Attualità

The Science Gap

Il controverso rapporto dell'Italia con le materie scientifiche: tra lauree anti-crisi e un sistema che non le incoraggia (ma poi si lamenta).

di Anna Momigliano

Avenue Q è il musical da consigliare a quelli che “i bamboccioni sono un fenomeno solo italiano”. Per esempio, in una compagine di protagonisti giovani (frustrati) e semi-giovani (ancora più frustrati) c’è Brian, il cui pezzo It Sucks To Be Me sembra la versione hip e meno piagnona di un film di Virzì («It sucks to be broke/and unemployed/and turning thirty-three/It sucks to be me», ok è piagnona ma di quel piagnone che fa ridere). Più noto per perle di saggezza come The Internet Is For PornEverybody Is A Little Bit Racist, lo show datato 2003, nonché liberamente ispirato a Sesame Street, ha anche il pregio di aprirsi con una domanda. Infatti:

What do you do with a B.A. in English?
What is my life going to be?
Four years of college and plenty of knowledge,
Have earned me this useless degree.

What Do You Do With a BA in English? è il primo solo del musical, la canzone di Princeton, neo-laureato in Letteratura Inglese terrorizzato dalla prospettiva di una vita da disoccupato, simile a quella del sopracitato Brian.

I can’t pay the bills yet,
‘Cause I have no skills yet,
The world is a big scary place.

Il problema, pensa Princeton, sta tutto in quella “laurea in Letteratura Inglese”, un “titoli di studi inutile”, che equivale a non avere skills, conoscenze spendibili. A differenza delle “lauree scientifiche” che invece avrebbero un maggiore valore di mercato. Una prospettiva diffusa. Come si può capire, per esempio, leggendo questo articolo dell’Atlantic, intitolato non a caso: Should Science Majors Pay Less for College Than Art Majors? Gli studenti di materie scientifiche devono pagare rette minori rispetto agli studenti di arte? (studente non sarebbe il termine esatto, il significato della parola “major” lo avevamo spiegato qui). La notizia era questa: il governatore della Florida Rick Scott sta lavorando a una norma che permetta alle università pubblica di differenziare le rette a seconda del college a seconda dell’indirizzo di studi. Il principio è che chi sceglie un major richiesti dalle aziende della Florida dovrebbe pagare meno rispetto a chi sceglie un major dal minore valore strategico.

Il caso specifico è di per sé problematico. Oltre all’implicita questione morale (è giusto che un’università statale faccia pagare di più uno studente solo perché la sua scelta di studi non è strategica?), ce n’è anche una tecnica (come si fa a modulare le rette in base al corso di laurea, se in base al sistema americano uno studente lo dichiara soltanto a metà degli studi?), cui se ne aggiunge una terza, legata più alla mentalità del titolista dell’Atlantic che al dossier Florida: chi ha detto che le materie scientifiche sono più “utili” o anche solo spendibili di quelle umanistiche? Dipende da che cosa si intende per “materie scientifiche” e “materie umanistiche”: siamo sicuri che i laureati in “scienze naturali” trovano più lavoro, chessò, dei dottori in legge? Infatti basta leggere bene l’articolo e dare un’occhiata al draft della proposta in discussione in Florida per rendersi conto che non si tratta di valorizzare le scienze, bensì tutte le facoltà ritenute “strategiche” e che quali esse siano non è specificato. Che le materie “scientifiche” (termine assai vago) siano “più utili” (termine altrettanto vago) è insomma un cliché. Ma, come molti altri cliché, nasce da una condizione reale.

E qui, finalmente, cominciamo a parlare dell’Italia. Infatti è di queste settimane la notizia che la disoccupazione giovanile, nel nostro Paese, ha toccato il record del 33,5 per cento (contro una media del 23,3% dell’euro zona). Quasi contemporaneamente, alcune università italiane tentano di mandare il messaggio che, con una laurea scientifica in tasca, non si rischia di restare disoccupati. Per esempio, l’Università degli Studi di Milano ha pubblicizzato una statistica secondo cui l’82% dei laureati in materie scientifiche trova lavoro entro un anno – una percentuale che tocca picchi di 100% tra i matematici e 97% tra gli informatici. Sono dati da prendere con le molle. Un po’ perché sono parziali, riferiti a un ateneo specifico, e per giunta in una città in cui la disoccupazione giovanile è fisiologicamente più bassa che altrove, e per giunta ultimamente è pure in calo.

Ad oggi, non ho trovato uno studio definitivo sul rapporto costi-benefici di lauree scientifiche vs lauree umanistiche, senza contare che l’annoso tema “che cosa conviene studiare all’università” è difficilmente risolvibile dalle sole statistiche. Ciononostante – sarà la crisi che avanza, sarà la conseguente rivalutazione critica del sistema-Italia e una certa Ralpolitik che è diventata più accettabile quando si parla di istruzione – qualcuno ha cominciato a domandarsi come mai in Italia quasi nessuno studia le materie scientifiche (merita a proposito questa infografica de Linkiesta). Si fa strada il dubbio, insomma, che se i giovani italiani non trovano il lavoro è anche perché sono un po’ troppo choosy, quando si tratta di scegliere cosa studiare, prima ancora che di accettare un lavoro.

Ora, come già accennato, ho più di un problema con le polemiche sulla schizzinosità dei giovani (e sulle polemiche sui giovvani in genere), inoltre nutro qualche dubbio sulla preferibilità intrinseca delle materie scientifiche rispetto a quelle umanistiche – lo dico da persona che ha passato alcuni dei suoi anni formativi in un paese, Israele, in cui la superiorità dell’istruzione scientifica era data quasi per scontata, almeno a livello universitario. Detto questo, se i giovani italiani studiano poco le materie scientifiche è anche perché provengono da un clima scolastico in cui la scienza, e il pensiero scientifico in genere, non è valorizzato, quasi relegato a un ruolo di serie B.

In Italia si studia poca scienza e si studia male. Si parte dal presupposto (diametralmente opposto a a quello israeliano, ma altrettanto fallace, se non più dannoso) che i ragazzi “svegli” devono essere destinati agli studi umanistici, per il solo fatto di essere svegli. Un modo di ragionare che è contemporaneamente causa ed effetto di un approccio a un insegnamento scientifico in gran parte improntato al nozionismo (che pure del metodo scientifico dovrebbe essere l’opposto); una mentalità secondo cui studiare biologia o chimica significa rinunciare a pensare con la tua testa anziché imparare a farlo.

Quando ho finito le scuole medie – parliamo di anni Novanta, mica della Restaurazione – gli studenti con la media più alta venivano gentilmente “indirizzati” dai professori al Liceo Classico, indipendentemente dall’indole personale, quelli a metà classifica allo Scientifico, e i rimanenti della zona retrocessione agli istituti tecnici e/o professionale (Lo so, non è politicamente corretto e non è nemmeno sensato, ma è andata così, ditelo ai miei prof).

Poi ci si lamentiamo che nessuno vuole più fare gli istituti professionali o Ingegneria.