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5 domande su Alfredo Cospito

Abbiamo parlato del 41bis e dell’ergastolo ostativo con Valeria Verdolini, sociologa che insegna Politiche della sicurezza urbana all'Università degli Studi di Milano Bicocca.

di Davide Coppo

Alfredo Cospito non mangia da oltre cento giorni. Per motivare la sua scelta, ha detto: «La vita non ha senso in questa tomba per vivi». L’immagine scelta da Cospito mi è subito sembrata perfetta per descrivere il regime a cui è sottoposto: quello del 41bis e dell’ergastolo ostativo, vale a dire il carcere a vita (o a morte), lungo quanto è lunga la vita del detenuto, senza possibilità di avere sconti. Quello che si dice: buttare via la chiave, insomma.

Cospito è stato condannato nel 2012 per aver posizionato, 6 anni prima, due ordigni esplosivi davanti a una scuola allievi per Carabinieri a Fossano, in Piemonte. Era un atto dimostrativo, secondo la difesa, messo in pratica la notte in un luogo deserto. Infatti, le esplosioni non hanno ferito né ucciso nessuno, perché nessuno era nei paraggi. Cospito, inizialmente, doveva scontare 20 anni. Durante la detenzione, dal carcere, ha continuato a scrivere, pubblicando diversi articoli per riviste anarchiche – un atto concesso ai detenuti – fino a che, nel 2022, il Ministero della giustizia del governo Draghi (presieduto da Marta Cartabia) ha deciso di sottoporlo al 41bis. La corte di cassazione ha inoltre cambiato, a luglio, il reato contestato a Cospito: da «strage contro la pubblica incolumità» a «strage contro la sicurezza dello Stato». Nemmeno per le bombe di Bologna, di Capaci o di via D’Amelio si utilizzò lo stesso metro. Questo significa, per lui, ergastolo ostativo. Cospito non protesta contro “il suo” 41bis, ma contro il 41bis in generale. Perché le tombe per vivi non debbano più esistere.

Per capire meglio quello che sta succedendo, ho parlato con Valeria Verdolini, sociologa che insegna Politiche della sicurezza urbana alla Bicocca, responsabile lombarda di associazione Antigone, e autrice del recente L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia (Carocci).

ⓢ L’eco delle stragi di mafia è ancora forte per una grande parte dell’opinione pubblica italiana: in che modo si potrebbe spiegare nel modo più evangelico del mondo che il 41bis è una tortura?
Il 41bis, nella logica statale, serve per sospendere una situazione d’emergenza, o interrompere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva. La misura è revocabile con la cessata pericolosità (valutata dal magistrato di Sorveglianza) o con la collaborazione (il “pentitismo”), ma spesso viene protratta. Inoltre, i reati per i quali si applica, sono gli stessi che prevedono la misura dell’“ergastolo ostativo”, una misura ulteriore che non riguarda tanto la vita penitenziaria, ma la traiettoria punitiva. L’ergastolo ostativo esclude i detenuti dai benefici penitenziari, rendendo la pena, nei fatti, un “fine pena mai”.

Entrambe le misure rappresentano un’anomalia rispetto alla funzione delle pene così come previste dalla Costituzione all’articolo 27, che «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Tali contraddizioni sono state messe in luce in più occasioni, sia dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2019 raccomandò alle autorità italiane – per il 41 bis – di effettuare sempre «una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura»; sia dalle condanne della Corte Europea per i diritti dell’Uomo nel 2019 che dalla Corte Costituzionale nel 2018, 2020 e 2022. Al momento sono reclusi in regime di 41bis in 12 istituti italiani 749 detenuti, di cui 13 donne.

Quali sono i motivi culturali e politici per cui non sembra sia possibile nemmeno aprire il discorso sull’abolizione dell’ergastolo? Sia nel mondo giudiziario che nell’opinione pubblica.
Per comprendere le reticenze, è necessario ricostruire come nascono queste misure e in quale contesto. Sebbene ci sia sempre stata una “detenzione speciale”, che si rifaceva alle forme e pratiche del penitenziario precedente alla Repubblica, sicuramente la stagione delle emergenze ha contribuito ad offrire una risposta severa alle sfide poste dai reati politici, rivolti direttamente alla “personalità dello Stato”. Il 41bis nasce come strumento della legislazione d’emergenza nel 1986 per combattere il terrorismo politico. Viene poi integrato nel 1992, con il “superdecreto antimafia Scotti-Martelli” all’indomani della strage di Capaci, che estende l’applicazione del regime ai detenuti per criminalità organizzata. Come spesso accade per il diritto penale, questa misura rappresenta quindi la risposta dell’ordinamento a una doppia emergenza, in un contesto di grande emotività. Nasceva come misura temporanea, ma di fatto diventa organica al penitenziario italiano. In qualche modo, sono misure che rivelano la doppia funzione della pena: da una parte quella umana, che segue la finalità rieducativa, così come prevista dalla Costituzione. Dall’altra, tuttavia, questa pena pensata per un “nemico” esplicita un residuo vendicatorio che si colloca nella funzione retributiva: la pena è sofferenza, e in caso di reati che mettono in discussione l’esistenza stessa dello Stato, la difesa sociale risponde con una punizione altrettanto severa e simbolica.

L’urgenza statale, tuttavia, ha coinciso con il sentimento popolare, che non ha sposato posizioni di garanzia, ma ha chiesto, e spesso chiede, pene severe ed esemplari. Una domanda di punizione che ritorna nella storia recente della legislazione penale e nell’aumento della popolazione detenuta. La criminalizzazione della migrazione e della tossicodipendenza sono due ottimi esempi di queste forme di populismo penale.

È una semplificazione dire che Mani Pulite ha cambiato la storia giudiziaria – anche nei confronti di casi come quello di Cospito – indirizzando la sinistra verso un rinnegamento di ogni lotta garantista e contro il carcere duro?
Le ricostruzioni ex post sono complesse, un po’ perché le facciamo con gli occhi di oggi, un po’ perché i fenomeni sono compositi, e i fattori che incidono sulla morale pubblica e sulle pene non sono sempre di facile lettura. Basti pensare ai 4 anni dal 1990 al 1994: la fine della Guerra Fredda, la fine della prima Repubblica, la paura, gli attentati ai magistrati e le bombe nelle città solo per nominare alcuni eventi. Cosa ha inciso maggiormente? Abbiamo assistito al sacrificio della magistratura con le morti di Falcone e Borsellino, ma anche a una celebrazione del processo e una sua spettacolarizzazione (anche grazie alle trasformazioni mediatiche) con Tangentopoli; al contempo c’è stata una sfiducia nella classe politica e un nuovo e differente protagonismo del giudiziario sulla scena pubblica. E ancora, negli ultimi anni una crisi dello Stato, nuove sfide globali come le migrazioni, nuove paure come quelle del terrorismo globale, e nuove fragilità economiche e sociali. L’aumento delle insicurezze spesso si trasforma in una domanda di protezione. Dopodiché, il caso Cospito è un caso complesso, proprio perché apre un dialogo – critico – con il senso stesso dello Stato, con la capacità di punire i corpi, e al contempo con l’autonomia sulla vita del singolo.

ⓢ Se le cose non cambiano, Alfredo Cospito morirà. In Italia, negli ultimi dodici anni, almeno 4 detenuti sono morti di sciopero della fame. Il ricorso all’alimentazione forzata, in questo senso, non è un’ulteriore forma di violenza?
È del 27 gennaio l’esplicita richiesta del Garante Nazionale delle persone private della Libertà Mauro Palma di trasferimento urgente di Alfredo Cospito in una struttura in grado di garantire un immediato intervento di carattere sanitario in caso di situazioni di acuzie [oggi è arrivata la notizia del trasferimento di Cospito nel carcere di Opera, a Milano, ndr]. Secondo Palma, il carcere Bancali di Sassari in cui è detenuto, non disponendo di un centro clinico, non può garantire interventi urgenti e in sicurezza. La posizione del Garante è molto chiara, quando afferma che «la tutela della salute di chi è nella disponibilità dello Stato, in quanto privato della libertà personale, è responsabilità dell’Amministrazione che lo ha in carico». In altre parole, non si può morire in custodia dello Stato, e lo Stato deve fare tutto il possibile per evitarlo.

Però difficile capire quale sia lo strumento adeguato: se l’intervento sanitario, prevedendo una misura forzata (con le modalità del Tso, forse, ma in questo caso in contrasto quanto espresso da Cospito tramite i suoi legali in questi giorni e con la sentenza Englaro sulla libertà di trattamento) o revocando, con intervento del Ministro Nordio, la misura del 41bis, condizione richiesta per riprendere l’alimentazione, col rischio di sollevare però una questione politica sulla disponibilità dello Stato a negoziare con le richieste di un detenuto politico. Credo si debba decidere quale principio fare prevalere: ancora una volta, la difesa sociale (e quindi la non trattativa) o la tutela della salute, nel rispetto del principio di autodeterminazione e nella facoltà del ministro di rivedere la misura.

Se Cospito morirà, sarà una morte di cui si parlerà molto. Ne dovrà rispondere Nordio, il governo, forse anche i media che non hanno preso nessuna posizione. Potrebbe avere un’eco maggiore rispetto a tanti appelli, il suo sacrificio?
Io credo che questo sciopero della fame così protratto sia un’occasione, speriamo non mancata, per ragionare sul senso (o sul non-senso) di quella durezza, sulla pena che da legittimo uso della forza, quando si svuota di senso costituzionale, della sua umanità diventa coercizione, violenza. L’annichilimento dei corpi, del tempo di vita caratteristici del “fine pena mai” sono propri di un diritto penale che in questo caso è “del nemico”. Un diritto limite, che contrasta con il senso democratico.

Se Cospito muore, non perde solo lo Stato, la democrazia, ma tutti noi come cittadini ne usciamo impoveriti, più deboli. Perciò oggi più di allora il piano deve essere quello della responsabilità politica, l’unica in grado di tenere conto delle trasformazioni sociali, della fine o comunque di un mutamento delle emergenza, e in grado di trasformare un diritto penale ostile in un diritto orientato all’umanità.