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Alessio Cerci, la nuova ala

Il riscatto di un giocatore atipico dentro e fuori dal campo, e il gol-emblema che segna la messa in discussione dei compiti di chi gioca in fascia.

04 Novembre 2013

La cosa più bella di Alessio Cerci è stata un errore: palla a lui, attaccato alla riga laterale destra, testa alta a guardare i movimenti degli altri, poi sinistro carico, forte, teso dalla parte opposta. Cambio di gioco, dicono gli allenatori. Sessanta metri di lancio sulla corsa di un compagno che aveva visto solo lui, Alessio. Fuori dall’inquadratura della tv e fuori anche dalla visuale stretta di chi osserva solo il pallone. Cerci ha usato il grandangolo del cervello, facendo una giocata che non si vede spesso e che non ha capito neanche il compagno. Non l’ha capita perché era troppo, perché in quel momento nessuno avrebbe fatto quel cambio di gioco. Palla fuori dalla parte opposta. Un errore meraviglioso, ossimoro che spiega benissimo certe sfumature che nel pallone fanno la differenza tra uno forte e uno mediocre. Cerci appartiene ai primi. Gioca da fuoriclasse in una squadra che come fuoriclasse ha soltanto lui.  Passerà alla storia di questo campionato per essere stato quello che ha fermato per primo la Roma. Aggiungeranno il dettaglio succulento che l’ha fatto da romanista. Invece ha un sacco di altri meriti, a cominciare da quel lancio finito fuori che però ti riconcilia con il calcio. Fatelo, per capire. Oppure fatevelo raccontare: il cambio di gioco è difficile, ardito, coraggioso. È un colpo da regista, non da esterno.

Palla fuori dalla parte opposta. Un errore meraviglioso, ossimoro che spiega benissimo certe sfumature che nel pallone fanno la differenza tra uno forte e uno mediocre.

Ecco, Cerci è questo: un’ala completa, altra anomalia pallonara. Uno che sa fare tutto quello che deve fare chi gioca sulla fascia e poi il resto: lo scambio veloce, il lancio, il taglio in profondità, la sponda, l’inserimento. Tipo quello del gol, per intendersi. In sostanza è un esterno con colpi da centrocampista e da attaccante. Perfetto? Ovviamente no. Ma diverso, molto diverso. In Italia è unico così ed è tra i pochi anche all’estero. A David Silva, per esempio, mancano le giocate e i movimenti da punta. A Theo Walcott, altro esempio, manca invece tutta la parte da centrocampista. I paragoni servono a capire le differenze.  Cerci è un rimpianto di molti: chi non ha creduto in lui adesso deve pentirsi. Perché a Torino ha trovato l’identità: gioca, segna, fa segnare. Grande in una media.

Dicono: ma forse in un club più competitivo non sarebbe così determinante. Sicuri? Il passato ha detto questo, ma il passato: Roma e Fiorentina non sono andate, ma oggi sarebbe ancora così? La verità è che il suo essere diverso ha spaventato troppi direttori sportivi e troppi allenatori. Non abbastanza punta e non abbastanza centrocampista. Il fatto di essere quell’ala tipica e atipica allo stesso tempo non è stato capito per un po’ di anni. Ora che tutti hanno fame di esterni, Cerci è diventato il Panda da osservare e ammirare. I nostalgici lo vedono come l’erede di Bruno Conti. Tra i due c’è una generazione pallonara di vuoto, qualcosa che sta in mezzo e che in realtà è la vera ispirazione di Alessio. Perché quel vuoto era proprio il vuoto degli esterni che fanno gol: non ce ne erano per incapacità e per ossessione degli allenatori che a chi giocava sulla fascia dicevano soltanto di puntare il fondo. È per questo che per tutto un periodo, anche abbastanza lungo, i mancini giocavano a sinistra e i destrorsi a destra. Nessuno invertiva, nessuno giocava con il piede opposto alla fascia di competenza. L’ala era una specie di velocista che doveva stare in quella fascia di campo stretta più o meno come la corsia di una gara dei cento metri: la riga laterale da una parte, lo spazio del terzino dall’altra. L’ala giocava coi paraocchi: guarda dritto davanti a te, quando il campo è finito, allora crossa per gli attaccanti veri.

Ora che tutti hanno fame di esterni, Cerci è diventato il Panda da osservare e ammirare. I nostalgici lo vedono come l’erede di Bruno Conti.

Cerci ha invertito i piedi e lo schema. Non solo lui, ovviamente. Ma lui, oggi, è un simbolo: l’esterno offensivo, sì l’ala, gioca a destra se è mancino e a sinistra se è destrorso. Così ha due soluzioni: puntare il fondo o accentrarsi e calciare. Scoperta banale, ma molto funzionale. Ventura non è né Mourinho, né Conte, né Garcia, né Ancelotti, ma l’ha capito prima di altri. A Pisa prese questo ragazzino della primavera della Roma e gli disse di fare il terzo attaccante, quello di destra: dieci gol in 26 partite in serie B, a vent’anni. Tutti più o meno uguali: partenza dall’esterno, dribbling verso l’interno, tiro o a giro sul secondo palo o forte sul primo. È esattamente quello che ha fatto con la Roma nel primo tempo, con De Sanctis che ha deviato in corner.

I detrattori dicono:  fa sempre la stessa cosa. Vero, così come faceva Garrincha senza che nessuno riuscisse mai a prenderlo. Il dribbling non è solo sorpresa, è anche tempismo. Puoi fare lo stesso movimento, ma se lo fai nel momento giusto ti può riuscire sempre. A Cerci succede ora e non succedeva a Firenze. Per qualcuno quella è stata un’occasione sprecata. A chi glielo chiede, lui risponde di sì, che è vero, avrebbe potuto dare di più e prendere di più. Ha avuto bisogno di altro, per farcela. Cerci è il volto più noto di una serie di giocatori che seguono alcuni allenatori. I mister si spostano e chiedono come prima cosa di prendergli quel calciatore lì.  Palacio è arrivato così all’Inter: era il pupillo di Gasperini che lo mise come condizione per il suo trasferimento. Ecco, Cerci è il giocatore di Ventura: l’ha avuto a Pisa e l’avrebbe voluto al Bari per due anni di seguito. Si sono reincontrati a Torino, dove Cerci è arrivato con la fama di uno che crea problemi, con la storia di un carattere complicato e di un talento sostanzialmente mal utilizzato. Arrivava da una notorietà precoce, con quei soprannomi che sanno dare soltanto a Roma e dintorni: quando faceva le giovanili lo chiamavano il Thierry Henry di Valmontone. Un po’ ridicolo e un po’ sbagliato, perché con il francese c’entra pochissimo fisicamente e calcisticamente. Così è stata la storia: una promessa che stava per deludere s’è ritrovata a Torino, dove per molti avrebbe dovuto perdersi del tutto.

Il gol alla Roma è un emblema: ha sconfitto i fantasmi, perché bisogna ammazzare le proprie origini per trovare se stessi. Ovviamente Cerci s’era già ricreato l’anno scorso: otto gol e 35 partite da titolare. Tanto per un’ala, checché se ne possa dire o pensare. La nazionale è arrivata così, ma è come se fosse passato tutto sotto traccia. Sì, ok, e poi? La differenza tra chi lascia un segno e chi sorvola la propria esistenza e il proprio calcio. Quest’anno i gol sono otto di nuovo, ma dopo 11 giornate. Cerci è il talento che l’Italia pensava di non avere. Diverso da altro e da altri. Salta l’uomo, passa, tira, si fa buttare giù, tira le punizioni e i rigori. Poi il resto, appunto: la prossima volta quel lancio non sarà un errore. Sessanta metri di cambio di campo troveranno un compagno che capirà che cosa sta facendo quello lì dall’altra parte. Fuori dall’inquadratura, sempre. Sarà il miglior colpo della partita, comunque.

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