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Gli undici abitanti di una remota isola giapponese vogliono ripopolarla usando i manga Gli anziani di Takaikamishima hanno fondato una scuola di fumetto, nella speranza di salvare l’isola dallo spopolamento.
Il designer delle T-shirt più amate dalle celebrity è un bambino di 11 anni Si chiama Dylan e tra i suoi clienti può già vantare Elle Fanning, Michelle Pfeiffer, Pharrell, Jamie Lee Curtis e Pierpaolo Piccioli.
Uno dei massimi esperti di Caravaggio del mondo dice di aver finalmente trovato il suo primo dipinto Secondo Gianni Papi, "Ragazzo che monda un frutto" è l'opera prima dell'artista: ci sarebbe un dettaglio che lo conferma oltre ogni ragionevole dubbio.

Regalare è meglio di vendere?

Apple e U2 hanno deciso di intasare i dispositivi altrui con un album non richiesto – e non è andata bene. Strano, perché riflettendoci il concetto di "regalo" e "free" ha sempre più posto nel mercato odierno.

30 Settembre 2014

Ho notato che Studio è una delle poche testate a non essersi catapultata sulla notizia U2-Apple per comunicare al mondo la propria opinione sull’operazione. Molto bene. Tuttavia l’evento ha così tanti elementi di trasformazione che è davvero difficile far finta di niente. No, tranquilli, non farò come il buon Beppe Severgnini insinuando, fuori tempo massimo, che in fondo nell’operazione degli U2 c’era poca innocenza, e che invece c’era molto marketing (ma va?), oppure come Mika – sempre la scorsa settimana, sempre sul Corrierone nazionale – menandola con la storia che il regalo non si impone, facendo passare iTunes come l’ultima diavoleria della nostra vita digitale, oppure passare al setaccio, canzone dopo canzone, tutto il disco di Bono e compagni.

Siamo tutti adulti svezzati, ne abbiamo visti di fatti e sappiamo come sono andate le cose: Apple (brand assai più cool di qualsiasi altra band, e non è un gioco di parole) non era ancora pronta per il lancio in grande stile del nuovo servizio di streaming in collaborazione con l’acquisita Beats Music di Dr. Dre, e quindi nel frattempo c’era bisogno di qualcosa di potente («It makes music history because it’s the largest album release of all time», ha dichiarato Tim Cook, Ceo della società) per rilanciare il povero iTunes, messo lì in 500 milioni di dispositivi come un mobile vecchio su cui si appoggiano le cose, ma a cui nessun fa ormai molto più caso. Dall’altra parte c’era invece una band gigantesca (per storia, mezzi, capacità, ego) senza molto da dire, a cui oggi sta solo a cuore, per loro stessa ammissione, l’essere minimamente rilevanti, quindi pesantemente visibili e notiziabili. Peraltro erano già amici di Apple, quindi… ecco The Age Of Opportunity (se l’avessero davvero chiamato così sarebbero stati dei geni).

In realtà però volevo parlare di un’altra cosa, addentrandomi un po’ più nella questione economica. L’operazione Apple-U2 ha rimesso in pista una sorta di monopolio naturale: in pratica c’è una band che offre la sua ultima fatica e un’azienda che compra in blocco tutto le copie – digitali, vabbè – per circa 100 milioni di dollari (comprensivo dei diritti di utilizzo dei pezzi per spot e comunicazioni varie Apple) per poi regalarle ai propri clienti, o meglio, a tutti coloro con cui hanno un contatto diretto attraverso una piattaforma condivisa (iTunes).

In realtà una cosa del genere era già successa lo scorso anno con Samsung che aveva regalato ai suoi clienti in anteprima l’ultimo disco di Jay-Z, ma in quel caso si trattava di persone che avevano già sborsato parecchio denaro per comprare uno smartphone Galaxy; qui invece si parla di numeri molto più alti, potenzialmente 500 milioni e nessuno ha sborsato un cent (pare che le persone che hanno ascoltato il disco, siano state di circa 39 milioni, quindi una redemption del 7,9%. Fate voi le opportune valutazioni di merito).

È evidente che il regime di monopolio naturale lo è solo in via teorica, in quanto si parla di creazioni dell’ingegno e, in più, di prodotti digitali, perciò non si verificano tutte quelle condizioni della classica configurazione industriale secondo cui la funzione di costo è subadditiva (cioè che i costi sostenuti da una sola impresa nel produrre l’intera quantità domandata risultano inferiori a quelli che sosterrebbero due o più imprese contemporaneamente presenti sul mercato) o dove il ricavo marginale eguaglia il costo marginale (tralascio altre pallosissime considerazioni macroeconomiche). Fino a pochi anni fa il regime di monopolio naturale, cioè un solo compratore e solo un venditore, si ritrovava, prima della liberalizzazione del mercato, nella rete per la distribuzione dell’acqua, del gas, dell’elettricità e lo Stato, quindi fattispecie totalmente diverse.

A pensarci bene, questo modello spurio di U2-Apple potrebbe tranquillamente essere adottato anche dall’editoria. Prendiamo una testata storica che, come tutte, soffre della crisi di vendite, ad esempio Time: potrebbe accadere che un grossa corporation (esempio, Procter & Gamble oppure Visa) acquisti in blocco i 3 milioni di copie in tiratura, magari riempendole di propria pubblicità, e regalandole ai propri clienti. Prima o poi succederà anche questo, me lo sento.

Vien voglia di rileggersi Free: How Today’s Smartest Businesses Profit by Giving Something for Nothing di Chris Anderson (Gratis, tradotto in Italia quattro anni fa da Rizzoli), libro che conteneva alcuni importanti intuizioni ma anche pesanti contraddizioni: ad esempio, in quel momento Anderson era ancora editor di Wired, rivista che non applica certo le regole della free economy, e il libro aveva il suo bel pezzo pieno.

Free passava in rassegna le varie forme del modello di business basato sulla gratuità, da quella che l’autore chiama «sovvenzione trasversale» (ad esempio quando le compagnie telefoniche regalano il cellulare per poi vendere il traffico) al modello supportato dalla pubblicità (come la free press, nel frattempo mezza fallita) fino alla vera e propria economia del regalo che da anni domina su internet, come Wikipedia o i software opensource, dove il valore non è il denaro, bensì la collaborazione e la reputazione.

Ma sopratutto Anderson analizzava la forma del “freemium” (crasi di Free e Premium), modello di business tipico dei servizi sul web, che prevede due o più varianti del prodotto da distribuire a prezzi diversi: l’azienda mette gratuitamente a disposizione una versione base del prodotto, mentre per usufruire delle altre versioni (“premium”), che includono funzioni aggiuntive, l’utente deve pagare un determinato importo. In questo modo l’azienda che eroga il servizio riesce contemporaneamente a raggiungere tutta la clientela interessata e a guadagnare sugli utenti più esigenti. Nel mercato dei videogiochi e delle app il modello funziona benone.

In realtà quello dell’operazione U2-Apple non è propriamente un modello freemium, però rimette in campo concetti come l’intermediazione, forme di mercato del passato e nuove definizioni di libero arbitrio tutte ancora da scoprire.
 

Immagine: gli U2 presentano il loro ultimo album e la partnership con iTunes, 9 settembre 2014 (Justin Sullivan / Getty Images)

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