Attualità

Non solo frigoriferi intelligenti

Dopo anni di promesse e fallimenti, l'internet delle cose sembra maturo abbastanza da invadere il mercato: come prepararsi a un mondo in cui ci saranno 26 miliardi di oggetti connessi in rete.

di Michele Boroni

C’è stato un tempo in cui lo Smau (acronimo di Salone Macchine e Attrezzature per l’Ufficio) rappresentava, a Milano e in Italia, uno degli appuntamenti mediaticamente più importanti dell’anno. Stiamo parlando di poco più di dieci anni fa, quando la bolla di Internet era di dimensione notevoli, giravano un sacco di soldi ed era tutto un fiorire di venture capital e incubatori.

Allora non c’era il Fuori Salone e durante lo Smau vi era un rutilante susseguirsi di eventi, incontri e feste – rigorosamente a invito – organizzate dai portali (do you remember portali?), aziende di telefonia e di hi-tech, con budget esosi e gran distribuzione di gadget. Ricordo anche le decine di pagine di quotidiani e riviste che venivano occupate da editoriali di sedicenti futurologi entusiasti di un futuro radioso e totalmente automatizzato e paginate dedicate strabilianti novità di prodotto; tra quest’ultime non mancava mai  “il frigo connesso” che dalla cucina ti mandava gli sms sugli alimenti da comprare e interagiva con gli altri elettrodomestici. Ecco, il frigo intelligente ci ha tormentato per più di dieci anni e ad ogni edizione c’era sempre qualche azienda del settore che tronfia presentava il nuovo modello di elettrodomestico smart. E succede ancora oggi, sì.

Quando sento parlare di “Internet delle cose” non posso non pensare all’epic fail del frigorifero connesso. Molto probabilmente sbaglio ad esser così cinico, perché a questo giro vedo un sacco di entusiasmo, non tanto sugli sviluppi dell’hardware, quanto alla creazione di un intero sistema legato ai big data e ai riflessi che può avere sui brand e sulle strategie di marketing. Molti esperti del settore sostengono che l’Internet delle cose, ovvero la possibilità di far entrare nella rete una serie di oggetti che usiamo nella vita di tutti i giorni, rischia di avere un impatto maggiore sul marketing di quello che ha avuto il web.

Proviamo a fare una riflessione. Il web in fondo ha modificato la comunicazione, la distribuzione e il prezzo (attraverso l’e-commerce). L’Internet delle cose (Internet of Things, da ora IoT) promette invece di cambiare tutte le variabili del marketing mix e a proporre un’offerta sempre più personalizzata e costruita sulle esigenze del singolo.

All’ultimo Ces di Las Vegas sono stati presentati una caterva di prodotti, dalle auto ai vestiti, dai manifesti pubblicitari ai cassonetti, tutti collegati alla rete, e l’istituto di ricerca Gartner sostiene che entro il 2020 ci saranno nel mondo 26 miliardi di oggetti connessi, più di tre volte il numero di smartphone, tablet e pc messi assieme. Ma limitiamoci ad analizzare l’esistente e i riflessi sul brand marketing.

Si nota sopratutto un gigantesco problema etico di privacy e una sostanziale scarsa preparazione dei reparti marketing che già hanno avuto difficoltà a gestire prontamente e con efficienza l’avvento del web

Il primo esempio che oggi mi viene in mente è quello di Nike+ FuelBand (di cui scrissi qui), il primo gradino di trasformazione della società da semplice venditore di scarpe a brand di servizio per il fitness. Recentemente però Nike ha annunciato di voler abbandonare la produzione del braccialetto per dedicarsi ad altri software legati allo sport. Poi, chi è stato di recente a Londra non avrà potuto non notare la campagna di Hive,  l’app di British Gas che ti permette di controllare in remoto via smartphone il proprio riscaldamento e risparmiare in media 150 sterline sulla bolletta all’anno (c’è da dire che il riscaldamento geek costa 199 sterline, quindi si tratta di risparmio a lungo termine).

Più gli oggetti sono connessi, dicono i fans della IoT, più le aziende saranno in grado di utilizzare i dati sul consumo, migliorare i prodotti arricchendo i profili delle persone che le utilizzano e premiarne la fedeltà, ad esempio attraverso la tecnica del “dynamics pricing”. Nel frattempo però si nota sopratutto un gigantesco problema etico di privacy e di accesso ai dati e una sostanziale scarsa preparazione dei reparti marketing che già hanno avuto difficoltà a gestire prontamente e con efficienza l’avvento del web, figuriamoci a coordinare un cambiamento radicale come questo.

C’è da dire che laddove l’IoT si incrocia con la tendenza del self monitoring, ovvero con la misurazione delle informazioni in tempo reale per razionalizzare, ottimizzare e migliorare la gestione della propria vita, si iniziano a vedere i primi successi e progressi, specialmente nel campo della salute e sanitario (un esempio virtuoso è l’app RevUp!, che permette di monitorare la frequenza cardiaca e, grazie a un sistema integrato, suggerisce misure sanitarie preventive).

Ma sopratutto, dal mio punto di vista, c’è un altro grande limite allo sviluppo dell’IoT nel mondo dei consumi, ovvero la totale mancanza di fiducia delle persone nei confronti dei brand, anche quando queste promettono benefit concreti in cambio dell’accesso ai dati di utilizzo del prodotto. Oggi tutti noi abbiamo la forte consapevolezza che ogni aspetto della nostra vita è monitorato e gestito dai dispositivi che ci circondano, e molti temono una perdita di controllo della privacy e della propria vita. La vera sfida dei brand sarà proprio quello di introdurre dei servizi legati alla IoT che diano un reale valore aggiunto alle persone e trasmettano loro rassicurazione piuttosto che paura.

Qualora le aziende riuscissero a creare un sistema di prodotti connessi in rete tali da conoscere quantità e qualità dell’utilizzo, coloro che ne subiranno le conseguenza saranno i proprietari dei media e, per estensione, anche i centri media e le agenzie di comunicazione che, attraverso il loro lavoro, cercano di comprare e rivendere comportamenti d’acquisto di cluster di consumatori. Se l’IoT funzionerà come deve funzionare, le aziende compreranno direttamente le persone reali attraverso dei dati reali di acquisto, percorso e consumo e non avranno certo bisogno di agenzie che le aiutino a decodificare tipi e modelli di comportamento e creare messaggi divertenti per catturare l’attenzione di quelle persone.

Paura, eh?