Hype ↓
03:01 venerdì 11 luglio 2025
La danzatrice del ventre è diventato un mestiere molto pericoloso da fare in Egitto Spesso finiscono agli arresti per incitazione al vizio: è successo già cinque volte negli ultimi due anni, l'ultima all'italiana Linda Martino.
Ferrero (e la Nutella) va così bene che starebbe per comprare la Kellog’s Per una cifra che si aggira attorno ai tre miliardi di dollari. Se l'affare dovesse andare in porto, Ferrero diventerebbe leader del settore negli Usa.
Il cofanetto dei migliori film di Ornella Muti curato da Sean Baker esiste davvero Il regista premio Oscar negli ultimi mesi ha lavorato all’edizione restaurata di quattro film con protagonista l’attrice italiana, di cui è grandissimo fan.
Nell’internet del futuro forse non dovremo neanche più cliccare perché farà tutto l’AI Le aziende tech specializzate in AI stanno lanciando nuovi browser che cambieranno il modo di navigare: al posto di cliccare, chatteremo.
Trump si è complimentato con il Presidente della Liberia per il suo inglese, non sapendo che in Liberia l’inglese è la prima lingua Joseph Boakai, nonostante l'imbarazzo, si è limitato a spiegargli che sì, ha studiato l'inglese nella sua vita.
Ed Sheeran si è dato alla pittura e ha provato a imitare Jackson Pollock con risultati abbastanza discutibili Ma almeno si è sforzato di tenere "bassi" i prezzi delle sue "opere": meno di mille sterline a pezzo, che andranno tutte in beneficienza.
Dopo l’ultimo aggiornamento, Grok, l’AI di X, ha iniziato a parlare come un neonazista In una serie di deliranti post uno più antisemita dell'altro, Grok è pure arrivato a ribattezzarsi "MechaHitler".
La novità più vista su Netflix è un documentario su una nave da crociera coi bagni intasati Si intitola Trainwreck: Poop Cruise, è in cima alla classifica negli Stati Uniti ed è popolarissimo anche nel resto del mondo.

«All’estero è meglio»

Insegnare a pensare con la tua testa Vs insegnare un mestiere. Giovani, università e mondo del lavoro: una riflessione sull'«anomalia italiana».

08 Novembre 2012

C’è un’espressione che trovo molto problematica, nell’accezione in cui viene utilizzata spesso, ma che non riesco a evitare di utilizzare. Quell’espressione è «all’estero». All’estero ti premiano se pensi con la tua testa, da noi è un punto in menoIn Italia ti chiedono ancora di mandare un fax, all’estero si usa per tutto l’e-mail; Qui da noi i ragazzi restano a casa dei genitori fino ai trentacinque, all’estero vanno a vivere da soli; L’Italia è in mano ai dinosauri, all’estero invece…

Ecco, avete capito.

Il problema con affermazioni di questo tipo è piuttosto semplice: al mondo ci sono sette miliardi di persone, suddivise in circa duecento nazioni, tra Stati sovrani e aspiranti tali (quelli che partecipano al torneo di calcio della Padania). Tolti 56 milioni di italiani e l’Italia… be’, ilresto del mondo conta sempre sette miliardi di abitanti e circa duecento nazioni – un po’ tanti per essere ridotti a all’unica categoria di «all’estero». Eppure tutta questa esterofilia agiografica una qualche ragion d’essere ce l’ha. Nasce da una presa di coscienza – ahimé tardiva, e forse per questo a rischio di essere ingigantita – che c’è qualcosa che non va nel nostro-sistema paese, che un’anomalia italiana esiste.

Il che ci porta al punto di questo articolo. La scorsa settimana mi era capitato di occuparmi della ormai trita annosa questione “giovani e mondo del lavoro”, avevo colto l’occasione per occuparmi dello step che spesso precede la ricerca del lavoro, ossia la scelta di un corso universitario, mi ero ritrovata a pensare che in questo paese c’è un problema di ipocrisia di fondo, che per qualche ragione non si fa mai un discorso aperto sulle materie che si studiano per amore e quelle invece sono ritenute spendibili sul mercato, che la cosa più grave, in questa grande confusione, è che spesso si finisce per studiare qualcosa che non si ama né è particolarmente utile nella ricerca di un lavoro. Un lettore mi ha chiesto, su Twitter, se era una cosa soltanto italiana e perché.

Ora, vorrei evitare di entrare in un nuovo dibattito Italia vs all’estero – anche perché, come spiegato sopra, non ho ben capito che cosa s’intenda per all’estero, espressione che chissà perché diventa più frequente quando si parla di questioni economico-generazionali. Quello che posso fare è fare un paragone tra il processo di scegliere un indirizzo di studi in Italia e quello che invece avviene in due paesi dove, per vicende varie, ho vissuto e, soprattutto, di cui ho incontrato da vicino i sistemi universitari: Israele e gli Stati Uniti. Dà lì magari si può nascere qualche riflessione, un confronto non con un “altro” mistico, ma con due casi concreti.

Su Israele, una premessa: causa servizio militare assai lungo, cui si aggiunge un consueto anno di vacanza post-traumatica, gli israeliani cominciano l’università molto tardi, in genere tra i 22 e i 24 anni, e questo fa sì che la scelta degli studi avvenga in un’ottica molto più “realistica” – un po’ perché la gente ha l’ansia di cominciare la vita adulta, un po’ perché i ventiquattrenni sono più maturi dei diciottenni. Detto questo, in Israele prevale la percezione secondo cui studiare materie scientifiche è più figo. Ok, l’ho messa giù un po’ dura, ma è così. Un sacco di ragazzi vogliono fare medicina, ingegneria, informatica e biotecnologie, il risultato è che per queste facoltà la domanda è incredibilmente più alta dell’offerta, dunque entrarci è quasi impossibile e questo (per un meccanismo psicologico ben noto) le rende ancora più desiderabili.

L’ammissione, come in Italia, funziona in base alla facoltà che si sceglie. Esiste un unico test d’ingresso generalista, valido per tutte le facoltà e tutte le università, il famigerato “esame psicometrico”, da cui si esce con un punteggio che dovrebbe indicare la tua “predisposizione ad eccellere negli studi”: per entrare in una facoltà cool (es. biotecnologie) serve un punteggio altissimo, per una facoltà da sfigati (es. “studi mediorientali”) basta un punteggio risibile, per una “media” (es. architettura), be’, serve un punteggio medio. Così la pressione sociale porta a desiderare una laurea scientifica, inoltre solo i tipi svegli possono entrarci, mentre ai tontoloni non restano che gli studi umanistici: è un gatto che si morde la cosa. Io lo trovo un po’ urticante, ma alla fine il premio è una start-up nation, un gioiellino di innovazione (Israele è seconda solo a Usa e Cina per società quotate in Nasdaq), quindi forse ne vale la pena.

Il sistema americano è completamente diverso, e non nascondo di preferirlo. Primo punto: fatta salva qualche eccezione, tu non ti iscrivi a una data facoltà, bensì a un’università, e solo in un secondo momento (in genere l’inizio del secondo anno di studi) dichiari un corso di laurea. Il primo anno si seguono corsi vari, seguendo la propria curiosità e completando i requirements, gli esami generalisti obbligatori. Questo fa sì che 1) la scelta avvenga in modo maturo, quando uno si è già fatto un’idea di quello che gli piace e che 2) gli studenti si fanno una solida base culturale: anche se vuoi laurearti in fisica, ti devi fare almeno un’infarinatura di letteratura americana; e anche chi studia materie umanistiche deve avere un po’ di dimestichezza col pensiero scientifico.

Quello che più conta è che, indipendentemente dall’indirizzo di studio, il college americano è pensato prima di tutto per insegnarti a pensare con la tua testa. Il resto verrà dopo. Un esempio: come moltissimi studenti di materie umanistiche un po’ pigri, dovendo dare per regolamento un esame scientifico, ho scelto “Introduzione alla Geologia” – corso soprannominato non a caso “rocks for jocks”, pietre per tontoloni muscolosi, e che prometteva di essere assai noioso ma altrettanto facile. Invece, anziché a guardare sassi, mi sono ritrovata a risolvere Problemi di Fermi (vedi alla voce: approssimazione ragionata) con un professore che aveva ben chiaro che la maggior parte di noi non era minimamente interessata alla geologia e si trovava lì solo perché doveva dare un esame scientifico a caso: il mio compito non è insegnarvi come funzionano le placche tettoniche, ma insegnarvi a ragionare in termini scientifici.

Se gli americani possono permettersi il lusso di concentrarsi sull’insegnare agli studenti a pensare, prima di insegnare loro un mestiere spendibile sul mercato, è perché l’esperienza è pensata perché molti di essi continuino a studiare dopo i quattro anni del college. Se uno vuole fare il medico, inizia medicina dopo il college (in genere si è laureato in biologia, chimica o qualcosa di simile, anche se conosco chi ha studiato storia ed è stato ammesso alla Med School); idem se uno vuole fare l’avvocato (le lauree privilegiate per entrare in una Law School sono Storia, Scienze Politiche e, la mia preferita, PPE: Philosophy, Politics and Economics). Il problema in tutto questo è che, per intraprendere una professione, si deve studiare moltissimi anni, e per giunta con delle rette altissime… il che crea qualche problema di mobilità sociale (si potrebbe controbattere però che in Italia l’università costa meno, ma non è che a mobilità sociale siamo messi meglio).

Mi ha molto impressionato, inoltre, la limpidezza con cui gli studenti americani parlavano di quello che avrebbero avuto fare da grandi, l’onestà intellettuale con cui ci si poneva le domande: che cosa mi piace studiare? Potrò trovare un lavoro con questa laurea? – senza troppi pudori. C’era chi sceglieva un corso perché gli piaceva (penso alla mia coinquilina Liz, che ha fatto antropologia — e oggi fa l’antropologa), chi nutriva il sogno uber-anglosassone di fare una professione remunerativa e socialmente prestigiosa (come Luba, che studiava biochimica per entrare nella Med School), chi cercava di combinare le due cose con un doppio corso di studi. A favore di questa categoria, è stata creata la categoria diminor, ossia una seconda laurea “minore”, che si consegue parallelamente a quella primaria, detta major (un’altra mia coinquilina, tale Mina ha conseguito un major in chimica e un minor in “Studi Asiatici”: oggi lavora per un’azienda farmaceutica di Singapore).

Qualcosa però mi dice che il successo dell’università americano non sta nell’esistenza dei minor e dei major, ma piuttosto nella mentalità che ci sta dietro, nella limpidezza di un sistema che non si vergogna di chiederti (e perché dovrebbe?): che cosa ti piace? Che cosa vuoi fare da grande?


Articoli Suggeriti
Ripensare tutto

Le storie, le interviste, i personaggi del nuovo numero di Rivista Studio.

Il surreale identikit di uno degli autori dell’attentato a Darya Dugina diffuso dai servizi segreti russi

Leggi anche ↓
Ripensare tutto

Le storie, le interviste, i personaggi del nuovo numero di Rivista Studio.

Il surreale identikit di uno degli autori dell’attentato a Darya Dugina diffuso dai servizi segreti russi

La Nasa è riuscita a registrare il rumore emesso da un buco nero

Un algoritmo per salvare il mondo

Come funziona Jigsaw, la divisione (poco conosciuta) di Google che sta cercando di mettere la potenza di calcolo digitale del motore di ricerca al servizio della democrazia, contro disinformazione, manipolazioni elettorali, radicalizzazioni e abusi.

Odessa ex città aperta

Reportage dalla "capitale del sud" dell'Ucraina, città in cui la guerra ha imposto un dibattito difficile e conflittuale sul passato del Paese, tra il desiderio di liberarsi dai segni dell'imperialismo russo e la paura di abbandonare così una parte della propria storia.

Assediati dai tassisti

Cronaca tragicomica di come non sia possibile sfuggire alla categoria più temuta e detestata del Paese.