, «la vita ci attraversa». Lo stesso vale per l’amore.

ⓢ Anna è una serie che arriva in un momento particolare, quando ci siamo accorti che proprio mentre il mondo e gli adulti erano al collasso tutti si sono dimenticati dei bambini. Come potrebbe essere un mondo in cui ci sono solo loro?
Molto simile a quello che si vede in Anna. Niccolò con la sua immaginazione si è avvicinato alla mia. Perché Anna alla fine è un racconto sull’importanza della memoria e di quello che resta, e di quanto sia necessario tutto questo per una civiltà. Il rispetto, l’educazione, il volersi bene sono cose che ti insegnano, il resto invece te lo fornisce l’esperienza e l’istinto di sopravvivere. Ma servono sempre delle guide, anche per quanti a loro volta, quando saranno grandi, guideranno il mondo.