Attualità

Woody Allen deve smettere di fare film?

Amazon ha deciso di non distribuire l'ultimo lavoro del regista in seguito alle nuove accuse della figlia, da cui era stato scagionato più di vent'anni fa.

di Mattia Carzaniga

C’era rimasta un’unica certezza nella vita: che ogni anno avremmo avuto, puntuale, il nostro film di Woody Allen. Col tempo avevamo accettato pure il fatto che, a interrompere questa beata consuetudine, sarebbe sopraggiunta solo la morte: dello stesso Woody Allen. Invece no. Lui, a ottantadue anni, pare vispo e prolifico come sempre. Ma quell’unica certezza ce la vogliono comunque levare. Amazon Studios, che ha prodotto i suoi ultimi film (Café Society, La ruota delle meraviglie) e la sua prima e ultima serie (Crisis in Six Scenes), avrebbe deciso di non distribuire il prossimo titolo del regista. E cioè A Rainy Day in New York, ora in fase di post-produzione. Il motivo è questo: Woody Allen è reo di aver abusato sessualmente della figlia adottiva Dylan ventisei anni fa, nella casa di campagna del Connecticut di proprietà dell’ex compagna Mia Farrow. All’epoca la bambina aveva appena compiuto sette anni.

Un passo indietro, sintetizzando e semplificando. La perizia che ha seguito l’accusa di Farrow ha scagionato Allen da ogni accusa. Eric Lax, che ha intervistato Allen più volte nel corso degli ultimi trent’anni, ripercorre la vicenda nel saggio Woody Allen dall’inizio alla fine, pubblicato da poco anche in Italia (Utet) e dedicato alla lavorazione del recente Irrational Man (2015). Il regista era al lavoro su quel set quando, sul New York Times, uscì la lettera di Dylan con il j’accuse rinfrescato per i millennial. Scrive Lax a proposito del procedimento legale di allora: «Si giunse a un resoconto formale nel marzo 1993. Stando al rapporto redatto dalla Child Sexual Abuse Clinic, erano stati condotti nove colloqui con Dylan, da sola, a cavallo tra il 18 settembre e il 13 novembre 1992. […] La conclusione degli esperti era la seguente: “È nostra opinione che Dylan non sia stata abusata sessualmente dal signor Allen”. Ecco alcuni passaggi del rapporto: “Le dichiarazioni rese da Dylan presentavano discrepanze significative”, […] “Le sue dichiarazioni erano prive di spontaneità, e davano l’impressione di essere state, in una certa misura, recitate”. […] La valutazione espressa dalla Child Sexual Abuse Clinic si basava su numerosi colloqui approfonditi con tutte le parti in causa, e la pubblica accusa dello stato del Connecticut decise di non incriminare Woody».

Woody Allen and Mia Farrow

Altri due ragazzi del clan Farrow sono al centro del caso. Uno è Moses, figlio adottivo di origini coreane, oggi ha trentanove anni e ha preso le distanze dalla madre. Ha raccontato i tentativi di manipolazione, le violenze psicologiche e i ricatti operati da Mia Farrow fin da quando era piccolo. Lax riporta un antefatto: «Nel 1993, durante la causa per l’affidamento, una persona che frequentava spesso casa Farrow trovò Dylan in lacrime. Il racconto che segue è stato confermato da un altro visitatore abituale. “Dylan mi ha chiesto: ‘È giusto dire le bugie?’. Sentiva di non volerlo fare, e si domandava cosa ne avrebbe pensato Dio. Desiderava una bambola della linea Attic Kids, però Mia gliel’aveva proibita. Pochi giorno dopo Dylan avrebbe dovuto incontrare una persona coinvolta nella causa per l’affidamento. Diceva: ‘La mamma vuole farmi dire una cosa, ma io non voglio’. Una settimana più tardi, Dylan aveva una bambola Attic Kids, con un vestitino giallo. ‘Cos’è successo?’, le ho chiesto. E lei: ‘Ho fatto quello che voleva la mamma’”». Segue la reazione di Moses, così descritta da Lax: «Moses non è affatto sorpreso dall’episodio. “Di questo posso parlare con sicurezza. Mia era molto abile e molto determinata a manipolare i figli perché eseguissero i suoi ordini, però, d’altro canto, viveva con la paura costante che si venissero a scoprire i suoi abusi segreti, e che andasse in frantumi la reputazione che si era costruita: quella di una madre affettuosa che aveva adottato uno stuolo di bambini e bambine da tutto il mondo. Ero terrorizzato al pensiero che io e i miei fratelli potessimo venire rifiutati – anzi, scomunicati – da lei e dal resto della famiglia”».

L’altro “non protagonista” (da Oscar, va detto) è Ronan, figlio biologico di Woody e Mia nato nel 1987. Ronan Farrow è colui che, insieme alla madre, ha convinto più di tutti Dylan a tornare sul presunto fattaccio. In un’infuocata session di post su Twitter durante la notte dei Golden Globe del 2014, polemizzò insieme alla madre a proposito dell’omaggio a Woody Allen avvenuto su quel palcoscenico. Fu in quel momento che pure il grande pubblico cominciò a familiarizzare con lui. Nel 2017, è stato l’autore del pezzo del New Yorker che metteva definitivamente all’angolo Harvey Weinstein. Probabilmente vincerà il premio Pulitzer. Intanto si è ritrovato ad essere uno dei portavoce indiretti della causa #MeToo.

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Si torna alle cronache correnti. Siamo fieri di definirci garantisti, salvo nei momenti buoni. Time’s Up – e movimentismo affine – ha emesso il suo verdetto: Woody Allen è colpevole. E ha schierato i suoi testimonial nella ferocissima campagna di pubblico linciaggio. Rebecca Hall, nel cast del nuovo film, ha annunciato che devolverà il suo cachet (sindacale, come da tradizione alleniana: pochi spicci) alla causa femminista. Lo stesso farà Timothée Chalamet, che ci stava simpaticissimo dopo Chiamami col tuo nome, cercheremo di perdonargli presto questo – si spera – peccato di gioventù. Selena Gomez non ha ancora diramato comunicati ufficiali, ma nel frattempo sua madre ha risposto ad alcuni commenti su Instagram: «Le ho detto di non lavorare con lui, ma mia figlia fa sempre di testa sua». Anche gli attori dei Natali passati si sono fatti vivi. Mira Sorvino, tra le vittime di Weinstein, già che c’era ha disconosciuto pure il regista che le ha fatto vincere l’Oscar per La dea dell’amore. Greta Gerwig si è dichiarata pentita di aver lavorato con Woody: fossi stato in lei, mi sarei pentito per averlo fatto nel suo film peggiore, To Rome with Love. Reese Witherspoon (mai diretta da Allen) e Natalie Portman (una particina a quindici anni in Tutti dicono I Love You) si sono scagliate contro il regista nel corso di un’intervista con Oprah Winfrey. Perché succede tutto questo? Perché “bisogna”. “Si deve fare così”. Non c’è giustizia, processo, pensiero critico che tenga. Se “chi sta dalla parte giusta” ha stabilito che Woody è un mostro, è meglio dissociarsi in tempo. Io intanto prendo le distanze, poi vediamo che succede.

È una battaglia culturale, politica, antropologica. Sembra che l’Europa – dove, guarda caso, i film di Allen hanno sempre incassato di più – sia più disposta a pensare, valutare, aspettare. E che, al tempo stesso, sia ormai investita da questa ondata di ingenuo revanscismo all’americana. Facciamo fuori i mostri, facciamoli fuori tutti. Anche quando non siamo sicuri al cento per cento che lo siano. L’obiezione di chi accusa è sempre la stessa: è troppo facile appigliarsi al solito – appunto – garantismo. Il problema è che, almeno in questo caso, i provvedimenti giudiziari ci sono stati. Una sentenza c’è stata. Oggi sembra non bastare nemmeno quello. Il rischio è altissimo. #MeToo, Time’s Up, marce, vestiti neri, rose bianche, insomma tutto ciò che rappresenta una buonissima e giustissima occasione per invertire il corso maschilista del mondo si sta trasformando in una forca aperta 24/7, che non tiene conto delle differenze, che non opera secondo i parametri di quella giustizia che va promulgando. (Altra obiezione: a patto che Woody sia davvero colpevole di abusi sessuali nei confronti di Dylan, che c’azzecca una violenza privata con la sacrosanta battaglia per l’equità tra i sessi?).

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C’è poi il fattore Soon-Yi. A Mia Farrow, e a gran parte dell’opinione pubblica, non è mai andata giù la storia (cominciata nel 1991: le date sono importanti) di Woody Allen con la figlia adottiva dell’ex compagna, né tantomeno il loro successivo matrimonio. Il cognome di Soon-Yi è Previn, vale a dire quello del famoso André, il compositore e direttore d’orchestra con cui Farrow l’ha adottata nel 1978. Woody Allen formalmente non è mai stato padre della ragazza. Tutti possiamo comprendere la rabbia e la vendetta di un’ex ferita, per giunta così romanzescamente. Tutti conveniamo sul fatto che l’amore tra un (allora) cinquantaseienne e la figlia adottiva ventunenne della quasi-ex compagna sia borderline. Ma quante delle vostre relazioni lo sono state o lo sono ancora? Quante di quelle dei vostri amici, parenti, colleghi lo sono state o lo sono ancora? Sareste disposti a togliere il lavoro a qualcuno solo perché giudicate il suo matrimonio inopportuno, sbagliato, anche solo antiestetico?

L’ultima ragione, che va ad ingrossare lo storytelling del “mostro”, è la trama di A Rainy Day in New York., dove un produttore quarantenne (Jude Law) finisce nei casini per colpa della relazione con un’attrice quasi ventenne (Elle Fanning). Oltre ad adombrare la passione di Woody per le ragazzine (lo dicono i suoi stessi diari: è un orco!), ricorda da vicino I Love You, Daddy, il film bello e mai uscito di Louis C.K. Mai uscito perché il suo autore è finito anche lui nelle liste nere dei molestatori. Racconta di un padre (lo stesso Louis C.K.) alle prese con una figlia diciassettenne (Chloë Grace Moretz) femminista “perché fa figo” che s’invaghisce di un regista quasi settantenne (John Malkovich). Siamo sicuri che chi mette sul piatto queste storie lo faccia apposta per farsi beccare?

 

Foto Getty (Woody Allen e Mia Farrow, Ronan Farrow, Woody Allen e Soon-Yi)