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I fantasmi di Letizia Muratori

Dagli esordi con Severino Cesari alle falsificazioni biografiche, la poesia e il cinema, un'intervista alla scrittrice romana appena uscita con il suo nuovo libro, Spifferi.

di Alcide Pierantozzi

Nel giugno del 2007 avevo vent’anni e mi trovavo in Sardegna, al festival letterario di Gavoi, a una tavolata di editor e scrittori per me in gran parte sconosciuti. Presi singolarmente erano tutti deliziosi e gentili, ma nel loro insieme gli addetti ai lavori – credo valga in qualsiasi ambito, ma in quello editoriale di più – hanno la capacità di regredire a un’età prepuberale. Una donna sui quarant’anni, editor free-lance di un noto best seller, era seduta tra me e Giorgio Faletti quando, assumendo quell’espressione un po’ cinese con gli occhi stretti e la fronte aggrottata che oramai ho imparato a riconoscere, si mise letteralmente a gridare: «Adesso avete visto questa nuova di Einaudi Stile libero? Dai, quella che scrive i disse a capo, Letizia Muratori». «In che senso i disse a capo?» chiesi io. «Le didascalie. Quando fa un dialogo, ad esempio “Come stai Sempronio?”, dopo il punto interrogativo lei va a capo e scrive disse con la maiuscola». Di fronte alla grande D che la donna incise nel vuoto, Faletti sbuffò, poi le afferrò morbidamente la mano inanellata. «Signora, mi scusi, ma non saranno cazzi suoi se questa scrittrice vuole scriverli andando a capo? Siamo a cena, basta parlare di lavoro». È un episodio senza il quale non mi sarei mai precipitato a leggere La vita in comune, allora il secondo romanzo di Letizia Muratori, e forse non avrei scoperto così presto questa scrittrice straordinaria. In undici anni Letizia ha prodotto molto, oltre ai due romanzi Einaudi ne ha pubblicati altri cinque con Adelphi, uno più singolare e intelligente dell’altro. Il suo ultimo libro, Spifferi (La Nave di Teseo), è una raccolta di racconti abbastanza brevi: medium, telefoni posseduti, incendiari, dentro ci sono tutti i feticci del genere. Anche se i temi trattati vanno dall’immigrazione alla genitorialità omosessuale e, come ogni volta che Letizia ci racconta una storia – che sia di bambole cabbage o di animali domestici – vediamo tutto nitidamente, anche se è quasi impossibile capire cosa. Nata a Roma nel 1972, cultrice di Muriel Spark, appassionata di mesmerismo, prima di mettersi a scrivere Letizia ha bisogno di fare lunghe passeggiate e di fermarsi al bar per riflettere. Accanto al letto tiene appeso da sempre un piccolo quadro che ritrae una sonnambula che avanza spiritata con un lumino acceso. È il suo angelo custode.«Ho abbandonato quel marchio di fabbrica, quei “disse a capo”, quando hanno cominciato ad annoiarmi», mi racconta al telefono, «ma anche per dispetto, ti dico la verità, quando gli editor hanno incominciato ad abituarcisi. Tu non hai idea di quanto all’inizio non fosse gradito in certi ambiti un pochino tradizionali e “maestrini”, diciamo così, dell’editing: quel genere di professionismo che è l’anti Severino Cesari, per intenderci».

ⓢ In che senso?
Severino non esponeva mai la sua idea della storia e dello stile, si prendeva sempre la briga di capire ciò che aveva per le mani.

ⓢ Cesari è stato il tuo «scopritore», vero?
Era l’estate caldissima del 2003, quando con la sua gentilezza enigmatica e spiazzante mi chiese un racconto per l’antologia Ragazze che dovresti conoscere. Aveva letto le mie poesie e mi disse che avevano un potenziale narrativo. Mi diede un’occasione e io, credendo in lui più che in me, scrissi “Saro e Sara”. Lui era un predatore vero, se fiutava la preda non la mollava. E sai cos’era per lui la preda?

ⓢ Cosa?
Un libro di cui per primo intuiva la possibilità. Allora cominciava a seguire il tuo lavoro senza imporre niente, senza indirizzarti, il suo compito era assistere all’emersione di una storia con una serietà che a volte, credimi, ti lasciava di stucco. In corso d’opera potevi chiamarlo a tutte le ore, lui era lì che ti ascoltava e pareva che nella sua vita non esistesse altro che questo compito da portare a termine. Ovviamente non era così, aveva tanti libri da seguire, e ancora mi stupisce la capacità che aveva di far sentire tutti noi, i suoi autori, unici. Ci sapeva fare con le persone, riusciva a tirargli fuori il meglio, ma sempre in quel suo modo originale, misterioso e acuto, che non aveva niente di furbo.

ⓢ Quindi, prima di esordire con Einaudi, scrivevi poesia? Cos’altro facevi?
Non avevo la vocazione di fare la scrittrice, questo è sicuro. Da piccola volevo fare la professoressa, la libraia, la cantante, mi piaceva scrivere solo perché ero brava, molto più brava di ora. Se pubblicassi i miei temi delle elementari, sarebbero un successo clamoroso. Leggevo poesia, la scrivevo, ma poi a un certo punto ho smesso. Oggi mi interessa soprattutto Silvia Bre, che adoro.

ⓢ Cos’hai studiato?
Teatro, ma lavoravo in una rivista di cinema che faceva informazione pura, schede e interviste, anche trade. Frequentavo l’ambiente cinefilo radicale perché collaboravo con Close-up, una rivista diretta da Giovanni Spagnoletti. Io ero lì che mi occupavo di teatro e tenevo una rubrica di satira, non osavo recensire niente. Era un bel gruppo, quello che circolava intorno a Close-up. Penso a Serafino Murri, Roberto Pisoni, Luca Franco, Stefano Cappellini, l’intelligentissima Francesca Vatteroni, Roberta Saiardi. C’era anche Luca Guadagnino.

ⓢ Allora non è un caso se nei racconti di Spifferi si sente moltissimo la tua passione per il cinema, più che in altri tuoi libri…
Il cinema mi ha esaltata per molto tempo, l’esaltazione l’ho sentita soprattutto in quegli anni. Era davvero un bel momento. A riportarmi coi piedi per terra, ogni tanto ci pensava Michele Anselmi, che allora frequentavo assiduamente. Amico di Spagnoletti, ma criticamente schierato agli antipodi: Michele era anticinefilo militante, incline al mainstream quanto al cinema scabro di Bruno Dumont. Passava per essere un reazionario, faceva incazzare tutti e ancora oggi credo che questo sia il suo hobby, oltre alla musica country. Gli devo molto, ha creduto per primo nelle mie poesie, mi ha molto incoraggiata. Con lui ho conosciuto tutta la banda dell’Unità, Alberto Crespi, Cristiana Paternò, Toni Jop, Stefania Scateni, Fernanda Alvaro. Infine avevo la mia rivista di informazione, Primissima, dove ho lavorato per anni, sopportata da quel santo di Piero Cinelli. Sempre parlando di cinema, mi ha dato una bella ripulita anche Matteo Codignola, tra le mille cose che è stato e ancora è per me, Matteo è stato la mia guida ai segreti della Vecchia Hollywood.

ⓢ E hai pensato a qualche film in particolare scrivendo questi racconti?
Molti film horror giapponesi. Nel racconto “Questa è la rosa bulgara”, poi, il finale è molto influenzato da una sequenza che, secondo me, è una delle più potenti del cinema degli ultimi anni: parlo del film Ida, diretto da Paweł Pawlikowski. C’è qualcosa di grande in quella morte. Dunque mi sono ispirata a questa scena di suicidio repentina, naturale. Sono uscita dal cinema sapendo che su quel gesto, così netto, inatteso e spaventosamente vero, avrei prima o poi scritto un racconto. Così è stato.

Letizia Muratori

ⓢ Come mai sei racconti?
Quando Nuovi Argomenti mi ha chiesto un racconto sul tema del fantasma ho detto subito di sì, in genere mi piace lavorare su commissione. Non pensavo che ne sarebbe venuto fuori un libro finché, dopo aver scritto il primo, ho sentito che non era sufficiente, c’era altro, e sono andata avanti. Sono di fatto racconti, ma sono sei e non avrebbero potuto essere cinque, né venti. Voglio dire che quello che li tiene insieme per me non è tanto il tema, né la forma raccolta, ma la misura: la certezza di aver declinato quella materia fin dove era necessario.

ⓢ Questi fantasmi appaiono più che altro per controbilanciare il senso di estraneità dei personaggi in carne e ossa, molto spesso forestieri in Italia o italiani all’estero. O sbaglio?
Sottoscrivo: fantasmi sì, ma soprattutto forestieri. Non avrei saputo trovare modo migliore di definirli. Per il resto, sono una lettrice di racconti dell’orrore, molto fedele alle regole del genere: da lettore, leggendo Spifferi (un titolo che devo a Livia Signorini), sono sicura che mi infurierei. Ma se il lettore può permettersi il lusso di essere conservatore, lo scrittore no. Mai.

ⓢ Detesto la parola autofiction, ma tu per un certo periodo l’hai praticata, no? Anche se in modo molto diverso dagli altri. Forse, la tua, dovremmo chiamarla falsificazione. Questi racconti, visto che parlano di fantasmi, si possono considerare un ritorno alla fiction vera?
Anche per me l’espressione autofiction è vagamente ripugnante. L’idea poi che uno si “autotarocchi” la biografia fa addirittura un po’ di compassione, eppure è quello che succede, che fanno in molti, me compresa. Per chi scrive c’è un lato indiscutibilmente divertente nel ricomporsi sulla scena con innesti, capisco meno chi si appresta alla lettura di autofiction. L’autofiction di un altro non la leggerei nemmeno pagata, l’autointervento ha una vocazione terapeutica che mi lascia indifferente. Mentre la falsificazione è tutta un’altra storia, è un’arte sofisticata, soprattutto richiede un certo gusto.

ⓢ Secondo te perché è così popolare l’idea terapeutica della scrittura?
Be’, è identica a quella del riconoscersi catartico nella sfiga comune o nel cinismo urlato ma di maniera. I libri sono pieni di cattivi soggetti che chiedono di essere perdonati, di perdenti gigioni che la sanno lunga. Non lo so, è tutto così autoassolutorio e consolatorio. Insomma, per scrivere autofiction (trovandogli possibilmente un altro nome) bisogna avere il talento vero di falsario, il che non è così comune.

ⓢ E perché no?
Perché non si scrive nel nulla, ma nella vita, e questa appare sulla pagina, si lascia usare e viceversa ti consuma.