Attualità

Stadio blindato

Anatomia di una partita in uno stadio deserto, squalificato per razzismo. Sensazioni, dubbi e breve storia della violenza verbale nelle curve romane.

di Stefano Ciavatta

Non si è mai visto un tifoso raccontare le vicende da stadio in terza persona. Non farò eccezione e vado subito al punto. Ho visto la Lazio in tutti i settori del vecchio e nuovo Olimpico: al pareggio di Maradona nel 1984 ero in tribuna Tevere, quella baciata dal sole; il mio primo derby con Di Canio nel 1989 l’ho visto in curva Nord; esultai dalla parte opposta in curva Sud, al gol di Fiorini nell’anno dei meno nove (62mila spettatori per una partita di serie B); alla finale di Coppa Italia 2009 ho vagabondato nervosamente in Monte Mario mentre si battevano i rigori. Ho perso un derby in tribuna stampa, forse il posto inaspettatamente più antisportivo dello stadio tra tribuni delle radio, finti colleghi e imbucati pronti a fare saltare i nervi. Infine il giorno dello scudetto del 2000 sono sceso addirittura in campo a fine partita. Mai mi era capitato di vedere la Lazio in tribuna d’onore, del resto sono soltanto un tifoso comune ma fedele, il primo abbonamento me lo fece mio padre a dieci anni.

In tribuna d’onore ci sono finito grazie a un invito per una serata purtroppo speciale: il turno a porte chiuse di Europa League contro lo Stoccarda inflitto per una squalifica extracalcistica. La Commissione Disciplinare dell’Uefa aveva già sanzionato la Lazio per cori antisemiti il 22 novembre contro il Tottenham. Per il turno contro il Borussia Moenchengladbach la pena era stata sospesa fino a prova contraria che è arrivata quando due emissari Uefa hanno visto molti tifosi fare il saluto romano in curva nord, ecco allora la stangata di due turni. La società invoca l’intervento delle autorità ma subisce la cosiddetta responsabilità oggettiva, la società più che simbolicamente far scendere in campo le squadre con una maglietta con scritto “no al razzismo” non può fare.

Nel corso degli anni c’è chi da tempo ha cambiato posto allo stadio e chi nei forum minaccia di non abbonarsi più. C’è chi la vuole Nazio e chi no. Quello che è successo al West Ham infangato dai cori inneggianti ad Adolf Hitler nel derby di novembre contro il Tottenham è pura utopia a Roma. In 48 ore sono stati individuati e arrestati due dei tifosi responsabili dei cori grazie alle telecamere dello stadio degli Spurs. Il tifoso abbonato al West Ham è stato radiato per sempre dalle partite della sua squadra. Eppure sul sito di entrambe le squadre romane si trova il “Regolamento di accesso e uso dello stadio” dove sta scritto che il Gos (Gruppo Osservatorio Sicurezza) della Questura monitora l’Olimpico.

L‘antisemitismo a Roma è trasversale. Il primo storico striscione compare infatti nella Sud: “Noi Ricciottivoi Piperno”, con riferimento al film di Alberto Sordi Il Marchese del Grillo.

Ricordo l’imbarazzo e la vergogna provati allo stadio per ogni volta che è comparso uno striscione razzista o è stato fatto un coro antisemita. L’ultimo striscione esposto in Nord è stato “Chi tifa Lazio kippah Roma”, apparso all’ultimo derby ma passato inosservato. L’apoteosi fu nel 1998 con “Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case”. Due sono i cori che una minoranza impunita di ultrà laziali continua a fare, nonostante i fishi del resto dello stadio: “Su cantiamo tutti quanti giallorosso ebreo” e “Si sente forte il cattivo odoredella capitale sei il disonore, A. S. Roma juden club, A. S. Roma juden club. L‘antisemitismo a Roma è trasversale, è un continuo rimpallo tra le curve delle due squadre capitoline. Il primo storico striscione compare infatti nella Sud, lo ha ricordato anche Alessandro Piperno in una intervista: derby Lazio-Roma 1998/99 “Noi Ricciottivoi Piperno”, con riferimento al film di Alberto Sordi Il Marchese del Grillo ( film che oggi forse nessun produttore rifarebbe). Negli anni ’90 in Sud compaiono due striscioni “Voi biancoblù come loro” riferendosi ai colori della bandiera di Israele, e “Lazio Ajax Tottenham, presidenti fratelli, tifosi gemelli” (col doppio senso dei fratelli Cragnotti e Calleri alla presidenza della Lazio). Nel 2003 contro l’Ajax compare il tremendo “And now… go to have a shower“. Nel 2006 “Lazio Livorno stessa iniziale stesso forrno” provoca l’indignazione del tifo giallorosso. Nel 2011 passa inosservato invece “Laziale non mangia maiale”. Svastiche e celtiche sono state appese in entrambe le curve, gli ululati sono stati un must per anni, poi sono ricomparsi. Di Canio, re per una notte, ha distrutto tutto con un saluto romano ma è stato allontanato da Lotito in seguito. La maglia laziale del franco-ivoriano Cissè, incappucciata con una banana è stata esibita come uno stendardo nel derby d’andata del 2011.

Nel luccichio dei bollini argentati del biglietto della tribuna d’onore ,per contrappasso, ritrovo intatto il carico di disonore. Pensavo di sbollire il disonore davanti alla tv, invece in 24 ore sono passato dalla piazza frenetica e festante di San Pietro per l’elezione del nuovo Papa al mio stadio deserto e blindato, senza battere ciglio. Succede anche questo in una Roma immensa e distratta per natura. Sono ancora molti nella capitale i posti da colmare prima dell’estate, non soltanto le poltrone, simbolo delle istituzioni. Anche uno stadio desolato e silente può apparire come una sede vacante. Chi vincerà questa sfida a senso unico che dura da vent’anni? Finiremo tutti su un divano in esilio a twittare la nostra gioia per un gol o l’indignazione per quello che succede in curva?

Non c’è nulla di più affrettato del tifoso romano che lascia l’Olimpico, che non è uno stadio di quartiere come a Londra: la città fa subito sentire il peso degli orari, del traffico, del rientro a casa verso i punti più lontani di Roma.

Mi sono ritrovato ad attraversare in solitaria come Soldini il viale dei Gladiatori che porta allo stadio. È il viale di solito sempre vociante e gradasso che porta alla curva Sud e quindi all’ingresso della tribuna Monte Mario e d’onore: una striscia di asfalto che vede passare auto blu e vippaio generone, che vive di passi rilassati all’andata, mano a mano sempre più ansiosi di passare oltre l’imbuto dei tornelli, e quelli più sbrigativi al ritorno che calpestano bottiglie e prendono a calci i caffè Borghetti. Non c’è nulla di più affrettato del tifoso romano che lascia l’Olimpico, che non è uno stadio di quartiere come a Londra: la città fa subito sentire il peso degli orari, del traffico, del rientro a casa verso i punti più lontani di Roma. Giovedì sera però per entrare c’è voluto un vero atto di fede.

Nel viale deserto non c’era traccia dell’afflato sudamericano dei tifosi del Papa, quelli del Club Atletico San Lorenzo de Almagro, la squadra di cui Jorge Mario Bergoglio è socio, che entrano rumorosamente come una «fuori di testa, ubriachi di vino e marijuana». Con l’impianto delle «notti magiche inseguendo un goal» l’inno allo spreco di Italia 90, una balena bianca mai davvero accogliente e sempre troppo dispersiva, sono dovuto scendere a compromesso da subito. Negli anni ’90 l’ho visto cambiare di abito e colori: tutto piano piano si è scurito, il nero è entrato anche nel merchandising delle curve, anticipi e posticipi serali hanno imbastardito gli umori, incattivendoli. Più che lasciarsi vivere dall’evento, anche in maniera sfrenata, le curve hanno tolto i tamburi acusati di fare folklore, diventando dei professionisti del tifo.

Giovedì sera però, più che un compromesso, è sembrata una resa. L’Olimpico non era completamente deserto ma comunque aperto per i posti occupati da giornalisti, dal personale di servizio e dagli sponsor Uefa, e ovviamente dai settantacinque accrediti tra giocatori, tecnici e staff dei due club. Difficile fare il pieno totale Roma, c’è sempre qualcuno che manca all’appello, così come è difficile cercare il vuoto, l’eremo, il riparo assoluto: insomma nella capitale la puntualità dei pesi e delle misure è sempre un errore.

Guardare attoniti tutti quei seggiolini vuoti è stato anche l’apoteosi del deserto degli stadi italiani, tutti, compresi quelli di provincia, perché gli impianti della serie A si riempiono in media solo per il 51,5% della capienza.

Guardare attoniti tutti quei seggiolini vuoti è stato anche l’apoteosi del deserto degli stadi italiani, tutti, compresi quelli di provincia, perché gli impianti della serie A si riempiono in media solo per il 51,5% della capienza. Una fuga di spettatori che sottolinea l’incuranza delle istituzioni nel proteggere il senso popolare dello spettacolo del calcio. Le porte chiuse non esistono solo per il comportamento dei tifosi: a Cagliari lo stadio che dal 1970 ospita i sardi e che fu ristrutturato nel 1990 sempre per i Mondiali è stato dichiarato inagibile dopo che per sette anni si è aggirata la fatiscenza dell’impianto con delle tribune aggiunte. Per illegalità dell’impianto sostitutivo Is Arenas il presidente Cellino è finito in prigione. Il Cagliari continua a giocare senza spettatori o in altri stadi fuori dell’isola. Non mandano buoni segnali anche stadi nuovi e più prestigiosi. Multare per 4mila euro il coro juventino “non ci sono negri italiani” dedicato a Balotelli fatto passare per ingiuria senza la discriminante razzista è un ammonimento o un segnale di resa?

Cosa rimane fuori dallo stadio con le porte chiuse per il tifoso? Tutto: ansie, paure, esaltazioni, aspettative, scaramanzie. I confort della tribuna d’onore sedano il disagio. È un Olimpico minimal, che prova a sedurre con la chimera di offrirsi intimo e casalingo ma non ci riesce perchè subito il pensiero è andato al piccolo stadio di Busto Arsizio dove Boateng si è preso vergognosi insulti in una pacifica amichevole.

All’Olimpico i giocatori urlano, chiamano i compagni. Sembra la terza categoria ma senza cattiveria. Per i tre goal di Kozak si esulta ma mancano le viscere, come aver ragione dopo aver dimenticato le ragioni, non si esiste dentro questo boato in sedicesimo perché il boato appunto non c’è. Le voci in campo sono da film neorealista, tipo Lizzani, con i tedeschi che sbraitano, tutto il contrario dei sussurri del conclave. C’è solo agonismo, chi indovina quattro passaggi di palla arriva in porta e vince. Non esistono “crucchi” nè infamie razziste, nè cori nè saluti romani. Solo agonismo. Dalla tribuna d’onore il dizionario del pubblico è quello classico da stadio, sono assenti i professionisti del livore e i patologici del tifo, quelli che scambiano lo stadio per una bacheca da centro sociale con l’immancabile staffetta tra lo striscione con la dedica al tifoso morto e il saluto al neonato di turno.

Chi ha visto l’Olimpico pieno, stracolmo, chi ricorda cosa vuol dire ritrovarsi la domenica pomeriggio a sospingere la propria squadra quando mancano dieci minuti alla fine, non può non notare il grande assente: la folla.

Sembrano le prove di uno spettacolo, con tutte le quinte in ordine e gli attori in gran forma, senza fronzoli o specchi di vanità. Una partita di pallone è dove ovunque dove rotola pallone direbbe Vujadin Boskov. Basta aggrapparsi a una rete di qualsiasi campo e osservare le squadre, ed è subito calcio. Ma per chi ha visto l’Olimpico pieno, stracolmo, chi ricorda cosa vuol dire ritrovarsi la domenica pomeriggio a sospingere la propria squadra quando mancano dieci minuti alla fine, non può non notare il grande assente: la folla, la massa di gente con i suoi tempi di attenzione verso la partita, i tempi morti, quelli che si vedono solo allo stadio nonostante la televisione abbia imparato negli anni ha impiegare fino a 14 addetti alle riprese per una partita come nel caso di Sky nell’ultimo derby, vinto dalla Lazio. Il fuori scena, fuori dal concetto tv di intrattenimento: il portiere che fa stretching, l’attaccante isolato, il tifoso che si distrae con la coda dell’occhio, i volti degli sconosciuti accanto, la noia dei passaggi a vuoto. Tempi morti che non disertano la tensione della partita ma ne fanno parte. La favola della finale noiosa tra Chelsea e Bayern (l’ultima di Champions) è stata un’invenzione dei commenti su Twitter. Il tifoso da stadio non l’avrebbe mai nemmeno pensato, ma il tifoso da stadio oggi è in pericolo se qualcuno non filtrerà con attenzione la folla.

Al fischio dell’arbitro strette di mano e fair play, quel che resta del pubblico scivola fuori senza indugi, né fragore. Non c’è tempo per rumiginare, dal gran teatro vuoto si è fuori in 120 secondi. Ad attendermi c’è l’indifferenza del Foro Italico buio e freddo. Nell’inerzia generale delle cose che hanno portato fino a un Olimpico deserto, resta solo l’antica legge che nel calcio contano i risultati. Passando il turno la Lazio ai quarti di finale trova il Fenerbahce di Istanbul, vittorioso anch’esso a porte chiuse, perché tutto il mondo è paese. La Lazio che vince nel deserto è una punizione indiscriminata, non un fioretto necessario stabilito dal tifoso, ma che non può essere il ragionamento di chi decide il gioco del pallone. E comunque il problema resta e la vergogna pure.

Il giorno dopo le reazioni degli esclusi dallo stadio sono un misto di sollievo per il risultato, di apatia e rassegnazione per il problema che rimane irrisolto. Nel fatalismo si lambisce l’autoassoluzione, non è il rammarico per non aver assistito alla partita il sentimento più forte: c’è il sorteggio di coppa, il campionato chiama, “è andata anche questa” sta scritto sul retro del biglietto di tribuna d’onore. Il prossimo atto di fede è programmato per l’11 aprile, quando la posta in ballo sarà maggiore, le semifinali, anche se il rischio che incombe sulla Lazio, in caso di nuovi episodi, è che non ci siano più tempi morti, almeno in Europa, per qualche anno. Giustamente.