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Vincino e il flusso d’incoscienza

Intervista all'autore di Mi chiamavano Togliatti… 128 pagine di testi e disegni in cui il vignettista racconta la sua vita.

di Luca D'Ammando

Le vignette sono tratte da "Mi chiamavano Togliatti…" (Utet), l'ultimo libro di Vincino

Populista, ballista, spaccone, aristocratico, fumato, estremista. Questo è Vincino secondo Giuliano Ferrara, l’uomo che nel mondo del giornalismo lo conosce meglio di tutti. Il direttore che se lo portò al Foglio con sé ventidue anni fa perché, in realtà, «altri fanno satira. Lui ha fatto stile». Ora Vincenzo Gallo – 72 anni, palermitano, architetto mancato, vignettista passato dall’Ora a Lotta Continua, dal Male al Corriere della Sera – ha deciso di raccontare la sua vita in Mi chiamavano Togliatti… (Utet). Centoventotto pagine di disegni e testi, un «flusso d’incoscienza» che va dalle lotte politiche nella Palermo di Ciancimino ai soggiorni in carcere, dalla cena al Quirinale con Pertini al pornofotoromanzo con Cicciolina.

ⓢ Vincino, perché l’hai fatto?
Avevo quarant’anni di ritagli e un po’ di storie da raccontare. Pensavo di fare un libro solo di disegni, poi si sono aggiunte le parole.

ⓢ Partiamo dal presente, com’è la giornata da vignettista?
Non ho giornate tipo, disegno o faccio schizzi quando capita, dovunque sono, poi nel pomeriggio scansiono i disegni e li mando al Foglio.

ⓢ Disegni a matita?
Ogni tanto, spesso disegno direttamente a pennarello. D’altra parte ho imparato da subito a disegnare sul momento, direttamente col pennarello.

ⓢ Primi disegni pubblicati su un giornale?
Su L’Ora di Vittorio Nisticò, nel 1971. Seguii in tribunale il processo di viale Lazio, tra i più cruenti regolamenti di conti tra mafiosi. Prendevo appunti del volto dei personaggi, piccoli malavitosi. I disegni che ne uscivano non erano mai né solo ritratto né solo caricatura. Io ero giovane, avevo paura, c’erano i familiari che inveivano e gli imputati che minacciavano. Molti anni dopo si scoprirà che i veri responsabili della strage erano Riina e Provenzano.

ⓢ E il primo contatto con il mondo della politica romana?
Nel 1973, quando mi chiamarono a Lotta continua. Lì cominciai ad andare in Parlamento tutti i giorni.

ⓢ Tutti i giorni?
Per capire i politici bisogna vederli dal vivo, da vicino: le gambe storte, la pancetta, i capelli.

ⓢ A un certo punto ti hanno anche ritirato l’accredito.
Sì, l’associazione stampa parlamentare era furibonda perché vedevo e ritraevo i piccoli traffici quotidiani, i lobbisti e gli accordi sottobanco. Comunque per un anno ho continuato a entrare senza problemi, con un permesso per il pubblico, quando se ne sono accorti è scoppiato il casino: Nilde Iotti mi fece venire a prendere dai commessi, i radicali si misero a urlare in mia difesa.

ⓢ E oggi vai ancora in Parlamento?
Raramente, ogni tanto. Forse mi sento meno attratto da Montecitorio e da Palazzo Madama perché le decisioni politiche non si prendono più lì. Ma è dai tempi di Berlusconi che i palazzi del potere hanno perso la loro centralità, i destini di un governo si decidono altrove.

ⓢ Forse trovi meno interessante ritrarre questa classe politica.
Non lo so. È vero che i politici della Prima Repubblica avevano un altro spessore, ma io vado alla ricerca delle miserie umane e quelle miserie ci sono oggi come allora. E il mio lavoro è farle emergere, far emergere i contrasti, le contraddizioni. Certo rimpiago i Craxi, gli Andreotti.

ⓢ Di Andreotti ai tempi del Male realizzaste anche un busto in marmo.
La redazione del Male assegnò il Primo Premio Planetario dell’Umorismo Nero ad Andreotti e organizzammo una cerimonia nei giardini del Pincio, dove collocammo il busto in marmo. Mentre Roberto Benigni teneva il discorso celebrativo arrivò la polizia. Arrestarono il busto, rimase sei mesi in questura.

ⓢ A proposito, che fine ha fatto il busto di Andreotti?
Ce l’ho io a casa, in giardino.

ⓢ Ma come ha fatto uno che veniva dal Male a finire a disegnare anche sul Corriere della Sera?
Ho disegnato per il Corriere esattamente per 23 anni. Non ho mai avuto grossi problemi né mi sono mai lamentato. Qualche volta la mia vignetta saltava e mi spiegavano che era entrata una pubblicità all’ultimo momento, ma non me la sono mia presa. Mi pubblicavano tre vignette al giorno, e io ho imparato a mandargliene cinque-sei, così potevano scegliere. Certo, al Corriere i miei disegni sono sempre stati nelle pagine interne, e questo mi ha dato maggiore libertà.

ⓢ Come hai iniziato al Corriere?
Il direttore di allora, Ugo Stille, pensò di mettere a pagina tre degli editoriali, in stile anglosassone, in mezzo ai quali inserire una vignetta. Ed ecco che io sono comparso a pagina tre. Poi i miei disegni sono finiti anche nelle pagine più interne, nello spazio dei commenti, ma mai in prima pagina».

ⓢ Non sei il disegnatore giusto per la prima pagina del Corriere?
Io credo che una delle principali qualità del disegnatore deve essere quella di non seguire la linea del giornale. Un disegnatore non deve mai coccolare le scelte o gli editoriali del direttore. Per questo mi piaceva moltissimo Forattini quando in prima pagina su Repubblica andava controtendenza rispetto alla linea di Scalfari. Purtroppo per permettere a un disegnatore di esprimersi con questa libertà occorre essere illuminati, avere molta intelligenza.

ⓢ Altre qualità richieste a un disegnatore?
Deve saper analizzare, smontare e rimontare la politica. Andare al di là delle analisi scontate e  del vuoto dibattito politico.

ⓢ Tornando al tema della libertà, al Foglio problemi del genere non ne hai mai avuti mi sembra.
Il Foglio è una storia a parte, un legame particolare. Lì sono sempre stato libero di disegnare quello che ritenevo giusto.

ⓢ Ti sei permesso anche di ironizzare sulla campagna anti-aborto del direttore Ferrara.
Certo, e le mie posizioni così in antitesi sono sempre state utili al Foglio, anche per fornire una voce differente, stonata, rispetto alle campagne che ciclicamente animano il giornale. Non c’è cosa più sana dello scazzo, del dubbio.

ⓢ Inscenaste anche un finto licenziamento.
Sì, nel 2002, quando Giuliano lanciò la campagna per boicottare Benigni, ospite a Sanremo, chiamata Bo.Be, “Boicottare Benigni”. Io, al contrario, ero assolutamente con Benigni e realizzai alcune vignette dove proclamo il mio Bo.Bo.Be., “Boicottare il Boicotta Benigni”. Ferrara mi chiamò e mi propose di licenziarmi per finta. Annunciò la cosa, si creò un caso, mi arrivarono attestati di solidarietà. La trovata ebbe successo, il Foglio si trovò a vendere di più. Giuliano è uno dei pochi che sa giocare con il vero e con il falso.

ⓢ Il sottotitolo della tua autobiografia disegnata recita «Tomo I° (abbiate fede)».
Sì, perché in questo libro ho raccontato solo una parte della mia vita, di quello che mi è accaduto. Voglio darmi la possibilità di recuperare anche altre storie, oltre al fatto che ho intenzione di fare ancora molto altro.

ⓢ E qual è la cosa che ancora non hai fatto e che vorresti fare più di tutte?
Un film, la regia di un film. Negli anni ho avuto diverse idee, ma le idee sono nell’aria, vanno prese al volo, altrimenti le prende qualcun altro.