Attualità | Politica

L’Amica geniale al tempo del Governo ignorante

Cosa ci dice dell'attualità politica la serie tratta da Elena Ferrante.

di Francesco Cundari

Fa uno strano effetto guardare l’Amica geniale al tempo del Governo ignorante. Mai come oggi, seguendo la bella versione televisiva in onda su Rai 1, è apparso chiaro come tutto il romanzo di Elena Ferrante non sia altro che un’epopea dell’emancipazione, femminile e di classe, attraverso l’istruzione. La vera eroina del romanzo è infatti la maestra che lotta perché le sue alunne migliori possano continuare gli studi almeno fino alle medie, anche se i genitori dicono che in casa non ci sono soldi, anche se sono donne, anche se per molti di quei genitori è impensabile che la figlia femmina vada alle scuole dei signori mentre i maschi «vanno a faticare». Questo, ad esempio, è quello che la maestra si sente rispondere dalla madre di Lila, quando prova a spiegarle che sarebbe un delitto privare la società delle capacità straordinarie della figlia. Oggi probabilmente si sarebbe sentita rispondere soltanto: «Questo lo dice lei».

Naturalmente c’è una ragione, se le cose sono tanto cambiate. E la prima è che proprio quella promessa di emancipazione attraverso lo studio, che negli anni Cinquanta e Sessanta era ancora credibile – per quanto sempre provvisoria, diseguale e limitata da tutte le ingiustizie e i pregiudizi raccontati nel libro – oggi non lo è più, e si è anzi mutata per molti nel suo opposto, come spiega ad esempio Raffaele Ventura nella sua Teoria della classe disagiata. Oggi forse sarebbero gli stessi figli dei signori, dopo avere fatto non solo le medie, ma anche l’università, il dottorato, il master, che finirebbero a servire nella salumeria o nel negozio di scarpe di qualcuno di quei genitori, confermando così la loro convinzione iniziale: che era meglio se andavano subito a faticare.

Stritolata tra queste due opposte ma convergenti delusioni – quella dei ceti popolari rimasti chiusi nel ghetto della loro emarginazione e quella dei figli del ceto medio impoverito che in quei ghetti spesso sono tornati a vivere per mancanza di soldi – la sinistra non sa più a chi parlare, né come. Divisa tra due opposte tentazioni, una più sbagliata dell’altra: quella di rivolgersi solo ai primi, ai meritevoli, agli amici geniali di ogni estrazione sociale (dimenticandosi di tutti gli altri, che tutti geni non possono essere), o quella di scendere sul terreno del populismo, per rivendicare anch’essa non già il diritto all’istruzione, a raggiungere «i gradi più alti degli studi» e della cultura, ma il diritto all’ignoranza. Schierandosi idealmente, insomma, non dalla parte della maestra che vuole che Lila continui a studiare, ma dalla parte dei genitori che vogliono tenerla in casa.

E invece l’unica strada possibile, per la sinistra, per una qualunque idea di sinistra democratica, se le parole hanno ancora un senso, è proprio quella della maestra, che lotta perché l’emancipazione attraverso lo studio e il lavoro siano di nuovo possibili, e lo siano davvero, per tutti e per tutte. Ben sapendo che la prima e indispensabile condizione per farlo è difenderne la dignità e il valore, non solo economico, e non solo per il singolo individuo, ma appunto per l’intera società.