Attualità

Il realismo allucinogeno di The Terror

Una delle più misteriose vicende nella storia delle esplorazioni è al centro della serie prodotta da Ridley Scott, adesso disponibile su Amazon: ecco i motivi per guardarla.

di Matteo Codignola

Oggi è piuttosto difficile farsi un’idea anche vaga di cosa sia stata, per l’Inghilterra del secondo Ottocento, l’epopea di John Franklin, a meno di non prendere la devozione fanatica per una delle serie leggendarie di questi anni (Lost, mettiamo, data la contiguità tematica) e moltiplicarla per un fattore inimmaginabile di volte. I fatti, prima di tutto. Di tutti i ragazzi di Barrow – il potentissimo Secondo Lord dell’Ammiragliato, la cui unica ragion di vita era trovare il Passaggio a Nordovest, che lui chiamava: «That chilly way to China» – Franklin si presentava  come il meno sexy. Non era un dandy dell’Artico come Parry, un bellone come i Ross zio e nipote, e neppure un rude comandante di baleniere come Scoresby. No, «il viaggiator contento» era un omone amabile e in apparenza innocuo, molto devoto (al Creatore e a Lady Franklin, non necessariamente in quest’ordine) e limitato negli spostamenti vuoi dalla mole, vuoi da una serie di acciacchi, vuoi, ahimé, dai piedi piatti. Eppure. Eppure, nel 1819 e ovviamente su istigazione di Barrow, aveva cercato il Passaggio a piedi, affrontando un viaggio drammatico e sofferenze indicibili, e diventando, senza affatto volerlo, un eroe popolare. Per molte ragioni, non ultima una scelta alimentare: mentre alcuni suoi compagni, a quanto pare, si erano assaggiati a vicenda, lui si era attenuto a una dieta di muschi e poco altro, guadagnandosi sul campo il secondo soprannome, quello più duraturo: «L’uomo che si è mangiato gli stivali».

Bene, venticinque anni dopo quest’impresa – e un infelice intermezzo da governatore della Tasmania, più un’ingloriosa ma comunque monumentale incursione in Antartide – Franklin si vide affidare la più ricca e meglio armata delle grandi spedizioni di Barrow. Molti più mezzi delle precedenti, e anziché una nave principale, più una bagnarola d’appoggio, due imponenti ammiraglie gemelle, riarmate per l’occasione: l’Erebus e il Terror. Le quali furono avvistate per l’ultima volta il 14 luglio 1845 da una flotta di baleniere all’imboccatura del Canale di Lancaster, e poi inghiottite dal bianco feroce dell’Artico. Da quel momento in poi di Franklin, dei suoi 133 uomini, e delle due navi non si è più saputo nulla. Negli anni, il ghiaccio ha restituito, a distanze enormi, qualche effetto personale, qualche osso, tre corpi, una scialuppa: nessuna spiegazione plausibile, però. Quindi, infinite congetture, di cui quella di Dan Simmons non è, necessariamente, la più fantasiosa.

Nel suo romanzo, The Terror, Simmons immagina che l’Erebus e il Terror siano rimaste imprigionate nei ghiacci per tre inverni consecutivi, ma che a decretare la morte degli equipaggi non siano state tanto le condizioni estreme o le malattie (anche), quanto il disturbo arrecato, dai soliti buzzurri bianchi, a una terribile creatura locale, il Tuunbaq: che se ne stava relativamente buono affidato alla devozione sapienziale degli sciamani inuit, finché non erano arrivati i buzzurri.

Ora, avendo tradotto l’anno scorso un magnifico libro su tutte queste storie, I ragazzi di Barrow, e avendo letto a riguardo qualche biblioteca, mi sono accostato alla serie basata sul romanzo di Simmons, prodotta da Ridley Scott per Amc e ora disponibile su Amazon Prime, nel più diffidente e malevolo degli umori possibili verso tutti e tutto, a cominciare ovviamente dal Tuunbaq: ma quella che segue è la breve storia di una conversione pressoché istantanea. Nella sequenza d’apertura, Erebus e Terror avanzano una dietro l’altra in un mare che si sta solidificando, riprese dall’alto come la Surprise e l’Acheron di Master & Commander, e la scappellata (splendida, visivamente) a Peter Weir continua a bordo, dove i marinai salutano gli ufficiali col pugnetto chiuso come solo lì si era visto fare. Ma l’intrico di ammicchi, riferimenti e citazioni al cinema e alla letteratura di mare, poi a quella di esplorazione, è talmente fitto che meglio lasciarlo dipanare al singolo spettatore, sempre che abbia tempo e voglia di dedicarcisi. Dubito, perché fin da subito chi guarda finisce chiuso nello stesso mondo asfittico e senza luce che gli uomini sono costretti ad abitare, e pensa che forse nemmeno lui ne uscirà più; o, nei momenti di cedimento, che il Tuunbaq verrà a artigliare anche lui, nella sua cuccetta, cioè nel suo letto, (crediateci o no, è un film che tende a insinuarsi nei sogni, dei quali peraltro ha l’andamento). Attenzione però, The Terror non ha niente di sperimentale, o anche solo di nuovo. Al contrario, per molti versi è un film classico, ma si distacca dalle decine di serie che siamo costretti a vedere per due ragioni, entrambe essenziali.

La prima è l’uso del tempo. Personalmente, reagisco molto male alla presunta estetica delle serie, specie quando mi sento spiegare che la forma dà modo a chi scrive e chi gira di esplodere personaggi e situazioni che in novanta o cento minuti soffocherebbero. Balle. Nella maggior parte dei casi, spalmare una storia in dieci episodi da un’ora, spesso diluendola fino allo strazio, serve solo a vendere dieci ore di televisione e riempire il palinsesto, agganciando gli spettatori a un meccanismo arcaico quanto il feuilleton, per non risalire più indietro. Questo come regola però, poi ci sono le eccezioni, e The Terror è una. Qui serviva tempo per raccontare il tempo, e soprattutto il tempo immobile, allucinogeno e omicida dell’Artico. Potete leggere quanto vi pare cosa significasse passare interi inverni nella banchisa, con nove mesi di buio l’anno, e come quella specie di notte o crepuscolo permanente fosse la migliore approssimazione possibile alla follìa: qui, per puntate intere, lo vedete, e lo sentite, quasi fisicamente.

La seconda singolarità della serie è il suo taglio narrativo quantomeno ardito, cioè la scommessa di riuscire a far convivere il massimo di improbabilità con un livello di realismo maniacale, se non delirante. Diciamolo, il Tuunbaq non si può guardare: è una specie di orsone gigante, e con quella capoccia somiglia terribilmente a Falkor, il dragone buono della Storia Infinita. Speri per tutto il tempo che ululi in lontananza senza mostrarsi – spoiler, è spesso fra i piedi, con gli artiglioni sguainati – quando i personaggi ne parlano orrificati fai mentalmente uauaua pur di non sentire, e mai una volta capisci che bisogno avesse una storia di per sé magnifica, e magnificamente raccontata, di una fesseria del genere. Ma il bello, e anche lo strano, è proprio qui. Mentre l’orsone incombe, ufficiali e marinai vivono una vicenda molto vicina a quella che, probabilmente, hanno vissuto. Con pochissime licenze – Franklin non ha la morbidezza per cui andava famoso, ad esempio, e Crozier, il comandante del Terror che via via diventa il vero protagonista, era un  duro, ma non alzava il gomito oltre la norma – il racconto ha una fedeltà impressionante non solo al poco che si sa della vicenda, ma al molto che si sa dei viaggi polari, e della vita di bordo centocinquant’anni fa. Franklin e i suoi sono davvero morti, probabilmente, di botulismo; il cannibalismo, perlomeno sui cadaveri, ha davvero accompagnato come un’ombra molto nera il ritorno miracoloso di vari sopravvissuti dalle spedizioni artiche; gli inuit si tagliavano davvero via il tagliabile senza problemi, tanto che una volta, scoperte la gamba di legno di un marinaio di Ross il Vecchio, che trovavano splendida, si erano presentati al carpentiere di bordo coi loro bei moncherini freschi, ordinandone di uguali: e l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Al senso di realtà contribuiscono attori a dir poco sensazionali, tutti, anche se Jared Harris (Crozier) meriterebbe cinque o sei statuette fuse in una, credibili al punto che dopo qualche minuto ci si convince che quanto indossano, bevono, mangiano, usano, se lo sono portati, se non da casa, dalla nave di famiglia; e per rimanere alle statuette, quelle per tradizione sommariamente attribuite a scene, costumi e così via andrebbero suddivise: una per lo stoviglie, una per il sartiame, una per i bottoni delle giubbe, e così via. E uno dei risultati di queste dieci ore nelle profondità dello stretto ghiacciato di Lancaster, forse il più stupefacente, è l’immediata comprensione non solo di cosa significasse trascinare sulle pietre un’enorme scialuppa carica di provviste per centinaia di miglia, ma di che cosa parlino, veramente, Gordon Pym, La linea d’ombra, o White Jacket.

Lo stesso scrupolo maniacale ha investito la ricostruzione del mondo inuit, compreso il versante sciamanico, e sul set si è a lungo discusso se il Tuunbaq così come è stato ricostruito avesse davvero le fattezze ibride che le tradizioni locali attribuiscono agli esseri in bilico fra due mondi. Gli inuit interpellati – compresi gli attori, a cominciare da Neve Nielsen la splendida Lady Silence, che pur avendo dieci battute ha voluto pronunciarle nel dialetto dell’area – ne sono stati entusiasti, quindi non infierisco. Un po’ per rispetto, e un po’ per evitare che il sarcasmo mi si ritorca contro, come potrebbe accadere. Per centocinquant’anni, gli occidentali hanno cercato di capire cosa fosse successo a Franklin, senza in realtà mai riuscirci. Come il film racconta, Lady Franklin ha passato il resto della vita a organizzare spedizioni di ricerca, ma anche dopo di lei le indagini di singoli e gruppi sono continuate, in una specie di ossessione collettiva che quasi immancabilmente si concludeva nello stesso siparietto (anch’esso ricostruito nel film). Qualcuno di lingua inglese raggiungeva la zona del presunto naufragio, e chiedeva agli anziani o agli sciamani della tribù se avessero visto qualcosa. I poveracci rispondevano di sì, aggiungevano particolari immaginifici, ma anziché tradurli nella nostra misera lingua dei fatti i visitatori si scambiavano un’occhiata il cui senso era, lascia perdere, è un cazzo di eschimese. E infatti, solo tre o quattro anni fa, grazie a strumenti di ultima generazione, un gruppo di geografi canadesi ha finalmente localizzato, e fotografato, i relitti (intatti) dell’Erebus e del Terror. Nel punto esatto dove i vecchi, e gli sciamani, avevano sempre detto che erano affondati.