Attualità

Non avere paura

Conversazione con Christian Mascheroni, che ha trasformato il suo feticismo dei libri in romanzo. Ma chi ha detto che i libri vanno amati per forza?

di Anna Momigliano

La prima volta che ho fatto del male a un libro, c’è mancato poco che non facessi del male pure a un essere umano. Era il primo anno di università, le Torri Gemelle stavano ancora al posto loro, e avevo avuto la pessima idea di iscrivermi a un seminario intitolato “gender studies & science fiction” (ci sono volte che uno se la va proprio a cercare). Il corso prevedeva la lettura de The Left Hand of Darkness di Ursula K. Le Guin, il romanzo di fantascienza che si svolge, tra gli altri luoghi, anche su un pianeta dove non esiste il sesso, nel senso di genere.

Era una tarda serata di fine agosto, io me ne stavo lì a leggere i capitoli-uno-e-due, quando all’improvviso un’idiosincrasia tenebrosa s’impadronì di me: tutto questo non ha senso, mi dissi. Non tanto la trama (che comunque mi era parsa un po’ pallosa), quando il fatto che, già me l’ero immaginato, il giorno dopo la professoressa mi avrebbe fatto una domanda su quegli alieni gender fluid e io mi sarei dovuta inventare una risposta plausibile sul costrutto dell’identità di genere nella società contemporanea.

Terrorizzata dalla prospettiva di una pantomima para-accademica, presi il romanzo, un tascabile Ace, l’editore di fantascienza del gruppo Penguin, acquistato per un paio di dollari nella sezione libri usati, e lo scagliai diritto dalla finestra di camera mia.

Sotto, per un caso, c’era la mia compagna di corso G. D. – che, a quanto mi risulta da breve ricerca su Google, oggi fa la ricercatrice e si occupa di “race, gender and sexuality in the scientific discourse”. Mi piacerebbe molto pensare che quel mio lancio di tascabile l’abbia in qualche modo folgorata, ma la realtà è che per un pelo non l’ho spedita in infermeria. Per me è stata l’ennesima conferma che i libri sono oggetti pericolosi.

Tutta questa storia che “i libri vanno amati”, sempre e comunque, non l’ho mai capita. I libri brutti (o che lo sono nella percezione de lettore) sono una terribile perdita di tempo.

A questo punto, una confessione: tutta questa storia che “i libri vanno amati”, sempre e comunque, non l’ho mai capita. Non ho mai capito neanche il culto del libro-oggetto, che in tempo di Kindle, i-Pad, Kobo e Pdf scaricabili più o meno legalmente è riemersa sotto forma di nostalgia per la carta che fruscia. Ma è una questione diversa. Parlando di libro come contenuto: se si può amare un libro che ci è piaciuto, allora perché non odiare un libro che non ci piace? I libri brutti (o che lo sono nella percezione de lettore) sono una terribile perdita di tempo – tempo che uno avrebbe potuto trascorrere facendosi un bagno, preparando una torta, o guardando un bel programma in TV. Conosco un sacco di gente che consuma libri in modo quasi bulimico, che legge tutto ciò che gli passa sotto mano, per principio o per necessità. Nulla di male, per carità. Io preferisco leggere (relativamente) poco ma bene (in realtà: quello che mi va di leggere). Per il resto, c’è il cioccolato.

Quanto al libro-oggetto, il piacere di leggere un volume anche per il suo odore, per la consistenza della carta al tatto o per il rumore delle pagine… semplicemente è una cosa che non mi è mai appartenuta. In più, da persona patologicamente disordinata, ho sempre avuto il terrore dei libri-oggetto: si perdono, occupano un sacco di spazio e non si trovano mai al momento giusto. Quando mi regalano un libro, subodoro un intento ricattatorio: prima di tutto mi fa sentire in dovere di leggerlo, poi mi sento in colpa se lo perdo.

Libri che sanno di sardine e di tabacco, di mele alla cannella, di citrosodina e di cioccolatini al liquore: Mascheroni rievoca la tragicommedia della sua famiglia attraverso le tracce lasciate sulle pagine della sua infanzia.

Così, ho preso in mano con una buona dose di diffidenza Non Avere Paura dei Libri, il romanzo autobiografico di Christian Mascheroni – di cui, tra l’altro, ha già scritto Cristiano de Majo. Che è, per farla breve, il memoir di un feticista dei libri, che coi libri ha un rapporto assai carnale. Libri che sanno di sardine e di tabacco, di mele alla cannella e di lamette per le unghie, di primavera e di zolfo, di citrosodina e di cioccolatini al liquore, di mortadella e di stelle filanti: Mascheroni rievoca la tragicommedia della sua famiglia – mamma piromane e papà pompiere, un po’ come nella storia del draghetto Grisù – attraverso le tracce lasciate sulle pagine della sua infanzia. Le sue madeleinette sono la macchia di crema solare sul tascabile Bompiani e l’unto della maionese che ancora impregna un vecchio Longanesi.

Il titolo è un riferimento a un consiglio che la madre Eva, «la viennese che amava fare i puzzle guardandosi, nel frattempo, film come “Brian di Nazareth” o “Un pesce di nome Wanda”», aveva dato all’autore bambino quando si era scelto, come lettura per la scuola La Pelle di Curzio Malaparte («mi piaceva la copertina», dice lui). La maestra di terza elementare era sbiancata, mamma Eva gli aveva detto che non c’era motivo di avere paura, che le parole difficili gliele avrebbe spiegato lei. Io, che invece dei libri ho sempre avuto un po’ paura (e se lo perdo al capitolo 3? e se mi fa incazzare? e se poi devo discutere dell’identità di genere negli alieni di Ursula Le Guin?) e che la carnalità delle pagine non l’ho mai saputa apprezzare, con Christian Mascheroni ho voluto fare due chiacchiere. Perché, come ognuno fa con il club da cui si sente escluso, i feticisti dei libri un po’ li invidio.

Tu e tua madre leggevate tantissimo, e di tutto. Una specie di bulimia letteraria. Insomma: sei della scuola la quantità prima della qualità?

Sono un lettore vorace. I lavoro che faccio [oltre ad avere pubblicato quattro romanzi, è anche un autore TV] mi ha insegnato a leggere in modo più obiettivo, con un’impostazione pragmatica e tecnica. Ma se si parla del mio rapporto personale con la lettura, per me i libri sono un po’ come le persone: quando c’è una purezza d’intenti va tutto bene. Nel senso, ci sono storie che magari sono raccontate in modo ingenuo o addirittura difettoso. Ma se l’autore non sta cercando di prendere per i fondelli il suo lettore, io l’apprezzo comunque.

Infatti scrivi di Harold Robbins con lo stesso affetto con cui scrivi di Tolstoy o Thomas Mann.

E perché no, scusa? A volte si sfugge al dolore anche attraverso la cultura cosiddetta “non alta”. Harold Robbins, poi, da bambino lo veneravo: gli intrighi, la ricchezza, quel mondo… nella sua semplicità senza pretese, mi offriva i sogni ad occhi aperti di cui avevo bisogno. Te lo dicevo prima, a uno scrittore chiedo soltanto che non mi prenda per i fondelli, magari volendo apparire, attraverso la scrittura, diverso da com’è.

Da come la metti tu, sembra che i libri siano tutti bravi e belli. Ma ce ne sarà uno che, per una volta, ti ha fatto incazzare?

Una volta ho strappato un libro. Prima ho cominciato a tirarlo e il frontespizio s’è rotto. In un primo momento mi sono sentito un mostro: oh Dio, ho assassinato un libro! Poi ho capito che era un gesto liberatorio, che ci voleva, e l’ho strappato tutto. Era un racconto sull’adolescenza, la mia età a quel tempo, scritto da un adulto che non ne capiva niente ma faceva di tutto per adescare il lettore giovane. Io l’ho vissuto come un tradimento, c’era un che di viscido che mi ricordava quasi i modi dei pedofili… ho già detto che per me la cosa più importante è l’onestà intelluettuale?

Quanto conta la fisicità di un libro, per te?

Conta quanto conta il sesso in un rapporto serio. Sono sempre stato carnale nei libri – ma il tatto, i profumi, queste cose assumono un valore maggiore nel tempo, grazie a quello che ti restituiscono a distanza degli anni. Da una macchia di crema solare ho ricordato un’intera giornata al mare coi miei genitori.

Sei uno di quelli che odiano gli e-book?

Sono molto utili, per esempio per chi ha bisogno di abbassare i costi, specie nell’ambito universitario (se penso a quanto incide il costo dei libri sulle famiglie!). Detto questo io amo interagire coi libri, li strapazzo, li intingo: con un Kindle mi toccherebbe ricomperarmelo ogni due settimane…

 

 

Nell’immagine: un particolare della copertina di Non Avere Paura dei Libri (Hacca 2013)