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Grazie all’accordo tra Netflix e la Nasa ora si potrà fare binge watching anche dell’esplorazione spaziale Il servizio di streaming trasmetterà in diretta tutta la stagione dei lanci spaziali, comprese le passeggiate nello spazio degli astronauti.
Gli asini non sono affatto stupidi e se hanno questa reputazione è per colpa del classismo Diverse ricerche hanno ormai stabilito che sono intelligenti quanto i cavalli, la loro cattiva fama ha a che vedere con l'associazione alle classi sociali più umili.
In Turchia ci sono proteste e arresti per una vignetta su Maometto pubblicata da un giornale satirico Almeno, secondo le autorità e i manifestanti la vignetta ritrarrebbe il profeta, ma il direttore del giornale ha spiegato che non è affatto così.
Una delle band più popolari su Spotify nell’ultimo mese è un gruppo psych rock generato dall’AI Trecentomila ascoltatori mensili per i Velvet Sundown, che fanno canzoni abbastanza brutte e soprattutto non esistono davvero.
A Bologna hanno istituito dei “rifugi climatici” per aiutare le persone ad affrontare il caldo E a Napoli un ospedale ha organizzato percorsi dedicati ai ricoveri per colpi di calore. La crisi climatica è una problema amministrativo e sanitario, ormai.
Tra i contenuti speciali del vinile di Virgin c’è anche una foto del pube di Lorde Almeno, secondo le più accreditate teorie elaborate sui social sarebbe il suo e la fotografia l'avrebbe scattata Talia Chetrit.
Con dei cori pro Palestina e contro l’IDF, i Bob Vylan hanno scatenato una delle peggiori shitstorm della storia di Glastonbury Accusati di hate speech da Starmer, licenziati dalla loro agenzia, cancellati da Bbc: tre giorni piuttosto intensi, per il duo.

Vita di Pi

Il film, il libro, ovvero una storia sull'importanza di raccontarsi e raccontare storie. Il linguaggio cinematografico prima del cinema.

07 Gennaio 2013

*** Avvertimento: qui sotto parliamo di “finali” (principalmente, di “Vita di Pi”), ma potete andare avanti a leggere senza pericolo. Lo spoiler alert arriva al momento giusto. ***

C’è un linguaggio cinematografico – un certo linguaggio cinematografico – che apparteneva alla letteratura molto prima che il cinema fosse inventato. I professori delle medie, per esempio, ci hanno insegnato che già I Promessi Sposi si apriva con uno zoom-in. Un’ampia inquadratura dall’alto (Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…), che gradualmente restringe il campo (Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette…), fino a portarci allo specifico, al qui e ora della prima scena (Per una di queste stradicciole tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio…). Azione.

Poi ci sono i libri che si concludono con uno zoom-out. Il campo si allarga, più o meno dolcemente, si allontana dal protagonista, abbandona il set della narrazione e – se l’autore ha una fortuna e una capacità tali da stabilire la giusta chimica con il lettore – lascia l’osservatore con una sensazione di pienezza e, contemporaneamente, di un vuoto tollerabile, con l’impressione che la vicenda raccontata, per piccola o grande che sia, abbia un significato più ampio. O, se non altro, che abbia un significato tout court (che di questi tempi è già molto).

Nella mia esperienza di lettrice lo zoom-out è un commiato alla storia e ai suoi personaggi, ma è anche un’elaborazione, più o meno preventiva, del lutto. Che in alcuni casi può coincidere con un, più o meno salutare, pugno nello stomaco.

Un esempio: L’Ultimo dei Giusti di André Schwarz-Bart (a mio modesto avviso una delle più belle opere letterarie mai scritte sullo sterminio nazista), che pure è un romanzo incentrato su una singolarissima esperienza umana, si conclude con una macro-panoramica sopra le ciminiere di Auschwitz. Cui segue, quasi a mettere nero su bianco che lo story-telling si ferma qui, un appello diretto al lettore: «Perché il fumo che sale dai forni crematori obbedisce come ogni altro fumo alle leggi fisiche: le particelle s’accumulano e si disperdono al vento che le sospinge. L’unico pellegrinaggio possibile sarebbe, stimato lettore, contemplare di tanto in tanto con malinconia un cielo di temporale». Caro lettore, le nostre strade si dividono, ti saluto con una lacrima ed un bacio, e già che ci sono ti tiro anche un cazzotto bene assestato perché, bada-boom!, questo è il momento in cui la realtà bussa alla porta.

Il più delle volte, la realtà non è molto digeribile.

*** Qui comincia la sezione dei quasi-spoiler. Nel senso che non anticipo nulla della trama, ma se proprio vi scervellate, qualcosa potete intuire ***

Quando ho visto Vita di Pi, il film di Ang Lee, sono andata al cinema con in testa una domanda ben precisa: avranno cambiato il finale, rispetto al libro? E, se non l’hanno cambiato, come lo avranno reso? Ai miei occhi questa domanda era più importante dell’idea in sé di vedere il film, di cui (stupidamente) non m’importava più di tanto.

Normalmente non sono una di quelli che il-film-è-sempre-peggio-del-libro (una litania che non regge più da quando Paul Newman ha tirato fuori un film quasi guardabile da un illeggibilissimo romanzo come Exodus, cioè da prima che i miei genitori nascessero), solo che il trailer non mi aveva convinto più di tanto, e la locandina mi era parsa una tamarrata pazzesca. Anche al netto del nome, dico: Ang Lee?

Eppure, spinta dalla curiosità sul finale, al cinema ci sono andata. Non solo: onde non perdermi l’esperienza del 3D sono pure andata in uno di quei multisala fuori città, quelli dove ti vendono i pop-corn super size e le caramelle gommose, e mi sono pure messa gli occhialoni mono-taglia che ti fanno sembrare il nonnetto dei Soprano. Per una fortuita coincidenza, ero con l’amica cui avevo prestato il romanzo di Yann Martel (e che me l’aveva restituito con almeno sei anni di ritardo). Anche lei era venuta per la stessa ragione: voleva sapere come avrebbero reso il finale.

*** Ecco, qui cominciano gli spoiler pesanti. Proseguite a vostro rischio e pericolo.***

Il finale è uguale al libro.

Si scopre che la storia è tutta un’allegoria, una metafora, una specie di trip d’acido dovuto al troppo sole, alla disperazione, alla necessità di elaborare il trauma, il vissuto, la realtà-che-non-si-può-digerire in qualche modo.

Non c’erano nessuna zebra, nessuna iena, nessun orango buono. C’erano un marinaio ferito, una donna sopraffatta, un mostro con le sembianze di Gerard Depardieu. C’erano il mare, la sete, il sangue. Non c’era nessuna tigre con il nome buffo di un esploratore distratto – anzi no, la tigre c’era, ma era dentro di lui, il protagonista, che per sopravvivere ha dovuto prima di tutto scoprire la belva che era in sé, e poi imparare a domarla, obbligarla a restare sottocoperta come si fa con un animale feroce che vuole sbranarci (molto freudiano) e infine convivere con il fatto che quell’animale c’è/c’è stato (ok, un po’ troppo freudiano). E quella belva l’ha salvato.

Alla fine i burocrati giapponesi che stenderanno il rapporto – due tizi sbrigativi, annoiati, ma pur sempre umani – decidono che la storia della tigre, della zebra e dell’orango è più convincente, rispetto alla versione di un ciccione cannibale. Compilano il modulo e vanno a pranzo.

In Theory of Film Seigried Kracauer paragona il cinema al mito di Perseo e Medusa. Così come l’eroe può vedere il mostro soltanto attraverso l’immagine riflessa (una visione diretta lo tramuterebbe in statua) il cinema permette agli spettatori di osservare, attraverso il loro riflesso, orrori tanto grandi che, se incontrati in modo più diretto, li lascerebbero pietrificati.

Vita di Pi non è un film (o un libro) sulla fede, sulla volontà di vita, sulla condizione umana in balìa degli elementi, e nemmeno sui mostri che sono dentro di noi e che ci perseguitano. È prima di tutto una storia sull’importanza di raccontare e raccontarci delle storie, la narrazione si gioca tutta sulla tensione tra realtà-che-non-può-essere-digerita e quegli strumenti, meravigliosi e terribili, che servono per digerirla.

Tecnicamente, il film di Ang Lee non si conclude con uno zoom-out, cosa che invece accade nel romanzo di Yann Martel. Ma il sottotesto è lo stesso: caro lettore/spettatore, adesso ci separiamo, ti do un assaggio della realtà, ma soltanto un assaggio. Perché tu possa aggrapparti, con ogni briciola del tuo corpo, alla mia storia.

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