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In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
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A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.
Il nuovo film di Tom Ford è già uno dei più attesi del 2026, per tantissime e buonissime ragioni Un progetto che sembra quasi troppo bello per essere vero: l'adattamento di uno dei più amati romanzi di Ann Rice, un cast incredibile, Adele che fa l'esordio da attrice.
Nel primo teaser del Diavolo veste Prada 2 si vede già la reunion di Miranda e Andy Le protagoniste salgono insieme sull’ascensore che porta alla redazione di Runway, riprendendo una scena cult del film originale.

L’account Instagram che denuncia i copycat della moda

Il profilo creato da due appassionati è stato definito la “polizia” dell’appropriazione culturale e della copia. Ovvero, la critica ai tempi dei social media.

03 Novembre 2017

Ci sono molti profili Instagram che chi ama la moda può seguire: gli insider come Derek Blasberg, per esempio, o gli influencer (a voi la scelta di quale fra i tanti vi si confà di più), i giornalisti come Alexander Fury, i designer come Simon Porte Jacquemus oppure uno dei tanti, bellissimi, account-archivio che raccolgono il meglio delle sfilate del passato e delle campagne pubblicitarie che hanno fatto storia, delle celebrity della old Hollywood o dei personaggi televisivo-letterari che hanno segnato la cultura pop, come i protagonisti di The O.C, Tata Francesca e le sciure milanesi. Ce n’è uno, però, che invece di puntare sulla nostalgia e/o sul lifestyle patinato, ha fatto del “call-out” la propria cifra distintiva. In altre parole, ogni suo post è una sorta di denuncia, in forma di impietosa comparazione, delle tante, infinite copie che inondano le passerelle e, conseguentemente, il mercato. Parliamo di Diet Prada, profilo oggi seguito da circa ottantaseimila utenti e aperto nel dicembre 2014 da Tony Liu e Lindsey Schuyler, due appassionati con alle spalle una formazione nel campo della storia e della fotografia di moda.

Diet Prada si era fatto notare ai tempi dell’affaire Gucci-Dapper Dan, postando una delle prime foto che metteva insieme il look creato da Dan per la campionessa Diane Dixon negli anni Ottanta e quello, fresco di sfilata, firmato da Alessandro Michele. Era un omaggio lapalissiano che è stato poi esplicitato dal brand per i duri di semiotica, ma ha suscitato comunque l’ennesima bagarre social sull’appropriazione culturale. Michele, nel frattempo, ha incassato tanto la collaborazione con Dapper Dan quanto quella con i Diet Prada, che infatti hanno raccontato via Stories l’ultima sfilata di Gucci durante la settimana della moda di settembre. Il tema di discussione, semmai, sarebbe dovuto essere un altro, e ha a che fare con la capacità di un marchio di costruire la sua estetica e raccontarsi quindi attraverso moltissime forme e media, certo indispensabile oggi, e di inglobare poi tutto quello da cui prende inspirazione, fino all’estremo, nel caso specifico, di “guccificare” le sue fonti. È questa l’unica strategia creativa possibile? A giudicare dai risultati del marchio, che ha appena chiuso il terzo trimestre dell’anno con una crescita delle vendite su basi omogenee del 49%, sembrerebbe che quantomeno sia quella che paghi meglio, ma Diet Prada non è il luogo per simili riflessioni. E lo si afferma non sulla base di qualche forma di snobismo, meglio specificarlo, quanto piuttosto per via del mezzo attraverso il quale viaggia questa nuova forma di critica, mezzo che, come tutte le piattaforme social, si presta benissimo all’immediatezza della denuncia, per quanto ridicolo possa apparire il termine applicato a vestiti e accessori in un periodo in cui ci si divide sui “paletti” da mettere alle molestie sessuali.

In una recente intervista con Emilia Petrarca di The Cut, Liu e Schuyler ammettono che la loro collaborazione con Gucci potrebbe aver fatto storcere il naso allo zoccolo duro dei loro followers, che immaginiamo essere persone che lavorano nell’industria o almeno capaci di decifrare la differenza di peso tra Nicolas Ghesquière e Marques’Almeida, ma sono contenti del riconoscimento che il loro lavoro di comparazione spietata sta fruttando. La collaborazione con Michele («una persona dal grande senso dell’umorismo»), appunto, oppure la stessa etichetta di critici o, più concretamente, di “polizia” del copycat e dell’appropriazione culturale che media come WWD hanno usato per descrivere ciò che fanno, fino alla schiera di suggerimenti che arrivano dai #DietPradaDetectives, ovvero le segnalazioni fatte da utenti particolarmente sgamati. È un discorso estremamente interessante in cui confluiscono molte cose, dal “regime di costrizione” di cui hanno parlato Antonio Mancinelli e Angelo Flaccavento quando abbiamo discusso di giornalismo di moda alla capacità di rottura che i nuovi media portano si portano dietro, dalle sfumature di significato tra copia, omaggio e appropriazione alla saturazione del mercato, fino alla necessità di problematizzare, e ridare complessità, alle molte forme con cui si “democratizza” oggi l’industria. Tutti argomenti che, lo ammetteranno anche loro, meritano qualcosa in più di un post su Instagram.

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