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Tutti i media hanno ripreso un articolo di Reuters sulla vibrazione atmosferica indotta, che però non c’entra niente con il blackout iberico (e forse non esiste) E infatti Reuters quell'articolo è stata costretta a cancellarlo.
La chiusura della più famosa sauna di Bruxelles è un grosso problema per la diplomazia internazionale A Bruxelles tutti amano la sauna nella sede della rappresentanza permanente della Finlandia. Che ora però resterà chiusa almeno un anno.
C’è un cardinale che potrebbe non partecipare al conclave perché non si riesce a capire quando è nato Philippe Nakellentuba Ouédraogo, arcivescovo emerito di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha 80 anni o 79? Nessuno riesce a trovare la risposta.
La Corte europea ha vietato ai super ricchi di comprarsi la cittadinanza maltese Per la sorpresa di nessuno, si è scoperto che vendere "passaporti d'oro" non è legale.
Una nuova casa editrice indipendente pubblicherà soltanto libri scritti da maschi Tratterà temi come paternità, mascolinità, sesso, relazioni e «il modo in cui si affronta il XXI secolo da uomini».
Nella classifica dei peggiori blackout della storia, quello in Spagna e Portogallo si piazza piuttosto in basso Nonostante abbia interessato 58 milioni di persone, ce ne sono stati altri molto peggiori.
Microsoft ha annunciato che dal 5 maggio Skype “chiude” definitivamente L'app non sarà più disponibile, chi ancora si ricorda le credenziali potrà usarle per accedere a Teams.
Alexander Payne sarà il presidente della giuria alla prossima Mostra del cinema di Venezia Il regista torna sul Lido dopo un'assenza di otto anni: l'ultima volta ci era stato per presentare il suo film Downsizing.

La vacanza del freelance

In difesa della scelta di lavorare "da casa" e di decidere da soli quando, come e per quanto andare in vacanza.

24 Agosto 2017

Sono stato richiamato all’ordine. Carzaniga, non ti sembra il caso di tornare? Non stiamo un po’ esagerando? Da quand’è che non sei a Milano? Eccetera.

Sono partito il 22 luglio, tornerò il 27 agosto per andare subito a Venezia, inviato per la Mostra del cinema. Sarò di nuovo a Milano dal 10 settembre. A me non sembra neanche così tanto. È questione di quale forma hai voluto dare alla tua vita, e la mia assomiglia sempre di più a questa. Milano – città a me così cara che è difficile volerle male, eppure, a volte – è parte integrante di questo processo di rimozione delle vacanze. Le mie, quantomeno.

L’unico giorno in cui, per un velocissimo cambio di valigia, sono ripassato da casa (l’undici agosto) mi è costato psicologicamente molto caro. Nel tavolo accanto, in pizzeria, c’erano tre ragazze che, credo io, si salutavano prima delle ferie. Io pativo quella serata di passaggio forzato, le loro vacanze non erano ancora cominciate. Un’intera serata, quella delle ragazze, a parlare di capi, colleghi, CV. Non un altro argomento, non un altro orizzonte in vista dei saluti estivi. Avevano un’aria da fuorisede, saranno state compagne di scrivania. E però, mi domandavo addentando la mia margherita (non gourmet), ci sarà qualcos’altro? Qualcos’altro di cui parlare, qualcos’altro a cui dedicare una serata. Anche solo il dolce.

Una delle cose belle di Milano è il lavoro. È ciò che la rende, unica nel nostro Paese, una città che guarda un po’ più un là. Da sempre. Alberto Rollo, nel suo lucido Un’educazione milanese (è uscito per Manni Editori, è stato finalista al Premo Strega), traccia le direttrici di questa storia. Milano e la fabbrica, era il dopoguerra. Milano e la cultura come industria, anni settanta. Milano e la moda, anni ottanta e a seguire. Fino alla Milano del terziario di oggi, fatta di comunicatori e strategist, di riqualificazioni e startup. Il lavoro è un personaggio che, da sempre, si muove dentro la città. È bello pensarla in questo modo. Con lui mi ci muovo anch’io.

Negli anni mi sono accorto però che ci passeggio da solo. La percezione che la maggior parte degli amici e vicini ha di me e di quelli come me è quella di una persona che non lavora. Ho scelto anni fa di fare il freelance. Libero professionista. Evidentemente a fare effetto è la parola “libero”, si tiene quella e il resto scompare. A volte ci si sente incompresi. Quando si parla di lavoro, nella mia città avviene molto spesso, raramente vengo interpellato. Io sono quello che può andare a fare la spesa alle undici di mattina. Che può mettere su un brasato in pieno pomeriggio. Io sono quello che non ha orari, cartellini, pause pranzo. Io sono quello che, stando almeno alle evidenze più sfacciate, non lavora.

Writing Tide

Ne conosco altri, di liberi professionisti come me, e la percezione che si ha di loro è sempre quella. All’inizio, forse, lo era anche la mia. Sono cresciuto a Milano, diventa una mentalità. Si può uscirne. Anche se la città fa fatica a sbloccarsi. A fronte di un’epoca in cui gli stipendi sono sempre più bassi, gli straordinari non sono quasi mai pagati, la maggior parte dei diritti del lavoratore sono saltati (non parlo di lotte sindacali, con le mille nuove categorie della nuova educazione professionale milanese non c’azzeccano), la riconoscibilità di un milanese, autoctono o acquisito, resta il lavoro. Il ruolo che occupa nella scala del Pil. La poltrona su cui siede dalle nove alle diciotto. Seh, diciotto. Il tempo del lavoro milanese non ha mai fine. Anzi, è meglio se si prende tutto. (Risuona un’eco: capi, colleghi, CV.)

Il tempo è un’altra chiave del discorso. E le vacanze. Le mie. Quest’anno ho dato disponibilità per scrivere tutta l’estate. E infatti ho mandato articoli da sotto un ghiacciaio islandese, ne ho buttati giù altri nelle calette sarde. Ho lavorato? Sì. Ero in vacanza? Sì. Con gli anni ho capito che la vera conquista è il tempo (sai che scoperta), e allora me lo sono preso. Col lavoro mi ci pago tutto. I miei non mi passano un soldo da che ho messo piede nella mia prima casa da solo. Col lavoro ogni mese ci svolto l’affitto, la spesa (che posso fare alle undici, è vero), i viaggi. Non voglio impietosire nessuno (ma chi si impietosisce, sei in vacanza da una vita), ma si fa pure fatica. Siamo liberi professionisti, sì, ma negli anni della post-crisi. Quest’estate son tornato a campeggiare, come a vent’anni, per risparmiare su qualche notte in giro. Se devo scegliere dove mettere i soldi, al primo posto ci sono i viaggi. Un altro avrà l’abbonamento in palestra, un altro ancora il nuovo obiettivo per la reflex.

Con un amico, libero professionista come me, ci si chiedeva di recente se e come avrà peso anche politico questa nostra generazione di liberi professionisti, appunto, che non necessariamente stanno fermi in un posto. Come li chiamiamo, migranti creativi? Che brutta definizione. Ad ogni modo, c’è questa massa sempre più grossa di gente che lavora e si sposta, e non lo fa come me (comunque italiano, comunque milanese), che semplicemente allungo il solito vecchio brodo delle ferie d’agosto.

Su Instagram seguo una coppia che, per un anno buono, si è presa il famoso “sabbatical”. Queste diavolerie americane. Anzi, uno dei due mi pare sia australiano, ancora peggio. Popoli giovani, che non hanno voglia di lavorare. Mica han tirato su il mondo come noi, questi qua. Il mio pensiero, ad ogni foto postata ora da Sumatra ora da Vancouver, era invece un altro, sempre lo stesso: «Lo voglio fare anch’io». Qualcun altro, scommetto pure qualche amico loro, avrà di certo pensato: «Ma questi stanno ancora in giro?». Carzaniga, non ti sembra il caso di tornare? Adesso, tra un po’. Intanto ieri ho prenotato un volo per ottobre.

(Foto Getty Images)

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