Attualità

Linklater, artista del tempo

EsceTutti vogliono qualcosa, il nuovo film di uno dei registi americani più eclettici, ma in fondo più fedeli a se stessi.

di Clara Miranda Scherffig

Esce in questi giorni Everybody Wants Some!!, il nuovo film di Richard Linklater. Per una volta arriva nelle nostre sale con una traduzione letterale: Tutti vogliono qualcosa. Nel 1993 i distributori fecero una scelta diversa e la prima opera importante del regista — Dazed & Confused — uscì con un titolo piuttosto fuorviante, La vita è un sogno. Forse anche per questo, Linklater è stato spesso collocato nell’immaginario comune (italiano, ma anche europeo) come un regista di “americanate”. Prima di considerare Linklater un auteur all’altezza, abbiamo aspettato che girasse Boyhood, un film lungo 12 anni.

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Linklater ha sviluppato negli anni temi e stili diversissimi, dal college movie alla commedia romantica, dalla fantascienza all’animazione sperimentale, includendo il cinema per ragazzi, adattamenti da romanzi, film in costume. La sua carriera può dare l’impressione di incoerenza anche quando si guarda alla filmografia in termini di budget e risultati di pubblico. Ha lavorato con produzioni colossali, ma si è sempre rifiutato di trasferirsi ad Hollywood. Una presa di posizione che si rispecchia nella pratica, spesso e volentieri fortemente indipendente. Dopo quasi trent’anni, il Texas è ancora la fonte di ispirazione prediletta, terreno dove si radicano i nuclei tematici ed ideologici della sua filmografia.

Dazed & Confused ci aveva lasciato nel 1976, con la dirompente gioia dell’ultimo giorno di scuola, un giro in macchina nei sobborghi di Austin e un fondamentale Matthew McConaughey. Tutti vogliono qualcosa — «il sequel spirituale di Dazed»—riprende le fila da quel momento. È il 1980, ma è tutto più ruspante di come sono dipinti gli anni Ottanta: meno corsa alla globalizzazione e più voglia di socialità, non ancora yuppie ma fuori tempo massimo per essere hippie. Si comincia col primo giorno di università, o meglio, i tre giorni prima dell’inizio delle lezioni. Il nostro ingresso nel mondo di una confraternita sportiva — la squadra di baseball locale — è Jake, che nel giro di un weekend viene iniziato alla vita universitaria dai compagni più grandi. Così a grandi linee, e dopo un’occhiata al trailer, Tutti vogliono qualcosa sembra l’ennesima commedia demenziale o bromance sportivo, tuttalpiù un omaggio ad Animal House. Invece il film bissa la grandezza di Dazed & Confused ed è una specie di dichiarazione di poetica.

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Prima di fare cinema, Linklater giocava a baseball. Entra all’università con una borsa sportiva ma al secondo anno scopre di avere una anomalia cardiaca e interrompe la carriera. Il baseball (e lo sport di squadra in generale) rimarrà uno degli elementi cardine del suo cinema (soprattutto in Dazed & Confused, Bad News Bears, il documentario Inning by Inning).Ma il punto non è tanto vincere la partita, quanto lo spirito di squadra e l’avventura condivisa del college (un’altra esperienza che, come il baseball, livella le classi sociali). Su questa base costruisce sceneggiature serratissime, iper parlate ma senza quell’imbarazzante eccesso di altre commedie con cast maschili. È significativo poi che Tutti vogliono qualcosa giri intorno al baseball, ma di sport vero e proprio vediamo solo venti minuti (di allenamento). Mostrare in sordina l’azione e raccontare la vita attraverso i cosiddetti momenti morti: pura filosofia linklateriana.

Abbandonata la carriera sportiva, Linklater si interessa alle materie umanistiche. Senza laurearsi, lascia l’università e lavora su una piattaforma petrolifera. Legge tantissimo. Al ritorno in Texas compra una Super 8 e, da autodidatta, comincia la sua formazione cinematografica. Il risultato di quegli anni è Slacker, girato nella caldissima estate del 1989. È una tappa importante della cinematografia indipendente americana. Esce negli stessi anni di Sesso, bugie e videotapes, eppure l’influenza di Soderbergh (che poi ha avuto un percorso molto più hollywoodiano rispetto al coetaneo Linklater) nella successiva generazione di cineasti è minore. Interpellato insieme ai fratelli Duplass e Jason Reitman (Juno), Kevin Smith — autore della saga Clerks — racconta con entusiasmo che Slacker fu per lui un corso di cinema accelerato: «Ha usato ogni formato possibile, dal Super 8 ai 60 mm, anche il fish eye. E tutto senza tagli, con interpretazioni super naturali… guardare quel film ti fa sentire capace di fare qualsiasi cosa». Prodotto con budget minimo, il film è una collezione di momenti dove «un tizio cammina e incontra un altro tizio e si mettono a parlare e si va di tizio in tizio e di chiacchiera in chiacchiera». Di etimologia incerta — cominciò a circolare tra i neobeatnick e fu poi recuperato dallo slang del sud negli anni Ottanta —uno slacker è una specie di inetto, uno che rifiuta la logica del lavoro; il termine fu poi connotato negativamente (in un discorso agli studenti della Ucla, Bill Clinton disse «You’re not a generation of slackers, you’re a generation of seekers»). Slacker è infatti la quintessenza del cool anti-mainstream, dell’etica indie e, soprattutto, dell’amore di Linklater per personaggi membri di comunità minori o figure bizzarre (la comparsa di Theresa Taylor dei Butthole Surfers). Qui vediamo anche per la prima volta le sue famose “talking walks”, un tipo di cinema conversazionale che si può ritrovare in Rohmer (e adesso Baumbach). Slacker è chiaramente anche una dichiarazione d’amore per Austin e per il Texas e in generale, tutto centri commerciali (riguardatevi SubUrbia, del 1996) e strade amplissime dove girare in macchina e far festa finché non arriva la polizia.

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Slacker è anche punto di partenza della passione di Linklater per cinema e musica, che prende forme molto concrete. Nel 1985 fonda l’Austin Film Society, con l’intento di far circolare il lavoro di cineasti underground o europei altrimenti inaccessibili. Co-fondatore è Louis Black, che due anni più tardi lancerà la prima edizione del SXSW, oggi uno dei più importanti festival internazionali per cinema, musica e tecnologia. Le sue colonne sonore rispecchiano poi le sue fissazioni musicali: non solo gli Aerosmith in apertura di Dazed & Confused  e Everybody wants some!! dei Van Halen, ma anche le collaborazioni con il compositore texano Graham Reynolds e l’ensemble Friends of Dean Martinez, costola dei Calexico. Gli omaggi più espliciti sono in School of Rock (2003) e Me & Orson Wells (2008). L’ultimo è l’adattamento di un romanzo di formazione — il formato favorito di Linklater, ambientato nel contesto del Mercury Theater di Orson Wells. School of Rock è invece il lavoro più conosciuto, senz’altro il maggiore successo commerciale: prodotto con un budget di 35 milioni di dollari, ha finito per incassarne oltre 131. Importante anche per la versatilità di Jack Black, School of Rock è un esempio della metodologia di Linklater, a metà tra formalismo estremo e improvvisazione.

Nella celebrazione della provincia, si può scorgere anche una critica alla società americana, sebbene più allusa. Fast Food Nation (2006) è il suo film più critico e meno riuscito, ma il soggetto — dall’omonimo saggio di Eric Schlosser sulle implicazioni tra cultura alimentare e manodopera immigrata — è comunque meritevole di nota. La cifra critica si trova anche nella sperimentazione formale di lavori più maturi. C’è Tape, del 2001, che si svolge in tempo reale ed è girato tutto in video, e soprattutto le animazioni di Waking Life (2000) e A Scanner Darkly (2006). Quest’ultimo è tratto dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick e si può riassumere con la descrizione fatta da Keanu Reeves, attore nel film: «Un film sulla paranoia tutta americana delle teorie del complotto», un tema già accennato in Slacker nel monologo sull’omicidio Kennedy a Dallas, sempre in Texas. Meno cupo è il pre-11 settembre Waking Life, disegnato con la stessa tecnica rotoscope, una specie di versione psichedelica di Slacker, dove un personaggio ci guida di conversazione in conversazione, esplorando i temi del sogno, della percezione, della suburbia e del cinema.

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Se non per School of Rock e Dazed & Confused, avete senz’altro conosciuto Linklater per la sua meravigliosa trilogia romantica. Girati nell’arco di quasi vent’anni, Before Sunrise (1995), Before Sunset (2004) e Before Midgnight (2013) coprono la crescita sentimentale e individuale di due persone, prima a Vienna, poi a Parigi e infine, come coppia, in Grecia. Interrogato sulla propria vita di coppia Linklater ha risposto: «Mettiamola così: è una relazione adulta, che continua e che ha prodotto tre figli». Il concetto di “relazione continua” con qualcosa o qualcuno non è dunque solo alla base del rapporto tra Linklater e i suoi temi, ma anche nella rappresentazione della “Grande Storia d’Amore”. Ma qui quasi non esiste trama, perché non è il dramma — certo ci sono i conflitti, soprattutto quando si invecchia — né l’idillio che interessano. Sono i gesti minori, le pause preziose, la consapevolezza del proprio sguardo sull’altro: non c’è bisogno di «emozioni speciali, la vita reale è già bella così», spiega Ethan Hawke (che insieme a Julie Delpy ha scritto il secondo e terzo episodio). Un amore piano ma non meno profondo di quello che strappa i capelli insomma, pure molto sensuale anche quando è solo alluso o parlato: «Quando hanno visto l’ultima scena di Before Sunset, i produttori volevano il bacio… ma quella è una delle sequenze più erotiche che conosco».

Ethan Hawke racconta che gli unici a voler il sequel erano lui, Delpy e Linklater: «È stata la trilogia meno giustificata e meno redditizia della storia del cinema!». Un altro progetto che ha visto la luce grazie alla tenacia dei professionisti coinvolti è il fondamentale Boyhood (di cui Studio aveva parlato qui). Girato nell’arco di 12 anni, con gli stessi attori, è un film su un bambino che diventa ragazzo. È anche un film autobiografico, sull’essere genitori, sull’estate ad Austin e molto altro. Soprattutto è un film sul tempo. Linklater è autore di film che si svolgono in un giorno solo ma è anche il regista che filma storie lunghe una vita. Com’è possibile combinare uno sguardo così ampio, e allo stesso tempo, così affettuosamente legato ai dettagli della vita quotidiana? La montatrice Sandra Adair (che lavora con Linklater dal 1993), intervistata sull’editing di Boyhood, risponde che i film di Linklater sono radicati nella realtà. Non dice ispirati, dice “grounded”. Potrebbe proprio essere qui la chiave dell’autorialità di Linklater: la capacità di dar vita agli aspetti più normali e insignificanti dell’esistenza. BFI l’ha scritto meglio di chiunque altro: «Se il cinema è anche l’arte del tempo che passa, allora Linklater si è dimostrato uno dei registi più dedicati e consapevoli in circolazione. A differenza di altri cineasti spesso considerati autori, la specificità di Linklater non si trova nella superficie dei suoi film, in un’estetica o in un’inquadratura marchio di fabbrica, ma piuttosto nel dna dei suoi film, in una continua conversazione con il cinema, e cioè, in una conversazione sul tempo che passa».