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Una delle band più popolari su Spotify nell’ultimo mese è un gruppo psych rock generato dall’AI Trecentomila ascoltatori mensili per i Velvet Sundown, che fanno canzoni abbastanza brutte e soprattutto non esistono davvero.
A Bologna hanno istituito dei “rifugi climatici” per aiutare le persone ad affrontare il caldo E a Napoli un ospedale ha organizzato percorsi dedicati ai ricoveri per colpi di calore. La crisi climatica è una problema amministrativo e sanitario, ormai.
Tra i contenuti speciali del vinile di Virgin c’è anche una foto del pube di Lorde Almeno, secondo le più accreditate teorie elaborate sui social sarebbe il suo e la fotografia l'avrebbe scattata Talia Chetrit.
Con dei cori pro Palestina e contro l’IDF, i Bob Vylan hanno scatenato una delle peggiori shitstorm della storia di Glastonbury Accusati di hate speech da Starmer, licenziati dalla loro agenzia, cancellati da Bbc: tre giorni piuttosto intensi, per il duo.
La Rai vorrebbe abbandonare Sanremo (il Comune) e trasformare Sanremo (il festival) in un evento itinerante Sono settimane che la tv di Stato (e i discografici) litigano con il Comune: questioni di soldi, pare, che potrebbero portare alla fine del Festival per come lo conosciamo.
La storia del turista norvegese respinto dagli Stati Uniti per un meme su Vance sembrava falsa perché effettivamente lo era Non è stato rimpatriato per le foto salvate sul suo cellulare, ma semplicemente perché ha ammesso di aver consumato stupefacenti.
In Giappone è stato condannato a morte il famigerato “killer di Twitter” Takahiro Shiraishi è stato riconosciuto colpevole degli omicidi di nove ragazze. Erano tre anni che nel Paese non veniva eseguita nessuna pena capitale.
Per sposarsi a Venezia e farsi contestare dai veneziani Bezos ha speso almeno 40 milioni di euro Una cifra assurda che però non gli basta nemmeno per entrare nella Top 5 dei matrimoni più costosi di sempre.

Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo del ‘900

Allievo di Cartier-Bresson, famoso per aver portato la fotografia di moda in strada, è scomparso a 92 anni.

22 Ottobre 2020

Non è mai stato semplice raggiungere Frank Horvat. Non lo è stato nella fotografia, certo, ma nemmeno nella vita vera, fisica, fuori dalla messa in scena. Per arrivare nella sua casa in Provenza, dopo aver attraversato il piccolo paese di Cotignac, si doveva percorrere una strada sterrata, nel bosco, lunga cinque chilometri. Gli appunti dei bivi e delle deviazioni per raggiungere quel luogo occupano un foglio, ante e retro. «Vivere qui è un lusso che mi costa molto caro», ripeteva Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900, morto il 21 ottobre a Parigi, all’età di 92 anni. Difficile dire se si considerasse francese, italiano, o più probabilmente un europeo con radici ebraiche, sempre in viaggio ed incuriosito dalle strane connessioni del mondo. Era nato ad Abbazia nel 1928, allora italiana, e durante la guerra si era rifugiato in Svizzera con la madre psichiatra. Negli anni ’50, a Parigi, incontra Henri Cartier-Bresson, il quale vede la sua Rollei – macchina fotografica a pozzetto – e gli dice «I tuoi occhi non sono sulla tua pancia». Horvat compra così una Leica, la appoggia agli occhi ed inizia a girare il mondo, fotografando esattamente ciò che vede per Life, Picture Post, Paris Match. I suoi lavori escono su tutte le riviste che contano e, essendo lui di una generazione che non conosceva falsi moralismi, che erano in grado di pagare bene i suoi reportage. Entra in Magnum, ma ci resta un solo anno: l’agenzia tratteneva il cinquanta per cento degli introiti.

Frank Horvat è famoso per aver portato la fotografia di moda in strada, negli anni ’60, quando i servizi, sia per i marchi del lusso sia per riviste come Elle, Vogue e Harper’s Bazaar, venivano realizzati in studio, contribuendo così alla diffusione del prêt-à-porter. Ma probabilmente a Frank Horvat non è mai interessato essere considerato padre di un nuovo genere, era distante da tutte le teorie per fotografi astratti e privi di un approccio concreto della vita, il suo obiettivo era saper coniugare questa profonda passione per il mondo, per le persone, per le strade, con un mestiere che gli permettesse di essere un autore. Ripeteva spesso che «La fotografia è l’arte di non premere il pulsante». Fermarsi un attimo prima, trattenere qualcosa per sé era più importante che riempire il mondo di immagini, pensieri, ragionamenti, emozioni di cui, forse, il mondo non ha nemmeno tutto questo bisogno. Please, don’t smile è il titolo di uno dei suoi ultimi libri, riprendendo ciò che veniva detto alle modelle durante i servizi fotografici. Sapeva divertirsi con questi tic, piccole fissazioni, di un ambiente che osservava da distante. Da trent’anni, ormai, ogni volta che aveva un’idea, preferiva svilupparla in un libro o in una mostra. Anche in questi casi, se il progetto non lo convinceva, si fermava un attimo prima di portarlo di fronte al pubblico. I libri dovevano essere curatissimi, nella stampa e nell’impaginazione, e chissà se ha mai risolto il problema della cucitura che interrompe le grandi foto orizzontali su doppia pagina, nessun grafico ce l’ha ancora mai fatta. «L’impaginazione e la struttura sono importanti quanto la foto, a volte di più. È come scrivere un romanzo», diceva. Parlare di lavoro con Frank Horvat, in tre lingue – italiano, inglese e francese, a seconda del tono di voce e del tipo di argomento – era una continua altalena tra questioni filosofiche irrisolte e problemi pratici da risolvere.

A metà degli anni ’80, quando a causa di una malattia agli occhi, per un certo periodo non riesce a fotografare, contatta i fotografi di cui ha più stima e propone loro di fare un libro insieme. Nessuna fotografia, ma lunghe interviste. È la prima volta che un libro raccoglie i dialoghi di un fotografo con un altro fotografo, e in queste conversazioni con Helmut Newton, Robert Doisneau, Josef Koudelka e Don McCullin tra gli altri, escono fuori cose che un critico o un giornalista non avrebbe saputo cogliere. Con Eva Rubinstein si soffermano a lungo sul fatto che l’occhio destro sia dominante, per cui fotografare, e quindi raccontare il mondo, con l’occhio destro o con quello sinistro, può fare una grande differenza. L’unico italiano presente nella raccolta è Mario Giacomelli, di cui Horvat aveva immensa stima, e rimpiangeva di averlo incontrato una sola volta a Senigallia. Qualche anno fa, nella casa parigina di Boulogne-Billancourt, un giornalista americano del New Yorker visitando la sua collezione privata di fotografie del ‘900, gli domandò quali stampe avrebbe salvato, in caso di incendio. Horvat indicò tre fotografie della serie dell’ospizio di Mario Giacomelli.

Ma è con la tecnologia che Frank Horvat si è sempre divertito. Negli anni ’90 è tra i primi fotografi, sicuramente il primo tra i classici, ad acquistare Photoshop, a ritoccare e ad attrarre le critiche dei seguaci di Cartier-Bresson, oltre che di HCB stesso. «Lavoro moltissimo in post-produzione», spiegava, di fronte alle scrivanie piene di Mac accesi, «In post-produzione cerco di ritrovare quello che mi aveva interessato quando ho scattato la foto, cerco di accentuare ciò che mi ha fatto scattare la fotografia». D’altra parte, la fotografia era diventata sempre più la ricerca di un punto di interesse personale: ciò che mi interessa. Da anni non si staccava da una piccola macchina fotografica compatta che teneva sempre in tasca, usciva nel bosco di Cotignac e fotografava i rami dei ciliegi. «Vedi», diceva, «Non c’è differenza tra i miei alberi e quelli del vicino, ma a me interessa fotografare i miei ciliegi, perché questi sono i miei». Poi sono arrivati gli iPad e l’applicazione Horvatland: un labirinto tecnologico a cui ha dedicato più di due anni per pensarne l’architettura, un ambiente digitale nel quale ha riversato 2000 fotografie, tra personali, commerciali e storiche. Un’app pensata per parole chiave, come le sue ultime esposizioni della serie “House with Fifteen Keys” perché «all’osservatore devi offrire un punto di partenza, poi proseguirà da solo, ma una parola chiave da cui partire è sempre necessaria».

Le parole, la loro esattezza ricercata in tutte le lingue possibili come fossero strumenti per relazionarsi col mondo, sono sempre state la passione di Frank Horvat. Quando nel 2015 realizzò un lavoro sullo scultore Aristide Maillol, oltre alla fotografie, Horvat scrisse anche le brevi didascalie. L’editore Gallimard si complimentò per quei testi, e questa fu la cosa che lo rese davvero felice. Le parole e le immagini servono a creare connessioni che non si vedono ad occhio nudo, a immergersi in labirinti che possano sorprendere. Quando sono arrivati i social, per qualche anno, ogni giorno, ha pubblicato su Facebook un dittico: passava le giornate a cercare in archivio due fotografie che potessero dialogare tra loro e dar vita ad una storia, inaspettata, mai immaginata prima. Il suo lavoro era fornire un punto, uno spunto, da cui partire, poi ogni cosa avrebbe preso la propria strada. È questo che ha fatto di Frank Horvat un grande autore classico.

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