Attualità

Ma cos’è una rivista oggi?

Una risposta interessante a una domanda che lascia quasi sempre i nostri fogli in bianco. Virtù contemporanee di un'arte antica

di Federico Sarica

Che poi, alla fine, la domanda che più ci poniamo e ci viene implicitamente posta da queste parti è sempre quella: che senso ha fare una rivista oggi?
La verità è che una formula teorica noi non ce l’abbiamo e la miglior risposta che proviamo a dare è mandare Studio in stampa ogni due mesi e tutti i giorni qui online. A voi il giudizio se facciamo bene o male.

Detto questo, passando buona parte del tempo a cercare per passione e lavoro spunti al quesito di cui sopra, ci si imbatte spesso in sterminati dialoghi e discussioni che il più delle volte lasciano comunque un senso di irrisolutezza. In questo mare magnum autoreferenziale e noiosetto di cui siamo fieramente e inevitabilmente parte, nelle settimane scorse mi è capitata a tiro una cosa interessante. Una serie di professionisti del settore hanno lanciato l’ennesimo amo, con tanto di hashtag: #whatisamagazine? Che cos’è una rivista? Una risposta degna di nota l’ha data Alan Rutter, consulente di Condé Nast, studioso di nuovi modelli e molte altre cose.

Una sorta di “cos’è una rivista, in otto punti”. Provo a riassumerli qui di seguito.

Una rivista è:

Una collezione. Un’insieme di storie assemblate con un filo logico. Diciamolo: “storie” è un termine infinitamente migliore di “contenuti”.

Curata. Curare è molto più che aggregare. È un processo che include il selezionare a seconda di qualità, rilevanza, risonanza, estetica. Significa ordinare e contestualizzare, assemblare parole e immagini in modo da amplificare l’impatto di entrambi.

Finita. Quando hai sete è molto meglio bere un bicchier d’acqua che avere una cascata puntata in faccia. Curare significa confezionare un pacchetto soddisfacente. Vale anche per il digitale: provate a pubblicare una storia lunghissima senza contatore di pagine o barra progressiva. Il lettore scappa. A tutti piace finire le cose.

Disegnata. Stile e contenuto. Provate a raccontare una storia a un bimbo con tono piatto e poi provate a raccontargliela gesticolando e facendo le varie vocine. Vedete quale preferisce. Idem per gli adulti: il design è la parte di una rivista che rende le storie migliori della somma delle parti che le compongono. Non è solo una questione di fatti, ma di come questi ti fanno sentire. E questo perché una rivista è…

Un’esperienza, non un servizio. La ragione per cui i lettori pagavano per avere le riviste era che ti regalavano un’esperienza. Le riviste di servizio (al contrario di quello che si dice) sono le più in difficoltà nel passaggio al digitale. Comprare una rivista è un atto emotivo, non razionale.

Collaborativa. Dentro una rivista, niente può essere fatto in maniera isolata: immagini, design, scrittura, produzione vanno di pari passo. E fuori dalle mura della redazione c’è una comunità senza la quale le riviste, digitali o di carta, muoiono.

Periodica. Gli evangelisti digitali non si danno pace per il fatto che il contenuto delle riviste sia ancora distribuito secondo i ritmi arcaici dei cicli della stampa. Giusto, ci si può lavorare. Ma, non importa che sia settimanale, serale o ogni secondo, l’attesa è importante. Quando le cose accadono con intervalli regolari, gli dedichiamo attenzione e entusiasmo: Natale, i Mondiali, etc.

Condivisibile. La sfida più grande che abbiamo davanti con il digitale. Se vogliamo far pagare, possiamo rendere tutto condivisibile? Vedremo. Forse il peer to peer, la condivisione autorizzata, potrebbe cinicamente essere la soluzione. Nel mio appartamento all’università la stessa copia di Mojo con la coverstory sui 100 migliori chitarristi di tutti i tempi è rimasta sul tavolino per 4 anni, diventando fonte di discussione e oggetto di attrazione infinita per noi e per gli ospiti. Oggi quella roba lì probabilmente è un hashtag, ma il principio rimane lo stesso.